Dossier
Dove va l'Italia?
Mentre il capitalismo nazionale continua a essere in difficoltà sul mercato mondiale, nel campo della politica borghese è in atto uno scontro di tutti contro tutti.
Su un punto, però, Lega ed Msi, gli spezzoni della Dc e Segni, i Berlusconi, i De Benedetti e gli Abete ritrovano l'unanimità: per la ripresa del capitalismo, è indispensabile continuare a colpire, dividere, disorganizzare il proletariato. Cercando nello stesso tempo di coinvolgerlo, alla coda del capitale nazionale, nella scatenata guerra per i mercati.
Per il proletariato, invece, l'uscita dal tunnel della crisi, non italiana bensì internazionale, passa per l'estensione ed il potenziamento della sua battaglia anti-capitalista. Contro tutte le rappresentanze politiche della classe borghese. Contro il secessionismo leghista, come contro gli appelli in difesa di una nazione-Italia che vorrebbe rilanciarsi intensificando il nostro sfruttamento.
Questa battaglia può esser condotta vittoriosamente solo sotto la bandiera di classe di sempre: quella della lotta rivoluzionaria per il socialismo.
Al 99% il lettore di queste righe non è né leghista né missino né nostalgico della D.C. Nutre una sanissima ostilità nei confronti dei vecchi e dei "nuovi" partiti borghesi. E non si aspetta certo da loro la soluzione dei drammatici problemi con cui i lavoratori sono costretti a confrontarsi. Fin qui tutto bene: contenti di essere dalla stessa parte e sulla stessa lunghezza d'onda.
E' altrettanto probabile, però, che egli sia convinto che la crisi "italiana" dipenda essenzialmente dalla corruzione della "classe politica" e dall'incapacità della "classe imprenditoriale" a fare il proprio mestiere. E che si attenda il superamento delle attuali difficoltà da un ricambio in senso "progressista" della classe dirigente, fermo restando il quadro capitalistico della (vera, rimarcherà qualcuno) economia di mercato.
Su questo, lettore, la nostra analisi e la nostra diagnosi, condotte con le categorie del marxismo, divergono dalla tua. Ti chiediamo perciò di seguirci, con un pò di pazienza, in un ragionamento che, per arrivare a delineare quella che è per noi l'unica soluzione di classe proletaria per l'uscita dalla crisi, deve per forza di cose partire da lontano. Da alcune considerazioni sulla storia e la struttura del "nostro" capitalismo, e sulle prospettive del sistema capitalistico nel suo insieme.
Un'intera epoca sembra dividerci dai giorni in cui Craxi, rinnovando il mussoliniano "Noi siamo un popolo che ascende. Gli altri declinano", celebrava il sorpasso dell'Italia sulla Gran Bretagna. A cosa si deve questa spettacolare inversione di tendenza? e che cosa essa prepara? Uno sguardo all'indietro può servire a comprenderlo meglio [1].
In Italia, che fu nel medioevo il baricentro del commercio mondiale, i rapporti sociali capitalistici sono fioriti con largo anticipo rispetto al resto dell'Europa. Ma un complesso di circostanze geo-politiche, non ultima la presenza del papato, ha fatto sì che il suo territorio rimanesse fino al 1870 frammentato in tanti piccoli poteri e potentati locali. Priva di quella insostituibile leva della accumulazione capitalistica che è lo stato nazionale, la precoce borghesia italiana è rimasta indietro, a lungo compressa tra le grandi forze semi-feudali decadenti e le grandi nazioni borghesi emergenti.
La tardiva nascita dello stato nazionale è avvenuta così all'insegna d'un duplice compromesso originario: verso le potenze straniere di volta in volta elette a tutrici delle "legittime rivendicazioni" italiche, e verso le classi proprietarie del centro-sud (e la Chiesa cattolica), disposte a mettersi sotto padrone "indigeno", a condizione però di assicurarsi in cambio un ritorno in termini di rendita, un prudente gradualismo delle trasformazioni sociali e una bella fetta di potere politico-amministrativo (con annesse sinecure).
Questo duplice compromesso, i cui effetti sono tutt'oggi tangibili, è stato pagato dal proletariato e dalle masse contadine povere con lo sfruttamento più duro, miseri salari, emigrazione in massa, ed un seguito di regimi politici tra i più violentemente anti-proletari d'Europa (fu la borghesia italiana, non lo si dimentichi, la prima a generare il fascismo, ed i campioni della democrazia occidentale alla Churchill gliene furono grati in nome degli interessi del capitalismo tutto).
Ma esso non è stato senza conseguenze sullo stesso sviluppo del capitalismo nazionale, rimasto asfittico e fortemente squilibrato. Mancando di una riserva coloniale esterna da cui succhiare ricchezza ed in cui riversare la produzione mercantile "eccedente", la classe borghese ha incentivato la crescita dell'industria del nord attraverso il blocco delle forze produttive moderne esistenti nel Sud all'atto dell'unità. Il "sottosviluppo" del Sud è stato la precondizione dello sviluppo complessivo, molto diseguale, del "nostro" capitale.
Pur con questo handicap, l'Italia, grazie ai più spregiudicati commerci diplomatici, alle aggressioni coloniali in Africa ed alla fortunata partecipazione alla prima guerra mondiale, ha fatto ad inizio secolo il suo ingresso nel pugno degli stati imperialisti che sfruttano e opprimono i lavoratori di tutto il mondo. Da allora, dal tempo di Versailles (e della "vittoria dimezzata"), il "nostro" capitalismo "lotta", con ogni mezzo, ogni alleato, ogni genere di frode, per farsi riconoscere quale membro con pari diritti al tavolo dei grandi predoni imperialisti.
In due momenti esso è sembrato vicino alla méta. Nella seconda metà degli anni '30, con il fascismo giunto (anche quanto a consenso di massa) all'apice della sua forza, dopo aver distrutto l'organizzazione di classe del proletariato e schiacciato la rivolta delle popolazioni libiche ed etiopiche. E nella seconda metà degli anni '80, con la prima repubblica democratica (ed il craxismo) al culmine delle loro fortune, in una congiuntura di provvisoria normalizzazione sia del fronte sociale interno che del proprio "spazio vitale" in Medio Oriente.
In entrambi i casi, il sogno è presto svanito nel cozzo con forze borghesi soverchianti ben altrimenti organizzate e con una rinnovata resistenza degli sfruttati, in un quadro d'insieme segnato dal corso discendente del capitalismo internazionale tutto. Ma (non bastassero quelle del dopo-Adua e del dopo-Caporetto) l'esperienza del dopo-8 settembre 1943, la più catastrofica tra tutte le disfatte nazionali, ci ricorda come la borghesia italiana già altra volta sia riuscita a riproporre in modo vincente "il proprio giuoco" contro il proletariato, risalendo la china.
E' straordinariamente ingenuo, perciò, credere che i padroni di casa nostra non sappiano fare il loro mestiere, sicché dovrebbe essere la classe operaia ad insegnarglielo. Essi lo conoscono fin troppo bene! E se lo hanno esercitato e lo esercitano ai nostri danni, non è per la loro presunta inettitudine a perseguire il benessere dell'"intera nazione" (quale borghesia è capace d'un simile prodigio?). Ma perché quell'economia di mercato di cui la stessa "sinistra" si fa sempre più convinta paladina, ha delle leggi di funzionamento immutate ed immutabili, che -qui "come" ovunque- scaricano sul proletariato i costi di una nuova crisi generale del capitalismo, richiedendo per questa operazione sociale reazionaria forme rafforzate della dittatura di classe capitalistica.
