Sia pure tra mille difficoltà, incertezze e tentennamenti il processo di organizzazione e di lotta dei lavoratori extracomunitari in Italia ha proseguito in questi anni la sua, tuttora lenta, ma inevitabile strada. Più volte sulle colonne di questo giornale abbiamo appunto evidenziato come fosse segnale oggettivamente sintomatico di questo processo il progressivo distaccarsi degli immigrati dalle organizzazioni di stampo cattolico-assistenziale ed il loro relativo e parallelo avvicinamento al sindacato ed al (ex) Pci. La stessa Caritas diocesana, tutt'altro che scomparsa di scena, ha recentemente dovuto dismettere in varie occasioni i propri panni puramente assistenziali per farsi in un qualche modo portavoce di alcune rivendicazioni e di un certo malumore di gruppi di lavoratori di colore.
Intanto negli ultimi dodici mesi si è potuto registrare, fatto nuovo per il palcoscenico italiano, un inizio di mobilitazione diretta degli immigrati: dalle occupazioni di stabili a fini abitativi in varie città, alla manifestazione di Bologna per il diritto alla casa, dall'occupazione dell'assessorato all'edilizia popolare del comune di Milano da patte di lavoratori egiziani, alle "proteste" contro gli "eccessi repressivi" della polizia a Roma.
"Poca roba" si potrebbe obiettare. Ma a ben guardare (ammesso che si sappia e si voglia guardare), "poca roba" che però costituisce un'ulteriore dimostrazione di come sia in pieno atto quel tormentato e faticoso cammino che porterà i lavoratori di colore, da un’"ingenua" e spaurita "tutela dei propri diritti" affidata alle mani di enti caritatevoli più o meno direttamente istituzionali, ad una loro scesa in campo per affermare con la lotta la difesa delle proprie condizioni contro il feroce sfruttamento capitalistico cui sono sottoposti.
Contro questa eventualità lo Stato italiano sta da tempo attrezzandosi tramite tutta una serie di atti legislativi ed amministrativi che, al di là di tutte le chiacchiere, significano essenzialmente maggiore repressione e controllo per gli extracomunitari. Un deciso passo in questa direzione è stato compiuto con la legge Martelli (approvata a suo tempo con l'aperto appoggio di tutte le componenti dell'allora Pci): nel '90, primo anno di vigenza, si sono registrati 62.000 respinti alle frontiere ed oltre 12.000 provvedimenti di espulsione. Esponendo queste cifre (notevolmente superiori a quelle dell'89) ha perfettamente ragione il vicepresidente del Consiglio quando afferma che lo "spirito" della sua normativa è fondamentalmente restrittivo. Ed è sempre in questa direzione che va letta l'istituzione di un nuovo apposito ministero per l'immigrazione nell'ultimo governo Andreotti. Inoltre l'adesione del nostro paese al trattato di Schengen che prevede l'armonizzazione in senso restrittivo delle normative sull'immigrazione extracomunitaria tra le varie nazioni firmatarie (Belgio, Germania, Francia, Olanda, Lussemburgo) e l'attivismo italiano alla recente conferenza OCSE (marzo '91) sui problemi migratori, sono un'ulteriore ed ennesima prova di come ormai anche qui da noi sia in corso una strutturale pesante "stretta" nei confronti dei lavoratori immigrati.
L'Italia, paese di recente immigrazione, va velocemente mettendosi al passo con i partners europei molto più "svezzati" in materia:
programmazione dei flussi migratori in base alle necessità del mercato del lavoro (di volta in volta tanti immigrati quanti ne servono da sfruttare ai nostri padroni e padroncini ed al mantenimento d'un vasto esercito industriale di riserva);
relativo "irrobustimento" delle frontiere;
accentuazione della repressione interna.
