OLTRE IL 20 MARZO:
Per licenziare in piazza il governo della guerra esterna contro i popoli e i lavoratori del "Terzo Mondo" e della guerra interna contro i proletari in Italia!
A un anno dall’inizio dell’invasione dell’Iraq torniamo in piazza.
Dopo lunghi mesi che hanno visto nella più gran parte d’Europa la semi-paralisi del movimento no war, i fatti di Madrid hanno riportato la guerra in primo piano. All’improvviso ci è apparsa davanti, vi ci siamo trovati dentro. Le preoccupazioni di ieri si sono tradotte nei fatti dell’oggi.
Contro la guerra di Bush, Blair, Berlusconi, Aznar
La reazione delle piazze spagnole alle bombe di Madrid ha sorpreso gli stati maggiori occidentali. Non gli è riuscito di incanalare i sentimenti di paura e di pietà per le vittime nel rilancio della canea anti-islamica a difesa dell’Occidente. Davanti ad un’azione che ha colpito qui in Europa la nostra gente, la nostra gente (cioè i giovani, i lavoratori, le donne, gli immigrati che già avevano manifestato in piazza contro la guerra) ha indirizzato la propria rabbia contro il governo spagnolo. “La guerra è vostra, i morti sono nostri”: le piazze sono state attraversate da un sussulto di protagonismo che ha indicato nella politica di Aznar in Iraq la responsabilità degli attentati.
Sì, la responsabilità è di Aznar e dei suoi alleati, compreso quello italiano, dei “nostri” eserciti, delle “nostre” imprese. E questo vuol dire che c’è un solo modo per tenere la guerra lontana da “casa nostra”: dobbiamo... allontanarla dalla “casa altrui” dove l’hanno portata i nostri governi (e la nostra debolezza o indifferenza). Dobbiamo allontanarla dall’Iraq, dal mondo arabo-islamico, da tutto il "Terzo Mondo". Dobbiamo fare tutto ciò che sta in noi per favorire la vittoria degli iracheni e la sconfitta dei governi e degli stati aggressori, a cominciare dal “nostro” governo. Altrimenti, non ci sarà verso, la guerra ritornerà qui su di noi come un boomerang, e con assai più forza di quanto non sia avvenuto finora. Dobbiamo imporre, come prima misura, il ritiro immediato e “senza se e senza ma” delle truppe italiane e occidentali dall’Iraq.
Il problema è: come ottenerlo?
L’indignazione delle piazze, in Spagna e altrove, non è sufficiente. I buoni sentimenti sono necessari, ma non sono sufficienti. Perché Zapatero, al pari dei dirigenti del centro-sinistra italiano ed europeo, condiziona il ritiro delle truppe al mancato varo di una politica di interventismo sotto l’egida dell’Onu. Una politica che cambierebbe le cose solo in un aspetto: le potenze capitalistiche europee rimaste al momento “ai margini”, la Francia la Germania e l’Europa di Prodi, rientrerebbero in gioco per partecipare direttamente alla spartizione delle risorse irachene, alla repressione della resistenza irachena e palestinese, e al controllo del Medio Oriente. Non sarebbe l’allontanamento della guerra, sarebbe altra legna sul fuoco dell’aggressione capitalista occidentale al mondo islamico, a cui da sempre l’Europa borghese è antagonista.
Non è sufficiente perché con quell’indignazione e la partecipazione ad essa di tanti giovani e lavoratori in Europa non siamo ancora usciti dall’impotenza che ha segnato la mobilitazione dello scorso anno. Lo ha ricordato proprio a Mumbai l’attivista “no-global” Arundhati Roy: “È stato meraviglioso il 15 febbraio dell’anno scorso che dieci milioni di persone dei cinque continenti abbiano marciato contro la guerra in Iraq. È stato bellissimo, ma non stato sufficiente. Il 15 febbraio era un fine settimana. Nessuno ha dovuto rinunciare ad un giorno di lavoro. Le proteste nei giorni festivi non fermano le guerre. Bush lo sa bene. L’arroganza e la sicurezza con cui ha ignorato l’opinione pubblica deve essere un insegnamento per tutti noi.”
Occorre quindi impegnarsi sul serio per imporre il ritiro incondizionato delle “nostre” truppe. Sapendo che sarà un obiettivo difficile da raggiungere. Che un impegno del genere comporta il rilancio di una vera discussione di massa sulle cause della guerra, su ciò che sta avvenendo in Iraq, sulla reale natura dell’Europa e dell’Onu, sull’indispensabile collegamento con la lotta dei popoli oppressi, sull’organizzazione da darsi per la lotta contro la guerra e, diciamo noi comunisti internazionalisti, contro l’intero sistema capitalistico che, giunto a questa sua crisi storica, non sa generare altro se non caos e guerre.