Nessun abbassamento della guardia, perciò, dev'esserci da parte della classe operaia. Al contrario: dobbiamo prepararci in modo sistematico a rintuzzare una sequenza di attacchi capitalistici che saranno, in confronto a quelli sin qui avvenuti, di inaudita violenza, ed a batterci per far avanzare la nostra prospettiva di potere.
Le radici della nuova grave crisi del sistema politico borghese affondano in profondità nella sotto-struttura, nell'esaurimento del ciclo affluente post-bellico. Di questo l'esplosione di Tangentopoli gonfiata fino al punto da sembrare la causa delle cause dell'attuale dissesto, è invece soltanto un effetto di superficie che tra non molto sarà stato dimenticato.
L'economia italiana non è un'isola a sé. E' parte integrante dell'economia mondiale, realtà unitaria che sempre più domina la vita dei singoli paesi, dominata a sua volta da capitali e capitalismi mastodontici in irriducibile competizione tra loro. Da un ventennio l'insieme dell'economia mondiale sta avvitandosi progressivamente in una crisi che va sempre più generalizzandosi. L'avvento della crisi, acuendo la concorrenza tra imprese e tra stati, ha esasperato i "normali" meccanismi di concentrazione-centralizzazione del capitale. Ed è proprio a questo processo dialettico di contemporanea disorganizzazione e riorganizzazione dell'economia mondiale che la "nostra" borghesia fatica a tener dietro.
Come ha spiegato Marx, concentrazione e centralizzazione del capitale sono fenomeni connessi, non identici. La concentrazione del capitale è il processo (relativamente lento) di accumulazione che si basa sull'incremento della produzione di merci: la massa socialmente crescente dei mezzi di produzione e delle forze di lavoro viene, dall'agire della concorrenza, sospinta a radunarsi -si concentra, appunto- in capitali individuali di dimensioni sempre maggiori. La centralizzazione del capitale, invece, processo comparativamente assai più rapido, prescinde dall'incremento della produzione e provoca il collegamento e la fusione di capitali già operanti. Senza, dunque, aumentare l'entità della ricchezza sociale esistente sotto forma di capitale, ne attua una diversa ripartizione a beneficio delle imprese e delle nazioni più potenti.
Nell'ultimo ventennio, in seguito all'esaurirsi della spinta propulsiva della crescita post-bellica (con la sola importante "eccezione" dell'Est asiatico), l'accumulazione-concentrazione del capitale ha proceduto, quando e dove ha potuto farlo, a passo di lumaca, mentre la centralizzazione ha corso a passo di lepre. Forte di un tasso di crescita della produzione e della produttività del lavoro superiore alla media occidentale, il "nostro" capitalismo ha partecipato da co-protagonista al primo processo. Ma, per la sua debolezza in campo finanziario, è rimasto distanziato sul secondo e più determinante piano. Più determinante perché il ritardo sul versante della centralizzazione, della appropriazione di capitali già esistenti, rende difficile continuare a "vivacchiare" sul semplice piano della concentrazione. Quando il mercato si blocca o si restringe, la concorrenza si fa più dura e solo chi dispone dei sempre più cospicui capitali necessari, è in grado di innalzare i propri livelli di produttività e sperare di resistere.
Quella del Craxi non era vuota millanteria. Gli indici che i suoi governi potevano vantare a metà anni '80 erano di tutto rispetto, sia "in assoluto" che in rapporto al passato. 5-6° capacità di produzione industriale del mondo. Una quota del 7% delle esportazioni mondiali. Un 5° posto per le riserve di oro ed il 6° per quelle monetarie. Il quarto nella graduatoria dell'esportazione di macchinari, macchine utensili ed armi. La settima quota di partecipazione nel FMI, e così via. Fintantoche l'internazionalizzazione del capitale è andata avanti sull'onda della crescita del volume degli scambi di merci e l'espansione dell'attività internazionale delle imprese non è stata affidata principalmente ai mercati finanziari, il capitale made in Italy ha tenuto bene botta.
A misura, però, che sotto il pungolo delle reiterate recessioni la gara inter-imperialistica è andata sempre più combattendosi sul terreno della centralizzazione finanziaria, delle joint-ventures, delle acquisizioni, delle fusioni, delle incorporazioni, nell'ambito di un mercato azionario, monetario e finanziario realmente unificato e "liberalizzato" su scala mondiale, è emersa la inadeguatezza di un "modello di crescita" ancora troppo tributario della esportazione di merci. Insomma, contrariamente al "senso comune" di sinistra, il capitalismo nostrano ha perso quota non perché fosse troppo parassitario, bensì perché lo è ancora troppo poco! Paradosso? Solo per quanti non vogliono prender atto che nel capitalismo decadente decisiva è la finanza (e cioè l'attività di raccolta e di esportazione dei capitali liquidi), e non la produzione di beni e l'industria in sé e per sé (e l'export di merci), né, men che meno, la produzione di beni socialmente utili.
Ebbene, le imprese italiane, nonostante l'accelerazione degli investimenti all'estero, non sono riuscite a ridurre il loro gap di internazionalizzazione: per ogni 100 addetti in Italia, ne hanno all'estero 9-10, mentre la media occidentale è superiore a 20. Ai grandi gruppi industriali privati sono andate buche tutte le più impegnative proiezioni all'estero (da quella di Gardini sul mercato della soia a Chicago a quella di De Benedetti verso la Société Generale de Belgique). A nessuno di essi (Fiat, Olivetti, Ferruzzi, etc.) è riuscito il salto da multinazionale a vera e propria "global company". Quanto alle super-indebitate holding di stato, sono da anni obbligate a dismettere invece che ad acquisire, ciò che nell'immediato segna comunque una loro perdita di peso.
La semi-autarchica borsa di Milano non è riuscita ad entrare nel Gotha delle borse mondiali. Anzi, in ambito Cee il valore delle transazioni effettuate alla borsa meneghina è sceso dal 6% del 1985 al 3% del 1990. Tanto che la speculazione borsistica nostrana, per non restare tagliata fuori dal vortice dei mercati finanziari mondiali, ne ha dovuto traslocare un pezzo (quello più moderno e sofisticato dei futures sui titoli pubblici) nella City londinese. Il sistema bancario italiano, a causa della sua frammentazione e del suo (relativo) scarso dinamismo fuori dai confini nazionali, è rimasto anch'esso escluso dalla cuspide della piramide bancaria mondiale. Né tra i nuovi re del capitalismo mondiale (banche d'affari, società di servizi finanziari e simili intermediari finanziari "puri") può essere tuttora annoverata una sola istituzione italiana, neppure la qui onnipotente Mediobanca.
Ovviamente, il processo di concentrazione-centralizzazione del capitale nazionale (nei limiti in cui è possibile usare una simile categoria) è rimasto tutt'altro che fermo. Esso ha fatto progressi, però, -qui il nodo che viene ora al pettine- prevalentemente sul piano interno, portando alla formazione di quattro-cinque gruppi monopolistici favoriti dalla libertà di attingere a piene mani al bilancio statale.
