Dopo gli eccidi in Azerbajgian
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I possenti sommovimenti in Armenia- Azerbajgian sono solo l'episodio più recente del rinfocolarsi della "questione nazionale" in URSS, all'indomani di tensioni già manifestatesi tra i tartari, negli stati baltici e in Kazakistan. Da molte parti si parla di questo problema come di un detonatore in grado di far saltare la stessa unità dell'URSS. Ciò proprio mentre, con Gorbacev, la politica di Mosca verso le nazionalità ha definitivamente abbandonato ogni traccia dell'antico (e recente) dispotismo grande-russo e si profonde, al contrario, in riconoscimento di diritti e poteri "sovrani" ai singoli stati sovietici. Che succede dunque? E quali le prospettive future? |
Per rispondere a questi interrogativi occorrerebbe prendere accuratamente in considerazione tutta la storia precedente dell'URSS, col posto che in essa ha trovato la "questione nazionale", perché le attuali esplosioni nazionali non sono il frutto di contraddizioni create dalla politica gorbacioviana, ma la risultante di un precedente loro accumulo che, paradossalmente, la politica "liberalizzatrice" della perestrojka chiama al dunque.
La liberalizzazione gorbacioviana anche in tema di nazionalità procede necessariamente dallo sviluppo squilibrato del capitalismo sovietico forgiatosi sotto Stalin e la "deregulation" da uno Stato ipercentralizzato alle unità locali, dalla "pianificazione amministrativa" al mercato sovrano, ecc. ecc., può sì promettere passi in avanti nello sviluppo (o quantomeno la salvezza dalla stagnazione e dal crollo), ma a patto di render ancor più marcati squilibri e contrasti tra classi (e popoli) dell'URSS. Il nuovo insorgere di tensioni nazionali in URSS mostra come non mai che la soluzione della questione nazionale è incompatibile con lo sviluppo capitalista e può essere assicurata unicamente dalla prospettiva socialista internazionale.
Dall'Ottobre a StalinL'impero zarista spazzato via dall'Ottobre costituiva un'autentica "prigione di popoli", secondo l'espressione di Lenin, nelle sue proiezioni esterne (verso la Polonia, ad esempio) e al suo stesso interno e su questa solida base autocratica la "Santa Russia" proiettava su tutta l'Europa occidentale la sua sinistra ombra di conservazione controrivoluzionaria. Distruggere questa prigione significava, ad un tempo, liberare i popoli direttamente oppressi dal knut zarista ed aprire la strada alla rivoluzione in Europa. L'Ottobre bolscevico realizzò un tale programma.
Andrebbe meditato più a fondo di quanto comunemente non si faccia su come e quanto il successo della rivoluzione bolscevica fu dovuto non solo ad una mobilitazione delle classi oppresse (proletari e contadini poveri) - secondo l'ottica "economicistica" ristretta di certi "marxisti" -, ma alla sollevazione "nazionale" contro il dispotismo grande-russo zarista. Non si tratta di due separate questioni, ma, per chi almeno conosca le tesi marxiste sulla questione nazionale, di due questioni fuse in una. Solo la vittoria del proletariato in quanto classe e l'avvio di rapporti economico-sociali socialisti poteva permettere alle nazioni oppresse di accedere, eguali in diritto e di fatto, ad un reale; armonico sviluppo umano in grado di assimilare in sé i valori autentici prodotti dalle singole nazioni, superandone ogni tendenza al gretto particolarismo nazionalistico borghese.
Quando Lenin dice che l'elettrificazione più il potere del soviet significano una garanzia di vittoria per il socialismo intende dire che, spezzato il potere borghese, si può cominciare l'opera pianificata di armonizzazione tra produzione e bisogni umani. L'instaurazione di rapporti sociali sulla via della sparizione degli antagonismi di classe e nazioni. Compito irrealizzabile entro i limiti di "un solo paese", ma, nell'ambito anche di un singolo stato a potere sovietico, sostenibile nel senso di impostarvi correttamente i problemi di classe e nazione per estendere altrove l'incendio rivoluzionario da cui la realizzazione piena di questo compito dipende.
