A lato un nostro volantino diffuso alla manifestazione nazionale
di Palermo contro la mafia del 27 giugno 92 indetta da CGIL-CISL-UIL.

LOTTA ALLA MAFIA,
AL MODO BORGHESE E
AL MODO PROLETARIO

Abbiamo già avuto modo di argomentare come dietro il caos che sembra caratterizzare lo scenario politico istituzionale italiano (e non solo) vi sia l'urgenza della borghesia e del suo stato di accelerare i tempi di una "riforma del sistema politico". Davanti al feroce incrudimento della concorrenza e della competizione interimperialistica, occorre al "nostro" capitalismo una maggiore concentrazione del potere statale, per meglio difendere i propri "interessi vitali" nello scenario internazionale, e per disciplinare tutti i settori sociali interni alla difesa del capitale nazionale fuori dai "particolarismi". Disciplinare, naturalmente, innanzitutto il proletariato, in quanto unica classe capace di ridare fiato ai languenti profitti. Ma, anche se con diversi obiettivi e con diversi effetti, questo processo di riorganizzazione totalitaria dello stato riguarda tutti i settori sociali, perché nei momenti di massima acutizzazione delle difficoltà, tutti devono subordinarsi al bene supremo della difesa degli interessi del capitale collettivo (....persino i singoli capitalisti).

Tale riorganizzazione abbisogna di un sostegno popolare per vincere le molteplici resistenze che vi si frappongono.

Uno dei terreni più importanti su cui la borghesia cerca di organizzare il consenso e la mobilitazione di massa a sostegno del rafforzamento poliziesco del proprio Stato, è la lotta alla criminalità organizzata.

Cosa c'è di più odioso della mafia cresciuta nelle pieghe del "lassismo" e della "connivenza" dei vecchi apparati statali, che corrode come un cancro i pacifici meccanismi della "convivenza civile" e della sana accumulazione?

E' un tema al quale, giustamente, nemmeno il proletariato è insensibile, conoscendo sulla propria pelle cosa vuol dire la presenza e la diffusione del fenomeno mafioso sul territorio.

Al sud, dove, per svariati motivi, non riesce ad attecchire il fenomeno leghista con le sue attuali connotazioni, la lotta alla criminalità organizzata è il principale terreno intorno a cui si cerca di organizzare un movimento di massa che funzioni da supporto ad una riorganizzazione autoritaria dello stato con finalità tutte anti proletarie. E, più lo stato dimostra di voler fare sul serio nell'infliggere duri colpi alle organizzazioni mafiose e camorriste, più si legittima la sua presenza militare sul territorio e lo stravolgimento di quelle stesse norme giuridiche e istituzionali su cui si è retto sin'ora lo stato "democratico".

Non vi è dubbio che nell'ultimo periodo gli apparati statali hanno dato un netto colpo di accelerazione nella repressione di mafiosi e camorristi. Ma occorre chiedersi: perché proprio ora, e fino a che punto lo stato intende spingersi su questo terreno e con quali obiettivi?

La mafia rientra anch'essa tra quei settori che devono essere disciplinati all'esigenza di legittimare e rendere efficiente lo stato e subordinati agli interessi complessivi del capitalismo.

Per tutto un periodo la mafia ha svolto un ruolo di sostituto e di supplenza dello stato nell'esercizio di tutela delle classi possidenti, attraverso un "proprio" utilizzo della violenza ma anche della mediazione, tale da garantire un controllo sociale del territorio e tenere bassa la conflittualità sociale. Questa delega, più o meno esplicita, ha consentito alla mafia di accrescere smisuratamente il suo grado di autonomia e di sviluppare interessi "particolaristici" in campo economico. In particolare negli ultimi decenni, attraverso il riciclaggio della mafia classica in moderna criminalità organizzata, è via via saltato quel delicato equilibrio fatto di concorrenza e collaborazione tra stato e mafia.

L'accaparramento dei flussi di finanziamenti pubblici, l'intervento diretto nel campo dell'imprenditoria industriale, commerciale e finanziaria, così come il controllo della produzione e del traffico della droga, hanno contribuito ad aumentare il potere politico ed economico della mafia facendone una potenza parallela allo stato, tale da non potere essere più tollerata.

Nemmeno ad una grandissima holding come la Fiat può essere consentito di avere una "propria" organizzazione militare e politica in concorrenza con quella statale. Vi è quindi anche una necessità reale da parte dello stato di ridimensionare il fenomeno mafioso, di ristabilire il monopolio dell'uso della violenza, di imporre la propria autorità nei confronti delle classi borghesi e piccolo borghesi, che sempre più vedono nella mafia il loro "interlocutore" istituzionale obbligato.

