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Mucche pazze, polli alla diossina, pesci al mercurio e mais transgenetico. Fare la spesa sta diventando sempre più rischioso. I casi di morti per Creutzfeldt-Jacob (il morbo della mucca pazza) si fanno sempre più numerosi e si sommano ai tanti di "tumore", delle cui cause reali si parla ancor di meno. La carne infettata è solo una parte di tutto il veleno che questa società ci propina.
Tanto negli animali, quanto negli uomini (dove può avere una incubazione di 10 anni) esso viene trasmesso per mezzo dei "prioni" una forma degenerata di proteine che si trovano normalmente nelle cellule del cervello. Pur non avendo acido nucleico (RNA o DNA) i prioni riescono ad "infettare" le proteine naturali, modificandone la struttura. La mutazione provoca la lenta ma inesorabile distruzione del tessuto celebrale. Essi finiscono per provocare una malattia simile a quella del morbo di Alzaimer.
Lo Stato, il governo, i mass media ci spiegano che esso è un "morbo" importato da mangimifici stranieri che producono alimenti animali senza nessun controllo. Ieri l’Inghilterra, oggi la Francia, ma allora perchè anche l’Italia, la Germania e la Spagna vi sono coinvolte? Ed inoltre questo nuovo allarme non sarebbe limitato solamente alla carne rossa, ma riguarderebbe tutta la carne inscatolata, perfino gli omogeneizzati ed i dadi da brodo.
Non è un problema di allevatori buoni o allevatori cattivi, né tanto meno di allevatori stranieri o italiani. Oggi, tra l’altro, non vi è più nessuno alimento (agricolo o di allevamento che sia ) "solo inglese" o solo "francese" o solo "italiano". Il 60% delle industrie agro-alimentari italiane è stata incorporata alle grandi multinazionali e soltanto 400.000 mila capi di bestiame nascono nel paese, gli altri vengono importati in tenera età. Inoltre gli allevamenti e gli stabilimenti di macellazione seguono qui, come nel resto del mondo, le stesse logiche: come ricavare più profitti? Accorciando tempi e costi di allevamento. Ed ecco allora che gli animali vengono imbottiti di anabolizzanti ed estrogeni per gonfiarne la carne e di antibiotici per svilupparne la crescita. Ma non basta: le mucche, notoriamente "erbivore" vengono alimentate da farine animali, ricavate perfino dai cadaveri. Ma questo vale anche per l’agricoltura: gli "ecologisti" si battono per i prodotti biologici (niente diserbanti, ad esempio), ma sul "mercato" le sementi che si trovano sono ormai solo quelle geneticamente trattate! E d’altra parte chi potrebbe oggi permettersi di alimentarsi dei cosiddetti "prodotti biologici"? Forse Agnelli, De Benedetti, Berlusconi, non certo una famiglia di lavoratori.
La verità è che l’intera catena alimentare mondiale è infettata, ma non dal morbo della mucca pazza, bensì da quello, ancor più distruttivo, del profitto capitalista. Perché mangiamo alimenti sempre meno sani? Perché la naturale qualità nutrizionale dei cibi poco si accorda con la necessità capitalistica di ricavarne più soldi e quindi essi vengono modificati ed alterati. Non si tratta dunque di allevatori o produttori cattivi, ma di un’agricoltura sempre più violentata nel nome del profitto. Di quel profitto che ordina di non "produrre più latte" perché la sovraproduzione abbasserebbe il suo valore di mercato ma di produrre più carne, anche a costo di alimentarla di carcasse animali. Il fatto è che l’intero mercato agro-alimentare del pianeta (dal Senegal alla Francia, dagli Stati Uniti alla Cina) si è globalizzato e come quello del lavoro, segue le sue ferree regole di concorrenza capitalista: "ridurre i costi!" Poco importa a questa economia selvaggia se i suoi alimenti diventino assassini e che la natura tutta impazzisca producendo alluvioni, buchi nell’ozono, desertificazioni selvagge, ect. D’altra parte questa società capitalista costringe l’uomo stesso a subire la sorte delle sue mucche pazze. Il lavoratore, come la mucca, deve sempre più essere a "basso costo" e se la mucca deve crescere in fretta per rendere più concorrenziale l’industria agro-alimentare anche il lavoratore deve diventare sempre "più ragionevole" e sempre più "flessibile" in nome della competitività aziendale! Poco importa se aumentano le morti bianche nei posti di lavoro, se si muore di "pioggia" ed i tumori sono diventati la piaga del secolo.