Va ricordato che l'URSS, qual essa è oggi nella geografia politica, non nasce d'un botto. L'Ucraina appare come repubblica sovietica indipendente nel dicembre del '17; successivamente si creano le repubbliche socialiste sovietiche di Bielorussia, Azerbajgian, Armenia e Georgia (queste ultime tre formeranno nel '22 la "Federazione transcaucasica"). Il processo unitario tra le singole repubbliche conosce un'accelerazione nel '19, ma è solo alla fine del '22 che esso può dirsi compiuto (con successiva sanzione costituzionale nel '24). Nel frattempo, qualcosa si è guastato nel meccanismo del potere rivoluzionario, come attesta la fiera opposizione di Lenin contro un programma di "unità" delle singole repubbliche e del vari popoli sovietici dietro cui egli intravede profilarsi di nuovo l'ombra dell'oppressione grande-russa (vedi riquadro relativo alle discussioni sulla "questione nazionale" in URSS nel PCb).
Il "socialismo in un solo paese" di Stalin non si limita ad "isolare" l'URSS dal contesto della rivoluzione internazionale, ma, per la sua dinamica naturale, reintroduce sin dall'inizio in URSS processi di sopraffazione nazionale propri del regime precedente. Il filo ella rivoluzione si spezza in duplice senso. La sbornia del ritmi di sviluppo accelerati comporta una centralizzazione amministrativa dell'economia e del potere imperniata sull'elemento grande-russo. L'industrializzazione forzata, in questo quadro, implica contemporaneamente l'esasperazione del dominio del capitale sul lavoro salariato (nonostante la "proprietà socialista di tutto il popolo") e l'esasperazione dell'ineguaglianza e della sopraffazione nazionale (nonostante l'unica "patria socialista sovietica").
Basti pensare a come la "collettivizzazione" agraria abbia diversamente inciso sul territorio sovietico, significando per le "piccole nazioni" di nuova oppressione non solo l'eradicamento delle tradizionali strutture economiche di sussistenza, ma una mancata (o molto minore) compensazione m termini industriali, una cospicua immigrazione di quadri tecnici e politico polizieschi grande-russi in funzione di controllo e - in pratica - di dominio in parallelo a processi di vera e propria deportazione in massa delle popolazioni autoctone verso i "paradisi" dello sviluppo industriale forzato, per finire addirittura, come nel caso del tartari, con tentativi di sterilizzazione di interi gruppi nazionali sospetti di "antisovietismo".
Lo strumentario politico di Stalin verso gli allogeni è assai vario, ma tutto finalizzato alla costruzione di quel supersviluppo gabellato per socialismo che ha nella Grande Russia il suo centro motore: si va dal pugno di ferro ad una politica di attizzamento delle rivalità interregionali in funzione del classico "divide et impera" sino alla concessione selettiva di relative autonomie, culturali in primo luogo, per favorire processi di assimilazione "spontanei" nello spirito della "grande patria sovietica" (ne saranno discriminati in particolare gli elementi musulmani, tedeschi, polacchi ed ebrei, contro i quali ultimi si riscatenano i classici pogrom di vecchia tradizione zarista). Stalin mira a colpire simultaneamente due obiettivi: lo "spirito nazionalistico borghese" (quello del non grande-russi, naturalmente, mentre per questi ultimi non si ha vergogna a rimettere sugli altari come "padri fondatori" i grandi zar del passato e, all'occorrenza, la stessa chiesa ortodossa "nazionale") e il "cosmopolitismo", cioè lo spirito internazionalistico, in quanto "entrambi" avversi al "genuino patriottismo sovietico". È allora difficile capire come mai intere nazioni oppresse dallo stalinismo siano state costrette a rifugiarsi nella "riscoperta" del proprio essere nazionale e nel "blocco nazionale tra tutte le classi" a difesa di esso?
La colpa del nazionalismo degli oppressi è sempre del nazionalismo oppressore, c'insegna Lenin. Data non sospetta: 1922, dinanzi ai primi ed ancor timidi ségnali di quella che poi sarebbe stata la "costruzione del socialismo".