Le organizzazioni mafiose devono essere scompaginate in quanto strutture autonome che esercitano il controllo del territorio attraverso l'uso della violenza e che sono oramai capaci di influenzare per proprio tornaconto settori decisivi dello stesso apparato statale.

A questo tipo di mafia lo stato ha deciso di mettere un limite. Chi non si adegua sarà duramente colpito, (soprattutto nei bassi ranghi), mentre alla mafia dei colletti bianchi si offre la possibilità di riciclarsi sottomettendosi ed integrandosi negli apparati statali. Integrazione diversa da quella già esistente, nel senso che essi devono in primo luogo farsi rappresentanti dello stato centrale e solo in subordine, e a condizione che non vi sia conflittualità, possono perseguire il proprio potere e gli interessi individuali.

Non si tratta, del resto, di un fenomeno nuovo. Qualcosa di simile è già accaduto con il fascismo quando si è apprestato a modellare lo stato secondo criteri di massima centralizzazione che muovevano da presupposti non tanto dissimili da quelli sostenuti dagli attuali "riformatori" dello stato.

Il prefetto Mori (una specie di generale Dalla Chiesa, a cui fu concessa però maggiore carta bianca) nel giro di un triennio riuscì praticamente a sconfiggere il fenomeno mafioso come realtà organizzata autonomamente, e , solo quando "prese a colpire settori, individui e gruppi che non potevano essere toccati, pena la perdita dell'equilibrio instaurato tra regime e potentati locali siciliani, la sua azione venne giudicata pericolosa, e il regime lo destituì".

Ne conseguì che "l'operazione di polizia comportò una protezione accordata all'alta mafia dei grandi proprietari terrieri (oggi anche dei grandi imprenditori e finanzieri n.) mentre la nuova mafia emersa recentemente in parte fu eliminata, in parte riuscì ad integrarsi nel sistema attraverso l'ingresso nelle fila del regime fascista e delle varie organizzazioni del regime"(R.Catanzaro, Il delitto come impresa, Rizzoli, pp.147-149). In pratica il regime sostituì e subordinò a sé la mafia senza intaccare minimamente le ragioni sociali che ne determinano l'esistenza.

Niente di diverso ci si appresta a fare oggi, perché non diversa è la classe sociale di cui è espressione questo stato, e non diversi sono gli obiettivi della riorganizzazione totalitaria dello stato.

Quale interesse quindi ha il proletariato ad appoggiare questa lotta alla mafia da parte dello stato?

Noi diciamo nessuno, da qualsiasi punto di vista lo si guardi!

Cosa cambia per il proletariato se la violenza invece di essere esercitata in concorrenza dalla mafia e dallo stato viene esercitata in maniera monopolistica da quest'ultimo?

Ci si troverà di fronte ad un uso ancora più organico della violenza nei confronti del proletariato per tutelare i rapporti capitalistici di produzione. Un'organizzazione del potere politico e l'utilizzo della repressione in maniera più scientifica per imporre uno sfruttamento ancora più brutale di quello attuale per impedire qualsiasi spazio di movimento e di organizzazione indipendente della classe.

Non c'è bisogno di fare profezie in proposito, basta guardare i primi passi dello svolgimento di questo scontro tra Stato e mafia che abbiamo sotto i nostri occhi. All'uccisione del giudice Falcone è seguito immediatamente il decreto legge antimafia, che ha portato ad un aumento della discrezionalità dei poteri della polizia ben oltre gli ambiti necessari per la lotta alla mafia. Pensiamo a quali difficoltà avrebbe dovuto affrontare il governo per introdurre tali misure se non avesse potuto utilizzare l'emozione suscitata dalla strage di Capaci. Il passaggio immediatamente successivo, a seguito dell'uccisione del giudice Borsellino, è stato il potenziamento della presenza della polizia sul territorio e addirittura l'utilizzo dell'esercito per svolgere funzioni di "ordine pubblico".

Ecco a cosa serve il battage pubblicitario sulla lotta alla mafia e la "mobilitazione delle coscienze": serve a creare un consenso di massa per far passare in maniera indolore, se non proprio con la mobilitazione a sostegno, misure che hanno come scopo principale la riorganizzazione totalitaria dello Stato in funzione antiproletaria, che costituisce l'urgenza primaria per il potere borghese.