Impossibile "tornare indietro", ai tempi del piccolo produttore o del piccolo allevatore. La piccola produzione non solo subisce le regole della "grande" (di cui regge sempre meno la concorrenza); ma lo stesso piccolo produttore non può svincolarsi dalle regole del sistema: pur quando vuole produrre "artigianalmente" è costretto ad acquistare i suoi mangimi, i suoi capi di bestiame, i suoi concimi dalle grandi multinazionali! Non può essere questa la strada, sebbene lo stesso sfrenato "consumismo" anche alimentare a cui questa società ci ha abituato in nome del profitto, dovrebbe essere completamente ripensato in nome di una alimentazione più sana, più equilibrata e più in sintonia con la natura. Non è comunque lo sviluppo delle forze produttive la causa dei nostri problemi, ma il loro utilizzo. I progressi scientifici e tecnologici, fin ora raggiunti, ci permetterebbero di vivere meglio, mangiare meglio, lavorare di meno, avere un rapporto diverso fra noi e la natura. Qui e nel resto del mondo. Come è possibile –al contrario – che essi diventino, in Occidente, cause di sempre più sofisticate alienazioni e malattie e che centinaia di milioni di esseri umani, nel Sud del mondo, muoiano ancora, nel terzo millennio, di fame e di sete?
E’ possibile perché tutte le scoperte, tutte le invenzioni, tutte le ricerche, che vengono fatte sono finalizzate a "fare denaro". Le multinazionali agro-alimentari, esattamente come quelle farmaceutiche, non studiano, non ricercano per il bene dell’umanità, ma per ricavare più profitti da una pianta, da un’animale o da una malattia… Si privilegia questa o quella produzione, questa o quella "ricerca scientifica" non perché essa può servire alle persone, ma perché essa può essere più o meno "remunerativa" ( e solo per questo motivo è finanziata o agevolata dallo Stato) In una società diversa, la ricerca scientifica applicata all’agricoltura dovrebbe essere finalizzata a migliorare la qualità di quello che mangiamo e consumiamo, nel rispetto dell’ambiente e del lavoro necessario a garantirla. Oggi si produce solo per il valore di scambio più o meno alto che può avere sul mercato una "determinata merce", poco importa se il suo valore d’uso per la collettività ( sofisticato dalle farine animali, dagli additivi, dai diserbanti e quant’altro) produca i morbi più devastanti e le malattie più invasive.
E’ questo il migliore dei mondi possibili? O non ci troviamo piuttosto davanti ad un sistema sociale che nella sua corsa impazzita per difendere gli attuali rapporti di produzione sta creando danni che rischiano di diventare irreversibili? Possiamo difenderci sperando nelle rassicurazioni di uno Stato che di questa spirale selvaggia è il cane da guardia? Lo stesso Nicole Fontane, presidente del parlamento di Strasburgo, è stato costretto ad ammettere: "Si ha l’impressione che l’interesse della produzione e dei governi abbia la meglio sulla salute pubblica".
E perché lo Stato italiano che di questo sistema economico è parte integrante, che ne alimenta e ne protegge il malsano consumismo (e la ancor più malsana produzione) dovrebbe salvaguardarci? Serve qualcosa di più. Serve iniziare a pensare che questa società necrofila ed assassina deve essere superata, serve pensare che possiamo vivere e lottare per qualcosa di diverso: per una trasformazione globale dei nostri rapporti sociali, per un rapporto diverso fra noi ed i nostri simili, fra noi e la natura. Ma per far ciò occorre abbandonare l’idea che qualcuno possa difenderci, possa tutelarci. Nessuno lo ha fatto fino ad adesso, nessuno lo farà domani. Il nostro futuro, quello dei nostri figli, quello dei nostri nipoti dipende solo da noi e dalla nostra capacità di riconquistare un programma ed un’organizzazione di classe del proletariato che si batta fino in fondo contro il capitalismo, per una società socialista.
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