Tutti sulla stessa barca?

Le recenti dichiarazioni di Berlusconi sulla possibilità di tagliare ferie e “ponti” per favorire la “ripresa economica” hanno suscitato una serie di prese di posizioni. In molti, a prima vista, sembrano aver giudicato l’esternazione del presidente del consiglio  “inopportuna o sbagliata” e – a parole – aver preso le distanze dal premier. Pericolo scampato, dunque? Tutt’altro! Proviamo a rifletterci collettivamente su. 

Quella di Berlusconi non è stata – come da più parti si afferma – una “uscita a casaccio”. Il cavaliere, con il suo solito stile poco diplomatico, ha voluto accelerare un dibattito (finalizzato a misure concrete) che per l’intero padronato italiano è della massima importanza. Poco importa se poi, a questo “giro”, saranno le ferie o meno ad essere toccate. La cosa fondamentale era porre con forza al centro dell’attenzione la “necessità” di prolungare i tempi di lavoro aumentandone ancor più  decisamente l’intensità e la durata. Di sbattere insomma  ancor più nell’angolo i lavoratori per far fronte alle crescenti difficoltà dell’economia nazionale. “Siamo tutti sulla stessa barca – vien detto – e per evitare che essa affondi è indispensabile che il mondo del lavoro si faccia carico di ulteriori e  maggiori sacrifici”.  

Che il capitalismo italiano stia attraversando una fase di relativo “declino” è sotto gli occhi di tutti e ciò ovviamente suscita molte preoccupazioni tra i lavoratori. Anche settori (come quelli dell’auto, del trasporto aereo o della produzione agro-alimentare)  che fino a pochi anni fa apparivano solidi, stanno subendo seri colpi a ripetizione. La concorrenza contemporanea dei paesi ad alto sviluppo tecnologico (tipo Stati Uniti o Germania) e di quelli cosiddetti “emergenti” (tipo Cina) sta causando non pochi problemi all’industria nostrana.  

Di fronte a ciò la ricetta di Berlusconi è netta: compressione dei salari, aumento del tempo di lavoro, tagli secchi alla spesa sociale e massima precarizzazione dei rapporti lavorativi. In una parola: assoluta e piena sottomissione dell’operaio alle necessità dell’azienda e del capitale. 

E l’Ulivo? E i vertici sindacali? Criticano il programma e l’operato del governo, ma anch’essi affermano che è necessario “darsi tutti da fare per restituire competitività al paese”. Sacrifici si – dicono – ma un po’ meno traumatici e più “contrattati”. In fondo anche per loro “siamo tutti nella stessa barca”.  

Ed è proprio nel nome di questa logica che i governi di centrosinistra negli anni passati hanno preso una serie di misure che (dal pacchetto Treu, alla riforma pensionistica Dini) hanno favorito la diffusione del lavoro precario ed immesso ulteriori elementi di divisioni tra le diverse generazioni di lavoratori istituendo regimi pensionistici differenziati. La destra ha poi raccolto la palla al balzo e – con la legge 30 e le misure sulla previdenza in cantiere – ha dato un deciso colpo d’acceleratore in materia.   

Ed oggi sono milioni (milioni!) i giovani e meno giovani - “a tempo determinato”, “in affitto”, a “progetto”, ecc. -  che vivono una condizione di fortissima precarietà, di assenza quasi totale di diritti (anche la possibilità di godere delle ferie, per restare all’attualità, è spesso un lusso) e che vengono utilizzati come incolpevole arma di ricatto contro chi è ancora “coperto” dai contratti nazionali collettivi. 

L’imprenditore italiano dice al “suo” operaio: “lavora più duramente, stringi la cinghia fino a quasi soffocare, accetta tagli e ristrutturazioni, così darai ossigeno all’azienda e qualcosa ne ricaverai anche tu”. Ma nello stesso momento negli USA, in Germania, in Giappone ed in ogni angolo del mondo tutti i padroni fanno lo stesso ragionamento e impongono le stesse ricette.

Legare le proprie sorti alla competitività del “proprio” capitalismo e delle “proprie” imprese non può che portare ad una disastrosa concorrenza sempre più al ribasso tra lavoratori, tanto a scala nazionale  che internazionale.  Una concorrenza che punta a mettere gli operai europei contro quelli statunitensi, i lavoratori occidentali contro quelli asiatici e che,  per questa via,  mira a distruggere  ovunque “garanzie”, diritti e salari. Una concorrenza che oggi tenta di incatenare i lavoratori del Nord del mondo al carro delle guerre di rapina che i nostri stati portano contro i paesi e le masse sfruttate del Sud del pianeta e che già prepara il terreno affinché in futuro i proletari di tutte le nazioni si scannino tra di loro in difesa ciascuno del “proprio” padrone. 

Al contrario  - ed è questa la cosa più importante che anche la recente lotta dei ferrotranvieri ha detto -  gli interessi dei lavoratori si possono difendere solo mobilitandosi con determinazione intorno alle proprie esigenze e non facendosi ingabbiare dalle necessità di competitività e di profitto delle aziende. 

È necessario che nei luoghi di lavoro si inizi a discutere collettivamente su tutto ciò. Su come per difendere realmente la propria condizione sia indispensabile andare verso la costruzione di un unico e vero fronte di lotta con i lavoratori precari e su quanto sia quindi importante farsi carico delle loro esigenze. Su come sia sempre più urgente porsi ed affrontare il problema di stringere veri rapporti organizzativi con i lavoratori delle altre nazioni, vedendo in essi non dei concorrenti, ma dei preziosi ed insostituibili alleati di classe.

Su come sia insomma sempre più necessario riconquistare una nostra politica ed una nostra organizzazione di classe nettamente contrapposta alle leggi capitalistiche della concorrenza, del profitto e del mercato.

5 aprile 2004

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA

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