Proprio nei mesi in cui l'imperialismo occidentale ha scatenato la sua infame aggressione contro l'Iraq e le masse sfruttate arabo-islamiche, questo processo di blindatura ha ricevuto un brusco colpo d'acceleratore. Tale contemporaneità è stata tutt'altro che casuale. Governo e borghesia italiana, al pari dei loro compari europei, hanno infatti operato decisamente per impedire ogni benché minimo accenno di saldatura tra il malcontento degli immigrati qui e la coraggiosa sfida lanciata in Medio-Oriente contro l'imperialismo. L'inasprimento di fatto delle "misure d'ordine pubblico" contro gli extracomunitari è stato finalizzato ad impedire che le fiamme della rivolta anti-imperialista attecchissero tra i lavoratori immigrati cominciando a minacciare dall’"interno" la pace e l'ordine delle nostre metropoli: in perfetta coerenza con il rafforzamento della politica di grande potenza l'Italia, mentre diventa sempre più aggressiva verso le masse diseredate del Sud del mondo, punta preventivamente la pistola alle tempie della "propagine in casa nostra" di queste masse. Così una pesante sequela di operazioni di polizia si è abbattuta sui lavoratori extracomunitari mirando fondamentalmente a scompaginarne l'embrionale livello organizzativo e la relativa capacità di lotta e resistenza collettiva.
Il caso della Pantanella a Roma ne rappresenta una testimonianza esemplare. Questo edificio, occupato nella primavera scorsa da lavoratori di colore, aveva via via assunto oggettivamente la funzione di luogo di ritrovo, discussione ed organizzazione in cui gli immigrati della capitale (non senza profonde ed a volte laceranti contraddizioni) cominciavano a riconoscersi "uguali in quanto sfruttati" al di là della nazione, etnia e religione di appartenenza. Ad ottobre i lavoratori asiatici alloggiati nella Pantanella ed organizzati nella U.A.W.A. (United Asian Workers Association) insorgono contro il controllo poliziesco che si fa sempre più assillante; sempre ad ottobre gli occupanti della Pantanella partecipano numerosi ad una manifestazione sotto il Campidoglio contro le "inadempienze" della giunta capitolina; a dicembre in un'assemblea tenuta nell'edificio dopo una rissa tra asiatici ed africani (subito vigliaccamente strumentalizzata ad arte dalla stampa) in vari interventi si afferma che "a combattersi tra di noi si ha solo da perdere"; insomma lentamente inizia a farsi strada l'intuizione che unendosi e facendo "massa" forse qualche cosa la si può ottenere. Ed è proprio contro questa "intuizione" che le istituzioni a tutti i livelli cominciano a muoversi: il sindaco Carraro parla della Pantanella come di una "mina vagante", il vicepresidente del Consiglio Martelli critica il "lassismo" dell'amministrazione locale che ha permesso si giungesse a tal punto, la questura fa sapere di essere sempre pronta a risolvere questo problema "d'ordine pubblico" e i giornali cominciano ad invocarne l'intervento. In sostanza questa pericolosa infezione sociale (sociale, altro che etnica!) non può più essere tollerata; adesso questa "piaga" va estirpata con prontezza, tanto più che rischia di farsi strada tra gli immigrati un "pericoloso" sentimento di simpatia e solidarietà verso i loro fratelli che in quel momento in Medio-Oriente danno orgogliosamente battaglia in campo aperto all'imperialismo occidentale. La mattina del 31 gennaio un ingentissimo schieramento di polizia e carabinieri circonda l'ex pastificio e dopo una breve trattativa gli extracomunitari "accettano" in cambio di alcune promesse (ovviamente poi prontamente disattese) di essere divisi per nazione di provenienza e trasferiti in vari comuni laziali. Dopo, puntuali, arriveranno numerosi provvedimenti d'espulsione.