Per decenni i grossi capitalisti hanno intascato guadagni da favola rovesciando sullo stato le proprie perdite, e partecipando poi (e facendo partecipare via via altri strati borghesi) alla alienazione dello stato necessaria a ripianare quelle stesse perdite. Pareva fosse stata trovata una formula magica, senonché ad un certo punto l'incantesimo si è rotto. Perché con l'avvento della stagnazione il debito pubblico, nel frattempo ingigantitosi a dismisura (+400% dall'83 al '93), si è trasformato -più che negli altri paesi imperialisti, affetti comunque anch'essi dalla medesima malattia- da "moltiplicatore" in fattore di freno dello sviluppo, da elemento di stabilizzazione in una causa di instabilità economica, sociale e politica.
Certo, lo strettissimo intreccio creatosi tra il grande capitale creditore ed il suo stato-ostaggio ha sostenuto per un tutto un tratto produzione e pace sociale. L'espansione del deficit pubblico, infatti, ha creato una capacità di consumo aggiuntiva da parte dello Stato che è servita ad incrementare anche la capacità di consumo di larghi strati della popolazione, sotto forma di stipendi, pensioni, integrazioni alle famiglie, etc. Di questo gonfiamento dei consumi hanno beneficiato in sommo grado proprio le maggiori (e con esse non poche medie) imprese nazionali, che hanno potuto ingrandire le loro dimensioni (ed impegnarsi sui mercati esteri) per lo più proprio grazie a questo mercato "artificiale" protetto. E' venuta a crearsi, così, una sorta di blindatura del mercato interno nei confronti della penetrazione dei capitali "stranieri", rafforzata dalla renitenza di Roma nei confronti delle direttive liberalizzatrici della CEE.
Ma pure un simile argine eretto contro il capitale finanziario internazionale, dai costi ormai insostenibili, si rivelerà del tutto inutile -l'ultima ristrutturazione di vertice alla FIAT, con l'incremento delle quote in mano a Deutsche Bank e Alcatel ne è stata un'avvisaglia-, se il grande capitale nazionale non riuscirà, a sua volta, a conquistare in tempi serrati una parte di primo piano nel mercato finanziario e borsistico mondiale. E se non riuscirà a farlo prima che i nuovi paesi industrializzati dell'Asia, scalzando il made in Italy dalle sue sempre più insicure riserve nelle produzioni mature o intermedie, ne appesantiscano le difficoltà rispetto agli altri grandi stati usurai. Questo impongono le sacre regole della economia di mercato.
Il recente balzo delle esportazioni di merci non costituisce un effettivo superamento delle difficoltà. E' stato soltanto un (provvidenziale) tampone sostenuto interamente dalla svalutazione della lira. Ma il deprezzamento della lira, se ha dato ossigeno a medie e piccole imprese, ha d'altro lato svalorizzato il capitale nazionale complessivo, facilitandone la scalata esterna (ben 80.000 miliardi di investimenti esteri nei primi dieci mesi del '93, +1.000% rispetto al '92...) e riducendone il potere d'acquisto e la forza d'espansione sui mercati finanziari mondiali. Senza dire che lo stesso export italiano di merci, concentrato com'è tuttora per oltre il 70% tra Europa ed America Latina, a mala pena lambisce i mercati con la maggior capacità di assorbimento, quelli dell'Estremo Oriente. Ciò che segnala, per i capitalisti nostrani, un pericolo non lieve in prospettiva: restare ai margini proprio dell'area più dinamica del capitalismo mondiale, l'unica tuttora ribollente di affari [2].
Il "nostro" capitalismo si trova quindi stretto in una morsa ben altrimenti ferrea di quella degli schifosi vampiri casalinghi alla Poggiolini o alla Pomicino. Questa morsa è costituita "in alto" dagli stati finanziariamente (e militarmente) più forti, ed "in basso" dai Paesi esportatori emergenti. Paesi i cui salari sono da dieci a venti, o più, volte inferiori a quelli europei: si rifletta su questo dato per intendere in quale abisso sprofonderebbe il proletariato italiano ed occidentale se, invece di porsi come punto di riferimento per la lotta degli operai asiatici e terzomondiali, accettasse di mettersi in concorrenza con essi.
Il ritardo storico dell'imperialismo italiano è riemerso in tutta la sua consistenza anche in conseguenza del tracollo dei regimi "socialisti" e della guerra del Golfo.
Dal 1945 al 1989 la borghesia italiana ha fruito dell'essere un crocevia politico-diplomatico tra Ovest ed Est, Nord e Sud. Fedelmente legata al carro NATO del "libero" Occidente, Roma si era col tempo ritagliata, grazie anche al contributo "internazionalista", "anti-colonialista" ed "autonomista" del PCI, un ruolo privilegiato di dialogo con l'area del "socialismo reale".
La fine del bipolarismo di Jalta ha trasformato d'un colpo l'Italia da paese ponte corteggiato da entrambi gli schieramenti, in paese di frontiera minacciato dalle convulsioni dell'Est e dalle furiose battaglie inter-imperialistiche per la conquista di "spazi" ad Est.
L'inizio di una nuova fase di aggressione imperialista armata diretta alle masse sfruttate del Medio Oriente, poi, ha non poco complicato i giuochi d'equilibrio della "grande mediatrice" (o meretrice, fate voi). Di malavoglia, la "nostra" borghesia si vede ora obbligata a difendere le sue postazioni nel mondo dotandosi di una macchina militare all'altezza delle sue ambizioni. Un campo non più disertabile, questo, in cui mai eccelse: per la sua storica inclinazione ai mercanteggiamenti più obliqui, e non certo perché abbia nel suo DNA chissà quali preoccupazioni umanitarie (la "diversità" dell'Italia invocata da Pds e Rifondazione è nient'altro che una panzana).
Onde scongiurare il rischio di un arretramento di proporzioni catastrofiche, s'impone per essa un ambizioso rilancio della iniziativa "neo-coloniale", che non potrà certo limitarsi alla ri-occupazione, peraltro contestata e contrastata, di parte della Somalia e dell'Albania. La classe operaia non se ne dovrà fare complice!
Nonostante questa perdita di colpi, comunque, il "nostro" capitalismo era e resta a tutti gli effetti nella ganga dei paesi imperialisti che spremono e schiacciano le masse lavoratrici del mondo intero. Al bando, perciò, gli inverecondi piagnistei neo-resistenziali sulla presunta riduzione dell'Italia a colonia, che finiscono poi regolarmente con la rivendicazione di un ruolo maggiormente "autonomo" del capitalismo nazionale.
Il grande capitale difenderà con le unghie e con i denti il proprio rango. E -qui è il punto- per farlo con successo dovrà accettare la sfida della finanziarizzazione globale, della concorrenzialità globale delle proprie merci e della partecipazione sempre più onerosa (per i lavoratori) alle relative mansioni di polizia internazionale. E per vincere questa sfida dovrà aggressivizzarsi al massimo contro gli sfruttati, all'interno e all'esterno. E' questo il mandato che i padroni affidano alla loro "seconda repubblica"!
Nulla di diverso da quanto necessita a tutte le borghesie imperialiste (si confrontino i programmi dei governi Amato e Ciampi con quelli dei Kohl, Clinton, Balladur, etc.), solo spinto all'estremo. L'Italia è, ancora una volta, un laboratorio di soluzioni politiche capitalistiche con valenza niente affatto nazionale. Del resto, non fu forse Mussolini il maestro di Hitler?