Partiamo dunque da quello che possiamo fare sin da ora, e facciamolo fino in fondo. Sapendo in anticipo che un movimento no war rinato con questa determinazione non potrà essere quello del 15 febbraio, con dentro i D’Alema, Rutelli, Fassino, Cofferati, Di Pietro, protagonisti e comprimari dello scempio della Jugoslavia. Non potrà più restare indifferente alla resistenza irachena, o addirittura esserne impaurito; dovrà vederla per come essa è, la più grande delle risorse di lotta “per la pace” possibili, il propellente della nostra stessa lotta qui, da accogliere e valorizzare al massimo, da cui imparare, anche per aiutare in essa le masse sfruttate a smarcarsi da direzioni nazionaliste o islamiste incapaci di essere coerenti nella lotta all’imperialismo e timorose di vedere gli sfruttati dell’Islam e quelli dell’Occidente affratellarsi tra loro.
Né potrà, un rilancio del movimento no war, restare esterno ai luoghi di lavoro, ma dovrà fare il massimo sforzo per coinvolgere in pieno la massa profonda dei lavoratori, ciò che finora non è avvenuto. E non è avvenuto perché la gran parte dei lavoratori ancora stenta a vedere il legame che c’è tra l’attacco sul lavoro e nella vita sociale che i padroni, le Parmalat, la borsa, il governo le regalano tutti i giorni e la guerra che questo stesso fronte borghese sta portando al popolo iracheno e agli sfruttati del Terzo Mondo.
Guerra esterna e guerra interna: due facce di una sola politica
Il governo e il fronte padronale che occupano l’Iraq sono gli stessi che attaccano i salari, che precarizzano il lavoro e costringono al sottosalario, che tagliano migliaia di posti di lavoro, che tagliano le spese sociali, che mettono la tagliola al collo dei lavoratori immigrati ricattandoli con il permesso di soggiorno, che “riformano” una scuola per i figli di papà che possono pagare, che attaccano le donne con la precarietà del lavoro, il taglio dei servizi sociali, le leggi come quella sulla procreazione assistita. Per non parlare dell’attacco all'agibilità sindacale e politica dei lavoratori, delle precettazioni, delle rappresaglie per chi lotta, delle inchieste giudiziarie contro ogni forma di opposizione. Come non vedere che questo è già il ritorno della stato di polizia e di guerra che l’Italia sta portando in Iraq? è già il ritorno del pugno di ferro che le truppe occidentali stanno imponendo contro i nuclei sindacali e i gruppi della resistenza iracheni?
Dopo Madrid, facendo leva sulla paura per gli attentati, il governo Berlusconi (insieme all’Europa di Prodi) ha rincarato la dose: ha rilanciato “le politiche di protezione e di sicurezza”, il che significa più controlli, più polizia, militarizzazione più spinta della vita sociale, campagne di repressione contro gli immigrati, mentre l’unica vera protezione nostra sta nella lotta generalizzata per imporre ai “nostri” governi il ritiro immediato dall’Iraq. L’unica vera protezione nostra sta nell’opporci all’aggressione che il governo vuole intensificare contro la Baghdad di “casa nostra”, contro cioè i lavoratori immigrati. Sta nel portare questi contenuti già nella giornata dello sciopero generale contro la politica interna del governo Berlusconi convocato dai sindacati confederali per il 26 marzo. Sta nell’organizzare una lotta di massa per cacciare dalla piazza il governo Berlusconi, senza nulla concedere ad un eventuale governo di centro-sinistra o di concertazione nazionale a cui sembra disponibile la stessa Confindustria. Per esso, varrebbe ancor più fortemente quello che ha detto a Mumbai ancora Arundhaty Roy facendo un bilancio dell’inginocchiamento dei governi di Lula e di Mandela al dio dell’economia di mercato: “Immaginare che il carisma personale e un’intera vita di lotte possa incrinare il modello cartello corporativo, significa non aver capito come funziona il capitalismo o come viene esercitato il potere. Il cambiamento radicale non viene negoziato attraverso i governi, può essere solo imposto dagli uomini”.
Questa via è difficile, certo, ma percorribile. Lo stanno dimostrando gli sfruttati iracheni, la cui lotta ha già incrinato la macchina da guerra occidentale con i tanti episodi di rifiuto a combattere e con la mobilitazione delle famiglie dei militari americani per il ritiro delle truppe. Lo dimostrano sul fronte interno quanti, da Scanzano agli autoferrotranviari, sperimentano che una lotta senza compromessi, condotta in prima persona facendo a meno delle defatiganti mediazioni di “vertici” sempre pronti a smobilitare, può conquistare un ampio seguito di solidarietà e partecipazione e costringere chi ci attacca a indietreggiare.
17 marzo 2004
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