Il caso della Pantanella non è emblematico solo per quanto riguarda l'atteggiamento degli apparati statali e governativi, esso è esemplare anche per quel che concerne le forze politiche e sociali "democratiche, progressiste e di sinistra". Dove erano in quei giorni i fautori della "società multirazziale"? Dove i dolci giovanotti antirazzisti della Sinistra Giovanile? Dove si trovavano i candidi pidiessini ed i seriosi leaders di "rifondazione comunista"? E dove la cosiddetta "sinistra alternativa"? Dove stava insomma quel "multiforme" movimento sempre pronto a blaterare su "multietnicità", "polifonia", "cultura della diversità" ed amenità simili? Un lavoratore pakistano durante lo sgombero della Pantanella, ben interpretando lo stato d'animo generale, diceva: "Siamo consapevoli che divisi e sparpagliati fuori Roma saremo più deboli, ma adesso siamo soli e non abbiamo la forza di resistere". Mai come in questo frangente infatti il cosiddetto movimento antirazzista (al pari di quello pacifista di cui condivide buona parte di materiale umano) ha dimostrato a pieno la sua inanità: è bastato che l'imperialismo italiano mostrasse i denti, e subito questa "poliedrica aggregazione di donne e di uomini" impaurita e disorientata (oh, povere anime candide) si è dileguata e sciolta come neve al sole. Signori del "nero è bello", amanti della cucina palestinese e dei "suoni africani", questa volta non vi si chiedevano astruse prediche su fantomatiche politiche di accoglienza, ma schieramento di lotta e di incondizionato appoggio agli sfruttati del "terzo mondo": avete mancato in pieno dimostrando (ci auguriamo una volta per tutte) la vostra assoluta e totale incapacità a ciò.
A1 contrario i lavoratori immigrati hanno sempre più necessità di lotta e di validi compagni di battaglia e questi non potranno che trovarli nell'unico "settore" della società storicamente interessato alla distruzione dello sfruttamento capitalistico: la classe operaia. Estrema è l'attenzione di governo e borghesia contro questa prospettiva. "Per gli operai è disponibile solo un numero invalicabilmente ristretto di pagnotte ed ogni boccone in più per un immigrato equivale ad uno in meno per un lavoratore bianco": questa la materialissima (altro che culturale, lorsignori sì che se ne intendono!) tesi di fondo su cui si basa l'iniziativa e la sciovinistica propaganda padronale mirante ad ostacolare "pericolosi" contatti tra questi due settori del proletariato ed, anzi, a rimarcarne ed approfondirne le distanze.
L'azione di divisione e contrapposizione tra sfruttati non può certo essere contrastata dalla vergognosa politica dei vertici sindacali: il totale rispetto delle "superiori esigenze dell'economia nazionale", davanti a cui le segreterie confederali sono sempre più prone, significa infatti proprio accettare in pieno che il "numero delle pagnotte" per i proletari sia assolutamente subordinato alle esigenze capitalistiche. Ed inoltre: come si può facilitare l'unificazione tra lavoratori "indigeni" ed extracomunitari se, invece di chiamare alla mobilitazione comune, si tende al contrario a mantenerli rigidamente separati e compartimentali col pretesto di una presunta (ci risiamo!) "diversità" da tutelare?
Viceversa, a diventare effettivo punto di riferimento per la lotta e l'organizzazione degli immigrati di colore la classe operaia ha tutto da guadagnare: essa infatti, ponendosi come asse centrale d'un vasto schieramento proletario, vedrà aumentare le proprie forze in vista del duro e necessario scontro col capitalismo che inevitabile si prospetta all'orizzonte. Perché ciò possa avvenire, è innanzitutto di fondamentale e primaria importanza che la classe operaia prosegua per il faticoso percorso, appena intrapreso, di ripresa della lotta e che si batta per i propri interessi a prescindere e contro le compatibilità capitalistiche. È nella lotta che potrà vedere nei lavoratori di colore non dei pericolosi concorrenti, ma degli autentici fratelli di classe; è lottando che potrà vedere in essi un prezioso "ponte" di collegamento con le masse sfruttate del Sud del mondo per la sempre più necessariamente unitaria "guerra santa" contro il capitalismo. A questi criteri di fondo si è conformata la nostra azione di propaganda verso il proletariato anche intorno alla vicenda della Pantanella (come si può vedere dal volantino diffuso dalla nostra sezione di Roma).