Le particolarità della "crisi italiana", che ne spiegano la particolare acutezza, rinviano da tutti i lati a quella più complessiva del capitalismo mondiale. Arrivata al dunque non è la sola azienda-Italia, bensì l'intiero sviluppo ineguale e combinato dell'imperialismo, di nuovo alle prese con l'esplosione dell'antagonismo tra forze produttive socializzate e appropriazione privata.
La stessa questione del declino o dell'ascesa dei singoli paesi va letta entro questo contesto, come una manifestazione della crisi del capitalismo nella sua globalità. La tendenza al livellamento tra i paesi imperialisti (e gli emergenti del Terzo Mondo) che sono partiti da dietro e quelli declinanti che li precedevano, mai tanto accentuata come nell'ultimo vulcanico ciclo di sviluppo, è culminata in un nuovo universale impantanamento del mercato. Tutti i contendenti stanno andando a sbattere contro lo stesso muro: quello dei limiti all'espansione del capitalismo. E con il sussultorio generalizzarsi della crisi, il relativo eguagliamento si converte nella necessità di una nuova globale ristrutturazione dell'ordine sempre più gerarchico-accentratore del capitalismo mondiale.
Così, nella disgregazione del vecchio ordine mondiale in corso, gli stati più potenti per massa di popolazione, estensione di territorio, accentramento del capitale finanziario e mezzi militari, sono i soli al momento a crescere. Crescendo, essi distanziano e minacciano di fatto sia il peso che la stessa integrità territoriale degli stati concorrenti (non a caso un problema di tenuta unitaria degli stati si pone, negli anni '90, anche nel "centro" del sistema, e non solo in Italia, pure, per ora, in Canada e in Belgio). Ma questa spasmodica ed illusoria ricerca di vie "nazionali" per uscire dalla crisi mette sempre più in rotta di collisione tra loro sia i vincenti che i "perdenti", facendo declinare il capitalismo mondiale in quanto tale verso un nuovo scontro sociale e bellico a scala planetaria.
E' con questo processo che la classe operaia deve fare i conti, ché la borghesia -per la sua parte- già ci si sta attrezzando a dovere.
All'atto della fatidica caduta dei muri "comunisti", esterni ed interni, la borghesia italiana ha prontamente messo all'ordine del giorno la liquidazione dell'apparato politico della prima repubblica, proprio in quanto non più corrispondente ai bisogni ed agli scopi della nuova fase.
La prima repubblica è stata segnata da un compromesso conflittuale tra il "capitalismo popolare" di marca democristiana e la "democrazia progressiva" togliattiana. Un compromesso reso possibile dallo slancio e dai proventi di una crescita economica apparentemente inesauribile, e reso necessario, per il capitale, dalla forza conservata da un proletariato che, pur ripiegato su posizioni riformiste, è stato -dal 1945- costantemente in campo.
L'ininterrotta pressione di una crisi senza sbocchi e la polarizzazione sociale che ne è seguita hanno fatto mancare la base di sostegno di quell'"accordo consociativo" tra capitale e lavoro. Un "accordo" peraltro già viziato in partenza, in quanto condizionato da presupposti di necessità transitori e precari. Fine (ingloriosa) della prima repubblica.
Sulle sue ceneri la borghesia italiana ha avviato i lavori di edificazione di una macchina statale rimessa a nuovo su basi non più consociative. Nei desiderata dei capitalisti essa dovrà aprire la strada ad un'economia di mercato funzionante in modo "puro", senza i lacci ed i lacciuoli imposti dal condizionamento operaio-riformista. Disboscare la selva dei corporativismi parziali a pro di un unico, supremo corporativismo nazionale. E disciplinare con la forza, sul fronte interno e su quello esterno, la classe operaia e gli sfruttati (già per i fatti di Crotone si arrivò ad evocare Bava Beccaris).
In questo ennesimo sforzo di rigenerazione di capitale e stato, il binomio di sempre dello sfruttamento capitalistico, la nostra classe dominante ha fatto, con i governi Amato e Ciampi, non pochi passi in avanti. Tanto in direzione di strutture economiche più "avanzate" e "mature" (riforma bancaria che favorisce un più organico intreccio tra banca ed industria e la concorrenza tra banche; prima potatura del "capitalismo familiare" a vantaggio di quello manageriale; avvio delle privatizzazioni e del risanamento del bilancio statale, etc.). Quanto sul tutt'altro che neutro terreno politico-istituzionale ed amministrativo (nuove regole elettorali maggioritarie; rafforzamento della autonomia del governo dal parlamento e -nel governo- di Tesoro e Banca d'Italia; privatizzazione del pubblico impiego; primo altolà a mafia e camorra; varo dell'esercito di mestiere, etc.). Quanto, infine e non per ultimo, in campo sindacale, con gli accordi-quadro degli ultimi due anni, ed il loro pesante corredo di: abolizione della scala mobile, flessibilità, ingabbiamento dell'azione sindacale, etc. Valga questo assaggio di nuove relazioni industriali del futuro ad intendere come la seconda repubblica, che sembra annunciarsi con inebrianti successi dei "progressisti", in realtà non potrà assicurare neppure quella rappresentanza sindacale priva di vincoli, per lo meno formali, che è stata propria della prima, per cui nella stessa difesa dei suoi "spazi autonomi" di contrattazione la classe operaia dovrà scontrarsi (già ora deve scontrarsi) con istituzioni preventivamente blindate.
Sia pur tra molti contrasti, poi, il grande capitale è vicino a portare a termine il licenziamento di massa del proprio vecchio personale politico di governo, rivelatosi incapace di auto-riforma.
Nonostante tutto, però, anche per la tenacissima resistenza opposta -in particolare sul piano delle lotte immediate- dalla classe operaia, esso si trova ancora a metà del guado, se non prima. La grande svolta a destra è stata avviata, non certo ultimata.
La difficoltà più grande della "nostra" borghesia consiste, al momento, nel mandare avanti questi processi senza poter disporre di una rappresentanza politica all'altezza del compito.
Per ricostituire un blocco sociale anti-proletario adatto a tempi e metodi "di guerra" (ora che quello cementato intorno alla Dc s'è decomposto in uno con la Dc stessa), abbisognerebbe al capitale un nuovo partito borghese unitario, totalitario, con un forte senso degli interessi imperialistici nazionali, in grado di accentrare al massimo grado il potere politico, mettendo in riga le innumerevoli rappresentanze di interessi borghesi settoriali viziate da decenni di vacche grasse. Un partito di massa, militante, in grado di inquadrare la pletora piccolo-borghese inviperita per scagliarla contro la classe operaia. Capace anche -il parallelo storico "naturale" è con il fascismo e con il programma mussoliniano di "un movimento di massa che obbedisce"- di catturare i proletari, dopo aver battuto e demoralizzato il proletariato, ad una politica social-imperialista che dovrà essere più attiva che mai.
La borghesia sa di non avere a propria disposizione al momento né il quadro dirigente, e tanto meno la ossatura territorialmente "diffusa" di un simile partito. Il lavoro di forgiatura si prospetta ancora lungo. E per questo continua a giocare su due tavoli: sul condizionamento e la trasformazione delle nuove rappresentanze politiche a sé non pienamente organiche, e su quel che resta di presentabile delle vecchie, certamente più organiche al grande capitale, ma espressione di una fase storica definitivamente chiusa.