Nel '36 la nuova Costituzione staliniana continua formalmente ad attribuire alle singole repubbliche ed alle rispettive nazionalità ampi diritti, sino alla secessione dall'Unione, ma questi "diritti" sono praticamente soffocati dalla concentrazione di tutti i poteri nelle mani del centro grande-russo, dagli indirizzi e dalla destinazione del risultati in economia sino alla giurisdizione su limiti ed obiettivi dell'autonomia regionale. (La facoltà di ogni singola repubblica di decidere della "propria" economia, di intrattenere direttamente rapporti commerciali e diplomatico-politici "propri" con l'estero, addirittura - secondo una disposizione del '44 - di disporre di un "proprio" esercito è, evidentemente, una pura finzione, anche se sulla base di essa Ucraina e Bielorussia si conquisteranno un "autonomo" seggio ciascuna all'ONU in quanto "stati sovrani"!).
La strada attuale della Federazione SovieticaLa nostra critica allo stalinismo in campo economico non sta nel negare che con esso si sia prodotto un reale sviluppo del paese e che quindi, sotto questo aspetto, esso abbia svolto una funzione "progressista". Intendiamo "solo" rilevare che questo sviluppo è avvenuto nel puro quadro ed ai fini del sistema capitalista. Del pari, la critica sulla "soluzione" della questione nazionale in URSS non intende proporre delle contro-ipotesi "costituzionalistiche" per cui essa sarebbe potuta marciare diversamente entro quel dato quadro. Il moderno capitalismo sovietico fucinato da Stalin ha agito, per l'essenziale, come doveva agire. Solo a partire dalla realizzazione del suoi intrinseci obiettivi di fondo lo stalinismo è diventato "superato" per i suoi eredi e sottoponibile a revisioni storico-morali retrospettive (come sogliono fare gli onestuomini figli di briganti, badando a tenersi stretto il malloppo ereditato dai "trasgressivi" genitori) nonché a revisioni attuali in materia di indirizzi politici ed economici.
Col XX Congresso del PCUS, nel '56, è cominciato un, sia pur tormentato, processo di "destalinizzazione" della società sovietica. Di che si tratta? Ripetendo in breve temi già più volte esposti: la "centralizzazione di ferro" dell'epoca staliniana, elemento cardine dello sviluppo capitalista sovietico, è venuta ad urtarsi, una volta raggiunto un certo grado di maturazione economica, coi problemi di una crescita non più stimolabile e eppure controllabile entro la cornice recedente. Di qui a crescente decentralizzazione economica sulla trama del mercato e di qui, anche, la "democratizzazione" della vita civile e politica. Pluralità di domande, di stimoli, di "soggetti" di classi; una pluralità inconciliabile col "dispotismo" centralistico, l' "amministrativismo" e via dicendo. L'antistalinismo post-XX Congresso altro non è che il frutto maturo del lavoro compiuto sotto Stalin e la conseguente premessa per andare oltre, una volta tramontata l'epoca "giacobina" della "costruzione del socialismo in un solo paese".
Sul terreno delle nazionalità si può dire che, a questo punto, anche l'elemento di oppressione sciovinista granderusso abbia sostanzialmente compiuto la sua funzione. Esso, d'altronde, non è mai stato l'agente di un'operazione di sfruttamento e rapina di tipo coloniale, ma di tessitura dell'ordito capitalista (ovviamente coi tratti odiosi dello sciovinismo e di veri e propri "atteggiamenti imperialistici") a scala di tutte le Russie. Oggi si può dire che quest'opera è terminata per l'essenziale. Le regioni e le nazionalità extrarusse hanno decisamente imboccato la via di uno sviluppo capitalista che avvolge in un unico intreccio l'intera URSS. Su questa via esse hanno progressivamente conquistato una maggior autonomia rispetto all'elemento grande-russo, nello stessa misura in cui tutti gli elementi "nazionali" dell'URSS si sono sempre più subordinati alle regole impersonalmente dettate dal capitalismo (con un progressivo liquefarsi di tutte le "cortine di ferro" in altri tempi erette a difesa del "proprio" autarchico sviluppo "socialista").