Che di questa "mobilitazione delle coscienze" si facciano promotrici forze come il PDS e la stessa Rifondazione Comunista è solo l'indice di quanto queste forze politiche abbiano introiettato l'identificazione tra interessi proletari e "interessi della nazione"; di quale distanza abissale vi sia tra esse e la possibilità di ricostituire una politica indipendente del proletariato, capace di reagire efficacemente all'offensiva borghese. L'aspetto più pericoloso di tutta la vicenda della lotta alla criminalità organizzata, come per altri versi dell'inchiesta "mani pulite", non risiede nell'utilizzo che la borghesia ne sta facendo per accelerare la trasformazione in senso autoritario delle istituzioni, ma nell'indifferenza, quando non nel consenso, che riesce a trovare nelle fila del proletariato (anche per colpa delle direzioni riformiste), invece di una resistenza strenua ed incondizionata.

Si tratta di micidiali illusioni che disarmano il proletariato e che sono destinate a provocare un amaro risveglio, come hanno potuto cominciare a verificare i proletari, al sud come al nord, che hanno provato a reagire al duro attacco che viene da padroni e governo: presenza ed utilizzo della polizia in maniera molto più aggressiva che nel recente passato, uso della magistratura e dei maggiori poteri che le si sono accordati per stroncare le lotte, presenza diretta della polizia all'interno dei cortei sindacali per disciplinare chi dissente dalla linea filo-istituzionale del sindacato.

L'odio contro la mafia, contro un'intera classe politica responsabile di mille malefatte, non può farci perdere di vista le cause della loro messa sotto accusa, chi si erge a giustiziere sociale e soprattutto per fare cosa.

Per il proletariato non può mai valere la regola secondo cui "il nemico del mio nemico è comunque mio amico". Deve valere bensì la norma per cui " se il nemico del mio nemico è ancora più carogna del primo, si tratta di utilizzare la loro conflittualità e la loro debolezza per mettere in campo la propria battaglia indipendente per atterrarli entrambi".

E allora, come su ogni altra questione che vorrebbero farci apparire "neutra", ossia non immediatamente riconducibile al conflitto di interessi tra classi contrapposte, va affermato, contro questa propaganda, un senso radicalmente diverso, di classe appunto, alla lotta contro la mafia.

La lotta contro la mafia non può che essere affar nostro. Nessuno, meglio dei proletari, dei lavoratori, conosce la portata del fenomeno. I ricatti sui cantieri edili; i soprusi nelle piccole aziende; le intimidazioni a sostegno dei padroni di casa; la morte venduta in dosi ai propri figli nelle piazzette dei quartieri degradati; le provocazioni nelle lotte ogni qual volta si sono toccati interessi che "non si dovevano toccare", questa la concretezza del rapporto tra mafia e proletariato. Una concretezza non dissimile da quella che i lavoratori sperimentano con i padroni "puliti".

Nessuna delega, quindi, al "giustiziere", all'"onesto" servitore dello stato di turno che possa vendicare i soprusi che la classe è costretta a subire! Nessuna alleanza con quei settori "democratici" e piccolo-borghesi che sono i primi ad essere affascinati dal richiamo d'ordine autoritario ed antiproletario! Invece, fiducia nelle proprie forze e lotta senza quartiere a qualunque forma di sfruttamento e di oppressione "pulita" o meno! Questi gli strumenti per una coerente lotta alla mafia, a modo nostro.

Una lotta che passa soprattutto attraverso la riorganizzazione del proprio esercito e la scesa in campo su obiettivi di classe. Una battaglia difficile, uno scontro duro che richiede organizzazione ed unità; una partita che non può essere giocata posto di lavoro per posto di lavoro, quartiere per quartiere isolatamente, ma che necessita una messa in moto di tutto il potenziale di lotta della classe. Quel potenziale e quella forza che si affermate sul campo nel corso degli ultimi scioperi e mobilitazioni.

Solo così si possono attrarre al proprio campo quelle forze sociali che, stando a metà tra il proletariato e la grande borghesia, hanno l'abitudine di schierarsi dalla parte di chi si dimostra più forte.

Alla domanda: chi ci salverà dallo sfascio che avanza?, dobbiamo convincerci che non ci sono "Baffoni che annavenì", sotto qualsiasi veste. Non ci possono essere sostituti dell'azione del proletariato. Baffone è il proletariato stesso, a condizione che si convinca della immensa forza che la sua unità può produrre.