La sua proverbiale abilità politica si è evidenziata nel modo in cui sia Amato che Ciampi hanno saputo da un lato attizzare il risentimento dei ceti medi contro la classe operaia costringendola nell'isolamento e colpendola, e dall'altro usare la sacrosanta rabbia operaia contro le classi parassitarie per tosare a loro volta i piccoli-medi parassiti salvando i grandi. Questo accorto "gioco sulla debolezza altrui" praticato anche sul piano interno, però, non è stato sufficiente fino ad ora a ricomporre il fronte borghese sulle linee d'attacco sperate. Nulla lo prova meglio del contraddittorio rapporto tra Lega Nord e grande capitale.
La Lega Nord è oggi il più importante collettore politico della piccola-media borghesia incazzata, e -nonostante le prime battute elettorali a vuoto ed i primi avvisi di "Mani pulite"-, continua ad essere la formazione politica più in ascesa dello schieramento borghese. Essa è stata ed è utilissima al capitale come arma per sbaraccare la vecchia nomenklatura, tagliare il welfare state e fare opera di contenimento, divisione e diversione verso e nella classe operaia.
Senonché, a tutt'oggi, la Lega riceve il sostegno quasi esclusivamente delle mezze classi accumulatrici del Nord, le prime a reagire al dissesto del "sistema-Italia" in quanto le più direttamente esposte alle intemperie del mercato mondiale. E questo è, allo stato, un limite di fondo a cui si collegano delle caratteristiche che trattengono la borghesia dal designarla ufficialmente come il suo nuovo partito in sostituzione della Dc.
L'esaltazione del mercato ed il suo liberismo "anti-statalista" -che esprimono in realtà non la richiesta di "meno stato", bensì quella di spostare risorse statali dal lavoro al capitale, assoggettando ancor più strettamente lo stato al capitale-, fanno della Lega una forza centralizzatrice del potere economico e politico perfettamente in linea con i bisogni del grande capitale. Non si può dire la stessa cosa, però, di quelle sue pulsioni "anti-monopolistiche" di impronta grettamente bottegaia che fanno dire a un Miglio: "niente più grandi imprese, basta con le opere pubbliche colossali, con i grandi progetti" ("L'indipendente", 19 agosto).
Del pari, il federalismo padano della Lega, la sua aggressiva difesa delle necessità dell'area più avanzata del capitalismo italiano, è coerente con gli interessi "nazionali". La fondazione dello stato unitario, il giolittismo, il fascismo, la repubblica democratica hanno avuto tutti il loro centro propulsore naturale al Nord, là dove più accentrato era il capitale. Dopo un secolo e passa di sviluppo diseguale, non sfugge a questa regola l'attuale tentativo di riorganizzazione del capitale e dello stato -come pure non lo potrebbe, oggettivamente al polo opposto, la riorganizzazione autonoma, rivoluzionaria della classe operaia.
Ma altro è il federalismo come mezzo di sfruttamento istituzionalizzato, razionale delle diseguaglianze di sviluppo volto a rafforzare l'insieme del capitale (il "sistema-Italia"). Altro è definire gli interessi capitalistici da difendere non attraverso lo stato nazionale, bensì in termini solo e sistematicamente macro e perfino micro-regionali, di marca, etc. Dietro l'esaltazione del "piccolo è bello", il borghese dotato di senso di classe vede una sorta di resa preventiva, al momento non inevitabile e controproducente per la stessa capacità contrattuale della Padanìa, alla "grande potenza germanica" di nuovo debordante verso Sud e/o al "grande fratello" yankee tuttora insediato sul suolo nazionale.
Un altro indizio della immaturità della Lega ad assumere la direzione della politica nazionale è dato appunto dalla sua quasi costante assenza sui temi, anche quelli cruciali, della politica internazionale. Mancanza tanto poco casuale quanto evidentemente inammissibile per un capitalismo che sa essere il mercato mondiale il terreno obbligato della sua competizione.
Inoltre, il rapporto rozzo che la Lega istituisce (o non si preoccupa neppure di istituire) con la classe operaia risulta in contraddizione con la necessità, propria di una borghesia imperialista, di colpire sì il proletariato, ma anche di cercare di coinvolgere i lavoratori come partner subordinato in una politica di aggressiva presenza sul mercato internazionale.
E' un fatto, infine, che gli eccessi nordistici della Lega, quella sorta di secessionismo strisciante che essa agita fosse pure in funzione tattica, alimentano linee di fuga potenzialmente disgregatrici dell'unità nazionale (e disordinati e concorrenti autonomismi perfino nell'ambito dello stesso Nord).
Ora: se alla grande borghesia va più che bene balcanizzare il proletariato, non le va affatto bene, evidentemente, la balcanizzazione dell'Italia.
Sta accadendo, invece, che le tensioni tra Nord e Sud stanno acuendosi nelle stesse classi borghesi e piccolo-borghesi, sicché il rischio di una linea di deriva alla jugoslava, o alla cecoslovacca, comincia ad apparire qualcosa di più che una mera ipotesi di fantasia.
Certo, il neo-liberismo leghista fa proseliti anche nel più profondo Sud (vedi il documento della Dc di Ceppaloni), perfino laddove la bandiera ufficiale è quella dell'anti-leghismo (vedi le prese di posizione "anti-assistenzialistiche" di Orlando a lotta di Crotone aperta). Sotto questo aspetto, l'azione di Bossi&C. sta già unificando il campo borghese, nord-sud, moderati-progressisti. Nondimeno, il drastico ridisegno dell'Italia in chiave nordista inevitabilmente chiama reazioni "eguali" e contrarie negli strati borghesi (e "popolari") del Sud.
Lasciando da parte le semi-serie associazioni neo-borboniche o la assai più sostanziosa -e non inedita- minaccia separatista di Cosa Nostra ed affini, già prendono corpo almeno due possibili risposte "meridionaliste" ("leghiste" del Sud) al leghismo del Nord, che sono entrambe pericolose e da combattere per la classe operaia.
Una è quella di quanti (la Dc del Sud per prima, posto che sia ancora possibile parlarne come di un qualcosa di unitario) sono già ora disposti ad accettare la subalternità sia alla Padanìa che al vento liberista del Nord, prospettando una riedizione del patto d'ordine che a suo tempo strinsero industriali del Nord e agrari del Sud. A pagarne il prezzo sarebbero i proletari, sia quelli dell'industria nelle poche oasi melfizzate (niente sindacato, gabbie salariali, produttività ed orari giapponesi), sia quelli destinati al precariato di massa legato alla cosidetta "vocazione turistica" del Sud, sia -infine- i non pochi ai quali non resterebbe, come e più di ora, che l'arruolamento mercenario nell'esercito o nella mafia. E, inutile dire, lo schiacciamento del proletariato al Sud si rifletterebbe in negativo su tutto il proletariato.
Un pò kapò, un pò tenutari, un pò ufficiali reclutatori: dopo la pantagruelica crapula dell'era dei Gava e dei Pomicino, ad una parte della borghesia meridionale in rotta sembra questo un punto di ripartenza inevitabile, sebbene non entusiasmante.
L'altra risposta, più conflittuale e destinata ad avere maggior presa popolare, è quella di un meridionalismo populista e statalista, tinto di "anti-colonialismo" e perfino di "anti-capitalismo", che si propone di saldare in un solo blocco interclassista l'intero Meridione, ovvero -nelle sue formulazioni più insidiose- l'intero "mondo del lavoro e della produzione" del Sud, per opporlo alle forze "esterne" che "rapinano" il Sud e per farlo pesare nelle vertenze con il governo centrale. In tale contesto "il lavoro" dovrebbe naturalmente fungere da mera massa di pressione subalterna anti-nordista.