Potrebbe parere da ciò che l'elemento di differenziazione nazionale debba gradatamente perdere d'importanza. Non è così. Non lo è, in primissimo luogo, perché la decentralizzazione sulla base del rapporti di mercato crea crescenti dislivelli "regionali" a seconda delle risorse (naturali, tecnicoproduttive, finanziarie ) ed a seconda delle condizioni di sviluppo storicamente datosi. Ora, sono evidenti due cose: che lo sviluppo regionale dell'URSS si è dato in modo nazionalmente molto squilibrato e non solo, o principalmente, per motivi "naturali"; che il futuro godimento delle risorse "autoctone" dipenderà, meno che mai, da altrettanti fattori "naturali", ma dalla forza del capitale e dal timone politico dello Stato chiamato ad attivamente rappresentarla. In secondo luogo, le "piccole nazioni" dell'URSS che hanno vissuto la tragedia del completo sovvertimento della loro base produttiva e sociale tradizionale sotto il knut grande-russo "dissimulato sotto il nome di comunismo", hanno accumulato nei decenni forti risorse di resistenza, stringendosi comprensibilmente attorno alla propria "identità nazionale", alla propria lingua, alla propria cultura, ai propri usi e costumi, alla propria religione (spesso lasciata solo a rappresentare la bandiera del proprio diritto naturale e storico ad esistere).
L'insieme di questi fattori fa si che l'istanza neo-nazionale venga sollevata tanto dalle nazionalità "affluenti" che da quelle potenzialmente condannate ad una crescente marginalità, se non al sottosviluppo. La direzione che quest'istanza potrà prendere dipende da molti fattori. In linea generale si può dire che tutta la fascia extra-russa occidentale ha interessi "contrattualistici" di disputa, ma anche, contemporaneamente, di stretto legame con l'Unione (con la parziale eccezione degli stati baltici, che potrebbero non rimetterci da una secessione data la loro possibilità di reintegrarsi con l'Occidente, ma cui "mancano i numeri" per un'operazione del genere). Diverso il discorso per la fascia sud-orientale, appartenente a quel mondo che Lenin vedeva proiettato sulla scena storica "subito dopo di noi" e che è poi quella che più ha sofferto della discriminazione sciovinista e dell'ingiustizia di fatto connessa allo sviluppo diseguale. In quest'ultimo caso, non bastano gli indubbi miglioramenti conseguiti negli standard di vita da questi popoli sotto il regime sovietico (e tanto più comparativamente rispetto ai contigui .paesi medio-orientali ed asiatici) a spegnere l'istanza nazionale. Chi può valutare, ad esempio, l'impatto dell'affare afghano tra le popolazioni musulmane sovietiche?
La mancata soluzione del problema nazionale nei decenni precedenti ripropone pertanto questa questione in termini assai più esplosivi al presente, allorché l'unità sovietica, realizzata solo sulla carta, viene a misurarsi con i processi di decentralizzazione a tutti i livelli. Un'occhiata a quanto sta accadendo in Jugoslavia, pur senza trarne alcun meccanico parallelismo, può dare un'idea del rischi connessi ad un tale impatto. Sarà pur vero che l'URSS ha maggiormente abbattuto le barriere nazionali, riuscendo ad estendere a tutto il paese una certa base produttiva "autosufficiente" e a diffondervi una cultura-base sovrannazionale (cioè russa tout court). In realtà, però, sul primo tema sappiamo ben poco e le stesse statistiche ufficiali attorno agli anni '70 ci davano dislivelli di prodotto disponibile pro-capite regionalmente dell'ordine 2:1 (e secondo criteri statistici scarsamente attendibili) ed è indubbio che, con la perestrojka, questa forbice andrà ad allargarsi piuttosto che a chiudersi. Sulla seconda questione, solo oggi ci è dato sapere dalle fonti ufficiali che un 30% del non-russi non intende neppure la lingua russa ufficiale e che, con lo sviluppo delle culture nazionali, non si prevede una diminuzione percentuale, ma piuttosto il contrario; che le tradizioni culturali autoctone vanno rafforzandosi (a cominciare dal revival islamico che, Corano a parte, riesce tuttora - 1988! - a far passare sul proprio territorio costumanze "civili" per nulla scalfite dall'avvenuta "costruzione del socialismo", sino a quella della poligamia e delle "curvées" ).