Di questa tendenza "peronista", non estranea né alla Dc né alla Chiesa e che trova eco anche nel Pds, si avvìa a farsi portavoce, formalmente in nome dell'unità della nazione ma agendo di fatto da partito "meridionalizzato", l'MSI, che in alcune sue componenti "avanguardistiche" è arrivato non a caso a rivendicare come propria la polemica anti-giolittiana di Salvemini (oltre che l'interventismo anarco-sindacalista del primo Di Vittorio).
Una spirale di spinte nordiste e controspinte meridionaliste (al momento in crescita a livello di massa) potrebbe avere, anche contro le intenzioni delle parti in causa, effetti potenzialmente fatali per lo stesso stato unitario, specie se dovesse protrarsi l'attuale situazione di confusione politica al "centro".
A spingere per la disgregazione delle precedenti trame di mercato è lo stesso incalzare parossistico del processo di centralizzazione del capitale. In secondo luogo, è da considerare che i legami strutturali tra Nord e Sud si sono indeboliti, specie dopo che la grande industria di stato chimica e siderurgica è stata semi-smantellata. Se aree o frazioni borghesi della Padanìa possono trovar "naturale" gravitare verso il mondo germanico che è oggi il loro principale (e talvolta il solo) mercato di sbocco, a quelle corrispondenti nel Sud non mancano legami internazionali leciti-illeciti (con gli Usa, con il mondo arabo, ma anche con i paesi dell'Est) che un'eventuale autonomia potrebbe sperare di valorizzare. Tentare di sottrarsi alle conseguenze di una crisi universale ritagliando per sé un ben protetto posticino al sole mentre ovunque imperversa la tempesta: questo il miraggio inseguito da quegli autonomismi di cui c'è in giro, dal Friuli al Trentino, dalla Sardegna a Trieste con estensione verso sud, una squallida campionatura.
Per il grande capitale, la rottura del Paese -salvo nel caso si trattasse di salvare l'ordine borghese dalla rivoluzione- sarebbe invece un disastro. "Se l'Italia si spaccasse, non vi sarebbero vincitori, ma soltanto perdenti", ripetono i borghesi che hanno conservato una qualche lucidità di mente. Anche il Nord nel suo insieme ci perderebbe. La sua industria verrebbe amputata di un terzo del suo mercato di consumo interno già oggi insufficiente a reggere la competizione internazionale, e rischierebbe perciò di trasformarsi nel "profondo Sud della Comunità Europea". A trarne beneficio sarebbero solo gli odiati sodali imperialisti più forti, che non a caso da New York, da Bonn, da Londra spargono sale sulle ferite e benzina sul fuoco...
Normale, quindi, che gli Agnelli, gli Scalfaro, i Segni, i Montanelli e quant'altri siano impegnati a frenare la "anti-storica" spirale disgregatrice e la regionalizzazione di fatto dei partiti borghesi.
Con la sua iniziativa Berlusconi ha certo saputo enunciare il problema di fondo dell'intera borghesia: stringere i tempi per ricompattare un fronte sociale e politico di centro-destra che affronti con risolutezza il fronte proletario. Non c'è il minimo dubbio sul fatto che sia questa la linea di percorso obbligata per il capitale. Ma lo scioglimento del problema si presenta complicato, dal momento che l'area dei partigiani dell'unità nazionale è solcata da molteplici faide e tensioni e stenta, in particolare al Nord, ad intercettare il movimento erratico dei settori "popolari" fuoriusciti dal recinto del pentapartito.
Consapevole di queste difficoltà, buona parte della grande borghesia esita -la stessa cosa avviene in Francia ed in Germania, pur in presenza di governi e schieramenti conservatori più solidi- ad imboccare immediatamente la strada dell'urto frontale col proletariato. Congiuntura internazionale permettendo, preferirebbe continuare a logorare ai fianchi un movimento proletario che sta dimostrando di saper rispondere agli attacchi del nemico di classe. Tenendo per un altro pò il Pds in una posizione di né governo né opposizione, o associandolo al governo in posizione subalterna (come si era tentato di fare col governo Ciampi), o perfino -se non sarà possibile impedirlo- accettando che sia il perno di un governo "progressista", con lo scopo, in tutti e tre i casi, di congelare l'iniziativa operaia e di capitalizzare la disponibilità operaia a far sacrifici per un rilancio "realmente produttivo" dell'economia nazionale. Seguirebbero poi, s'intende, improvvisi nuovi affondi (la canonica rottura dei "patti di pacificazione" ad opera delle forze borghesi) miranti a mettere k.o. la classe operaia, con l'ausilio di una nuova direzione politica borghese all'altezza dei tempi.
Dunque: nessuna delle soluzioni borghesi in gestazione ha al momento la strada spianata. Tutte queste opzioni capitalistiche restano aperte. E tutte chiamano il proletariato alla più aperta lotta politica, contro un attacco del nemico di classe destinato, in ogni caso, ad acuirsi enormemente e a trovare il suo momento di ricomposizione.
A chiamare in campo i lavoratori sono, oltre che gli attacchi diretti del capitale, le organizzazioni sindacali e politiche che ad essi si rifanno. Ma il loro appello, se da un lato recepisce le attese immediate del proletariato, dall'altro spinge la forza proletaria in moto verso false direzioni strategiche.
Anche per Occhetto, il problema di fondo a cui dare risposta è quello del "rischio ormai incombente che la decadenza già in atto dell'apparato produttivo giunga in tempi non lunghi al punto che la nazione italiana subisca un brusco salto all'indietro" ("L'Unità", 4 novembre). Si tratterebbe, quindi, di un problema italiano, proprio indistintamente di tutte le classi sociali, da risolvere con un "compromesso politico, ma anche sociale" tra tutte le classi sociali, ed in particolare tra le "forze del lavoro" ed "i settori più avanzati della borghesia". I binari su cui far marciare la nuova "ricostruzione nazionale"? Da un lato il lavoro come "questione cruciale per un nuovo sviluppo"; dall'altro le privatizzazioni ed il risanamento finanziario. Un colpo al cerchio, uno alla botte.
Sulla politica economica per la "rinascita nazionale" è stato più preciso Reichlin: "Adesso tocca a noi -ha scritto su "L'Unità" del 5 agosto - indicare la direzione in cui muoversi sapendo che non regge più il vecchio statalismo della sinistra e che altre sono le vie per porre su nuove basi il sistema industriale e finanziario affinché possa essere ricapitalizzato. Il che -sia detto tra parentesi- non risolverà, di per sé, il problema della disoccupazione, ma è una pre-condizione assolutamente necessaria. Altrimenti l'alternativa sarebbe una società assistita: diventare la Disneyland d'Europa". E ancora: "Si tratta non di ridurre il mercato, ma di riformarlo profondamente rendendolo molto più aperto e trasparente" in nome della "democrazia economica". D'Alema ed altri, poi, hanno tenuto a precisare più volte che oggi i "progressisti", per preservare a mezzo di un "vero" efficientismo la sostanza dello "stato sociale", debbono prendere le distanze dallo stesso Keynes.