Nazione e classeTorniamo al punto di partenza di Lenin: spetta al proletariato, spetta al socialismo risolvere la questione nazionale. A 66 anni di distanza da quando furono scritte, le sue parole conservano intatta la loro validità ed attualità. Abbiamo detto che il "nuovo corso" gorbacioviano è destinato a moltiplicare le spinte centrifughe anche sui terreno nazionale. Ciò rappresenta un problema per il regime, che più volte si è dimostrato conscio del pericoli insiti in un processo di "riforma" lasciato a sé stesso (citando al proposito l' "altra faccia della medaglia" dello sviluppo in paesi come la Cina e la Jugoslavia). Su quest'ordine di difficoltà specula la resistenza alle riforme dell'ala conservatrice della burocrazia sovietica.
Va chiaramente esplicitato che i comunisti rivoluzionari non stanno né dalla parte di Gorbacev né da quella del suoi avversari interni, ma la posizione, sempre rigorosamente autonoma rispetto ai due soggetti è diversa. La strada che Gorbacev percorre è quella che meglio si presta allo sviluppo più libero di moderni rapporti economico-sociali capitalistici e quindi allo sviluppo delle contraddizioni di classe in essi insiti, mentre quella del suoi avversari non è in grado di proporre che la stagnazione, o peggio, sia pur condito da condizioni "più eguali" nella merda "collettiva". Il proletariato deve guardarsi da ogni collusione con quest'ultimo settore della burocrazia, che lo condannerebbe sia sul piano immediato che su quello storico. La sfida gorbacioviana va invece accolta positivamente nel senso che i proletari debbono cominciare ad organizzarsi distintamente ed a battersi per sé, in quanto classe, contro le conseguenze dello sviluppo capitalista, lungo la via verso il rovesciamento rivoluzionario del sistema. L'anticapitalismo proletario guarda al domani, non allo status quo ante, respingendo ogni forma di "socialismo reazionario". "Manifesto" 1848.
Questa "costituzione del proletariato in classe e quindi in partito politico" è la chiave di volta per un'impostazione corretta della stessa "questione nazionale". Invano ci si interrogherebbe sul "cosa faremmo noi se fossimo in URSS" trascurando questo preliminare. Il proletariato ed il suo partito non hanno formulari costituzionali da dettare su cui competere con la borghesia entro la società presente. Hanno - se ed in quanto esistono realmente - il proprio programma "eversivo" di liberazione, di classi, popoli, "individui".
Il primo storico dovere del proletari dell'URSS è di dotarsi di associazioni, sindacati e di un partito propri sovrannazionali per rispondere ai colpi di un sistema nemico che, esso pure, è tale (sia pur suddiviso per ramificazioni di vario genere in collisione tra loro). Premessa e conseguenza di quest'unità è la lotta accanita contro ogni discriminazione nazionale, contro ogni sciovinismo, nella società in generale e all'interno del proletariato in particolare. A questa stregua si può dire che il problema nazionale trova una prima soluzione tra le file del proletariato.
La lotta per l'eguaglianza nazionale significa allora battersi innanzitutto per unificare realmente il proletariato sovietico, contrapporsi ad ogni discriminazione su base nazionale (giuridica e di fatto), esigere - ad esempio - la cessazione del controlli sulla circolazione della manodopera all'interno dell'URSS, l'uso "selettivo" di essa, l'abolizione della condizione di "clandestinità" e la ghettizzazione degli immigrati, la messa in atto di strutture atte a favorirne il pieno inserimento ad eguali diritti nella società, nel rispetto più rigoroso delle particolarità (ed "in una certa misura" nella comprensione più ampia delle sopravvivenze di pregiudizio nazionale tra di essi); significa prendere le distanze ed organizzarsi contro ogni reviviscenza sciovinista anti-"stranieri"; e significa, naturalmente, inserire quest'azione entro la più ampia cornice politica cui fa riferimento Lenin.