Uno dei più importanti corollari di questa politica economica è costituito da quello che Occhetto ha chiamato un "federalismo equilibrato e cooperativo". E cioè uno spostamento di risorse dal "centro" alle regioni attuato per mezzo di un "federalismo fiscale" che inevitabilmente premierebbe (come chiede la Lega) le zone più ricche, ma che dovrebbe essere poi "controbilanciato" da misure centrali volte a "favorire contemporaneamente un processo che riduca gli squilibri tra Nord e Sud" ("L'Unità" del 21 ottobre).
Per la terza volta in questo secolo i dirigenti riformisti, posti dinanzi ai periodici disastri prodotti dal capitalismo, si fanno avanti ad offrire alla nazione, e cioè al capitale, quale "soccorso d'urgenza" (l'espressione è di Turati), dei programmi "realistici" per "rifare l'Italia" capitalista insieme "più forte" e "più giusta". E, sopratutto, si impegnano a contenere e canalizzare a questo obiettivo l'iniziativa delle masse operaie.
La prima volta finì, come si sa, nel fascismo. Con il quale fino all'ultimo si cercò invano quel "compromesso politico, ma anche sociale" riproposto oggi da Occhetto nei confronti della "borghesia illuminata" (non è la medesima che ieri diede l'investitura al fascismo?), contribuendo oggettivamente a spianare l'avvento al potere di Mussolini e soci.
La seconda è finita in altri cinquant'anni di dittatura capitalistica democratica, che si sta concludendo in un marasma economico-politico che mette a repentaglio l'intiero blocco di garanzie "democratiche" e "sociali" conquistate dalla classe operaia.
Entrambe le volte i sacrifici operai -sacrifici di sangue!- non hanno potuto impedire che questo putrido sistema sociale borghese tornasse a compiere il suo solito tragitto di esaltanti successi produttivi a catena culminanti nel collasso generale.
Quel che contraddistingue questo terzo soccorso riformista al capitalismo non è certo un suo diverso prevedibile esito, bensì l'ulteriore ridimensionamento in partenza delle promesse "riformiste" alla classe operaia (che, si guardi ai lavori in corso nella Spd o nel Labour Party, è fenomeno di portata generale: il "riformismo senza riforme" dell'epoca imperialista).
Il programma turatiano del '20 era un piano, ovviamente velleitario, di industrialismo totale (Mezzogiorno incluso). Che poteva ancora ambire, in un certo senso, alla qualifica di "riformatore", se non altro per la parte, poi ripresa nei fatti dal fascismo e dal centro-sinistra, in cui era profilato il ruolo programmatore dello Stato.
Nel secondo dopoguerra, Palmiro Togliatti, che lo giudicava un programma ancora attuale per il PCI, non fece molto più che parafrasarlo, sebbene il suo riformismo insistesse più sugli aspetti politici che su quelli strutturali (un modo "furbo" per arretrare dallo stesso turatismo fingendo di olprepassarlo in avanti).
Ora i Reichlin operano una ulteriore riformulazione in discesa della linea "riformista". Nella speranza di conciliare la soddisfazione delle aspettative immediate dei lavoratori con le necessità del capitalismo imperialista, essi arrivano ad accettare come precondizione per il rilancio del capitalismo nazionale la "ri-capitalizzazione", cioè l'accrescimento e la centralizzazione, tanto del capitale industriale quanto di quello finanziario (guardato con sospetto da nonno Turati e con un certo ritegno "anti-monopolista" da papà Palmiro). Sono pronti, inoltre, a ripudiare il "vecchio statalismo della sinistra", e ad unirsi al coro che invoca un mercato (un capitale) più libero da condizionamenti "statali". Salvo, si capisce, prospettare delle politiche che vincolino (almeno in parte) il capitale finanziario ad un utilizzo "produttivo", a creare occupazione, a progetti di "solidarietà", etc.etc., senza di che verrebbe meno la ragion d'essere stessa dei partiti "riformisti".
Riuscirà quest'ennesima quadratura del cerchio?
E' quanto si augura la parte più attiva del proletariato. Quella -per intenderci- che scende in piazza dall'autunno '92. E che, pur vivendo in una situazione materiale in progressivo peggioramento, conserva le illusioni di crescita indefinita proprie del ciclo già terminato, interpretando tuttora la recessione in corso come una "buia parentesi" destinata prima o poi a cedere di nuovo il passo allo sviluppo. Non ritenendo allo stato praticabile alcuna alternativa "di sistema" al capitalismo e non intendendo, a differenza della parte della massa lavoratrice ancora inerte, piegarsi ai diktat padronali, essa fa sua la "terza via" indicata dal Pds, da Rifondazione, dalla Cgil. Ed è generosamente disposta a sostenerla, come fa, con le sue lotte.
Noi comunisti, senza in nulla condividere le loro illusioni, siamo e saremo incondizionatamente con queste lotte, quale che ne sia la coscienza politica corrispondente nella massa, convinti con Marx, che "se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande". Siamo con queste "lotte quotidiane" per l'occupazione, il salario, etc., perché la loro continuazione ed estensione è condizione certo insufficiente, ma indispensabile perché la classe faccia esperienza della impossibilità che capitale e lavoro possano uscire insieme con reciproco vantaggio dalla crisi, e spinga in avanti la propria riorganizzazione anche politica.
Nello stesso tempo, mancheremmo al nostro compito primario se non chiamassimo l'avanguardia di classe a comprendere che crisi e declino dell'Italia sono parte inseparabile della crisi e del declino storico del sistema capitalistico nel suo complesso. E che non esiste, perciò, una uscita italiana dalla crisi. Esistono bensì due possibili, e contrapposti, esiti mondiali di essa. O riuscirà al capitale di nuovamente rigenerarsi, con tratti ancor più ferocemente anti-sociali. O riuscirà finalmente al proletariato mondiale di spezzare questa bestiale macchina di sfruttamento e di oppressione del lavoro, e di sostituirla con l'organizzazione socialista della società.
La vera alternativa in giuoco, in Italia come in Occidente, non è una alternativa tra politiche congiunturali neo-liberiste o neo-keynesiane, o tra schieramenti elettorali di destra moderna o di sinistra moderna. E' una alternativa strategica di sistemi sociali. E nello scontro di classe che intorno ad essa già si è acceso, il solo declino che interessi realmente al proletariato di evitare non è quello del capitalismo nazionale: è il declino delle proprie condizioni di vita, dei propri "diritti", del proprio potere. Ed il solo "brusco salto all'indietro" a cui sottrarci è quello che ci sta preparando il capitalismo, con un nuovo oscuro periodo di distruzione della organizzazione proletaria, di guerre fratricide tra proletari, di mostruosa controrivoluzione. E per sottrarci ad esso dovremo opporre alla prospettiva del compattamento nazionale e dello scontro tra nazioni la prospettiva della guerra di classe internazionale contro il capitalismo.
Nelle durissime battaglie di classe che si preparano, ci è utile il federalismo? ci è utile la continua rincorsa alle classi medie? ci è utile continuare a mantenere una sorta di benevola neutralità verso le aggressioni "esterne" del nostro imperialismo? La nostra risposta è un triplice e secco NO.
No al federalismo, anzitutto. Perché esso, in una qualsiasi versione, approfondisce le distanze e le contraddizioni tra i lavoratori del Nord e quelli del Sud. L'interesse di classe è, invece, quello alla più stretta unità del nostro fronte.
Trentin, che è tra i dirigenti della sinistra uno dei pochi e dei più (giustamente) preoccupati dalle possibili conseguenze di un processo del genere, se la prende con quelle "forze che hanno dato un contenuto distorto, separatista, alla cultura federalista" (la Lega). Ma esiste un federalismo borghese "sano" da cui il movimento proletario potrebbe trarre profitto? Noi marxisti, sostenitori dal 1848 della necessità della massima centralizzazione delle forze del proletariato, lo neghiamo da sempre. Avversiamo la moltiplicazione degli staterelli, dei particolarismi localistici, e di tutti gli elementi artificiali di divisione della classe. In tanto, "in circostanze speciali" ed in via provvisoria, abbiamo fatto riferimento alla forma federale dello stato sovietico, come nella rivoluzione russa, in quanto questa rappresentava, nelle condizioni date, un passo in avanti verso una più stretta unità (non ancora possibile al livello più alto) tra tutte le nazionalità coinvolte, concepito in quella veste -si badi bene- a tutela delle nazionalità oppresse (e non di quelle più sviluppate).
Viceversa, il "federalismo fiscale" a sostegno del quale si sbattono i comitati regionali del Pds di Lombardia ed Emilia-Romagna (un caso?), che rivendica che almeno i proventi dell'Irpef restino nelle regioni di provenienza (v. "L'Unità", 21 ottobre); il federalismo organizzativo integrale invocato unitariamente dalla CGIL del Piemonte e caldeggiato da altre realtà della Padanìa (un altro caso?), che chiede il massimo decentramento di "risorse e di responsabilità" (v. "Nuova Rassegna Sindacale", 4 ottobre) ed arriva ad accettare, come nota "L'indipendente", perfino le gabbie salariali; pure il federalismo più attenuato e prudente avallato dall'ultima Conferenza di organizzazione della CGIL, non gioveranno certo alla classe operaia. Avranno soltanto l'effetto di indebolire, in una con la trama unitaria della sua azione organizzata, tutte le sue sezioni.
Valga di monito l'esperienza della Jugoslavia! Qui la rottura del quadro nazionale unitario ha fatto sì che il proletariato si venisse a trovare di fronte delle sotto-borghesie indebolite che, per la loro accresciuta fragilità, si sono centralizzate ed opposte con estrema durezza al proprio proletariato, essendo la loro possibilità di recupero legata unicamente ad un ulteriore inasprimento dei meccanismi capitalistici di sfruttamento. E la cosa è valsa in modo particolare proprio per le "padane" Slovenia e Croazia...
La si pianti, poi, con la mistificazione che federalismo vuol dire partecipazione ed autodecisione dei lavoratori, maggiore democrazia sindacale. La federativizzazione del movimento operaio e di quello sindacale vuol dire soltanto cedimento al potere centralizzatore del mercato, del capitale, che in funzione anti-crisi ha bisogno più che mai di differenziare di continuo verso il basso le condizioni di lavoro e di vita dei salariati, incentivandone all'estremo la concorrenza. La soluzione del problema della "democrazia sindacale" sta, inseparabilmente da quello dell'unità di classe, su tutt'altro piano!
La parte più cosciente del proletariato deve reagire con grande decisione alla corrosiva linea di deriva regionalista, localista, aziendalista -leghista del nord o del sud che sia- che continua a marciare nella classe, contrapponendo al lavoro centralizzatore del grande capitale un fronte di classe adeguatamente contro-centralizzato (di cui sarà organo insostituibile il ricostituito Partito di classe). Battaglia aperta quindi, da subito, a federalismo e secessionismo in nome del rafforzamento dell'iniziativa unitaria di lotta di tutta la classe, dell'unità di classe tra Nord e Sud, come tra occupati e disoccupati, tra bianchi e neri! E non certo in nome dell'unità della nazione o della "rinascita dell'Italia": perché anche queste "alternative" borghesi a rischio jugoslavo sono fondate, in ultima analisi, proprio sulla divisione del proletariato. Non è solo il leghismo o il secessionismo a disgregare il fronte operaio. Non è stata forse l'"unitarista" FIAT ad imporre le regole di Melfi, ed il non certo secessionista governo Amato ad abolire la scala mobile? E non sono state le "unitariste" direzioni di CGIL-CISL-UIL a sottoscrivere, magari qualcuno anche di malavoglia, l'una e l'altra cosa?
La più decisa opposizione di classe agli attacchi concentrici del grande capitale e delle forze politiche vecchie e nuove che ne difendono gli interessi, è anche la sola condizione sociale e politica che può frenare la radicalizzazione a destra delle mezze classi. Lo ha detto Trotzkij con crudezza, e l'esperienza non cessa di confermarlo: "la piccola borghesia non può seguire l'operaio se non vede in lui un nuovo padrone". Il che non significa, evidentemente, un nuovo capitalista, bensì una forza in grado di riorganizzare e dirigere la vita della società in un modo realmente nuovo rispetto al capitalismo. Ed in grado, perciò, di dare soluzione a quei problemi -e non sono bruscolini, e non ne vanno esenti le mezze classi- che un capitalismo in crisi ed in declino storico complessivo sta dimostrando una volta di più di non saper risolvere.
Alla crescente mobilitazione delle mezze classi (non solo elettorale ma anche extra-elettorale) gli Occhetto ed i Cossutta credono, invece, di poter rispondere in modo efficace o facendone proprie le rivendicazioni, e quindi cedendo alle loro pretese, o "alleandosi" contro di loro con governo e grande capitale (nella vicenda della minimum tax come nella questione dell'assetto federale dello stato è avvenuta l'una e l'altra cosa). Ma un proletariato che oscillasse tra queste due posizioni, entrambe subalterne, si farà soltanto dei nemici nella società. Laddove, invece, solo una classe operaia capace di lottare per sé, forte, bene organizzata, potrà trovare sempre seguito nella società, specialmente quando il capitale -in ragione della sua crisi- è costretto a colpire, declassare, "proletarizzare" una parte sempre più ampia degli stessi ceti intermedi.
Altrettanto urgente è che finisca quell'atteggiamento di astensione o addirittura di benevola neutralità con cui il proletariato ha accompagnato le imprese "esterne" del "nostro" capitalismo. Abbiamo visto che questo, per non essere travolto dalla decomposizione del sistema capitalistico, dovrà impegnarsi in una duplice competizione, con i paesi finanziariamente più forti e con i paesi emergenti, e dovrà d'altro lato rilanciare in grande la propria diretta presenza "neo-coloniale" nel Terzo Mondo.
Per non finire stritolato nelle spire di questa competizione e di questa aggressione, il proletariato (tutto) non ha che una via: contrapporre alla crescente internazionalizzazione del capitale la internazionalizzazione della propria lotta, la tessitura della organizzazione di classe unitaria con i proletari dei paesi concorrenti e gli sfruttati dei paesi da "ri-colonizzare", nella comune lotta per il socialismo.
Note
1 Riprendiamo qui di seguito alcuni temi dell'articolo di A. Bordiga, La classe dominante italiana ed il suo Stato nazionale, comparso su "Prometeo", anno I, n. 2, agosto 1946.
2 Ciò non toglie, evidentemente, che stia avvenendo nel '93 un eccezionale boom delle esportazioni italiane verso la Cina ed i paesi dell'Est-asiatico (per i primi 8 mesi, rispettivamente +130% e +45% nei confronti del '92), nel quale ancora una volta, però, la parte principale la svolgono le merci, e non i capitali.
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