Non è nell'interesse del proletariato sovietico, di qualsivoglia nazionalità, innalzare la bandiera della separazione dall'URSS ed un tale problema di fatto non si pone neppure per 1insie-me del popolo" della stragrande parte di queste nazionalità, comprese quelle che possono lamentare condizioni di effettiva disparità. Ciò non significa, per altro, il venir meno del "diritto all'autodeterminazione" e l'impegno del proletariato a far sì che esso sia rispettato: a sessant'anni dall'Ottobre la questione nazionale non può dirsi chiusa, in URSS, neppure dal punto di vista borghese. Il riconoscimento di questo dato di fatto, però, va nel proletariato in senso inverso a quello per cui lo sollevano i nazionalisti borghesi, mirando a fare della lotta per il rispetto del diritti nazionali "sino in fondo" un elemento di unificazione sovrannazionale del proletariato contro lo sfruttamento capitalistico e lo sciovinismo oppressore che ad esso si riconnette e non un elemento ulteriore di divisione tra gli sfruttati a servizio di "blocchi nazionali tra tutte le classi" di questo o quel "popolo". Proviamoci ad immaginare cosa significherebbe in concreto questo discorso "astratto" applicato all'attuale conflitto triangolare Armenia-Azerbajgian-Mosca. La questione del Nagornno-Karabak, che pur va affrontata, riconoscendo agli armeni il loro pieno diritto alla riunificazione della regione alla terra da cui e stata arbitrariamente staccata, è del tutto subordinata rispetto al problema principale, che sta nel contrapporsi ad ogni riaccensione di tensioni etniche: vale tanto per i russi che per gli azerbajgiani che per gli armeni (questi ultimi dovendo in qualche modo farsi carico, nel sostenere le proprie rivendicazioni, delle frustrazioni e delle legittime aspirazioni degli azerbajgiani e della particolare oppressione da essi selettivamente subita sotto Stalin in quanto "infidi musulmani".
Nel "dossier" del n. 5 del Che fare dicevamo che non grava sul proletariato sovietico la minaccia di un revival nazionalistico. Questo giudizio va riconfermato: lo sviluppo delle "riforme" gorbacioviane, se esse procederanno dritte per la via imboccata, accentuerà più i conflitti (e le identità) di classe che quelle di nazione. L'infezione sciovinista nel proletariato granderusso ha minori risorse che in passato per deviarlo dal suo storico percorso. L'oppressione nazionale, se ed in quanto esistente, schiera in prima fila il capitale "pansovietico" e le sue leggi sovra ed extra-nazionali ed accanto ad una borghesia sciovinista granderussa evidenzia una borghesia locale vitalmente intrecciata con essa, sì che le rivendicazioni nazionali, lungi certo dall'annullarsi, sono in grado di inserirsi nel più generale percorso di liberazione sociale (in quanto tale portatrice dell'unico progetto di autentica liberazione dall'oppressione nazionale). Naturalmente, parliamo di potenzialità e non di esiti "naturali", "ineluttabili". Nella disgraziata eventualità che il cammino verso l'autoidentificazione del proletariato sovietico in quanto classe anticapitalista subisse lunghe fasi di arresto (e certamente sono in molti a congiurare in tal senso!) ed ove mancasse una solida iniziativa proletaria in quell'Occidente che si appresta ad "invadere" l'URSS coi "carri armati" delle sue risorse capitalistiche, ed ove, infine, venisse meno la saldatura tra questi proletariati e le masse oppresse d'Oriente, il "naturale" corso borghese ci riserverebbe, in URSS e dovunque, la riedizione delle peggiori pesti del "passato", prima fra tutte quella di un nazionalismo "legittimo", ma anche separato e provvisoriamente contrapposto alla soluzione proletaria del dramma storico. Non pretendiamo "garanzie preventive" per la nostra azione. Quel che è doveroso è tracciare i compiti che ci competono e lo scenario su cui essi si misurano. Più che mai, anche per l'URSS, questo scenario ha dimensioni che non si rinchiudono nell'ambito di singoli stati, regioni o cocuzzoli autonomi, e neppure della sola Unione Sovietica, ma abbracciano come al tempo di Lenin spazi di ben altra portata.