supplemento al n.41 di Che fare,
Inserto teorico
FEDERALISMO E COMUNISMO
- Tutti federalisti, anche allestrema "sinistra".
- Cè un "unitarismo" che, forse, è più bestia del federalismo imperante.
- Falsa antitesi: federalismo o centralismo. Vera antitesi: capitalismo o socialismo.
- Contro il capitalismo (sistema mondiale centralizzato), un unitario esercito centralizzato della rivoluzione.
- Marx mazzola i precursori ("socialisti") dellautonomismo.
- Marxismo contro proudhonismo
- Partito e Stato del proletariato, armi decisive del passaggio rivoluzionario al socialismo
- Quadro nazionale e internazionalismo
- Stalinismo, atto primo: lautonomismo come "tattica rivoluzionaria"
- Stalinismo, atto secondo: lautonomismo come principio. Dal PCI di Togliatti...
- ...al sessantottismo di tutte le salse.
- Il federalismo della attuale "sinistra" è al di sotto di quello bossiano.
- In sintesi
- Lauto-attività delle masse nel socialismo e lesperienza "sovietica"
- Il centralismo borghese (per la conservazione) è burocratico e militare.
Il centralismo proletario (per la rivoluzione) è volontario e cosciente.- Indicazioni di lettura
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Tutti federalisti, anche allestrema "sinistra".
Federalismo è diventato ormai in Italia un termine magico di
cui nessuno pare possa fare a meno. Se, in nome del federalismo spinto, Bossi vuole
arrivare alla secessione, da destra come da sinistra gli arrivano tosto le bacchettate: ma
questo non è il federalismo vero, dieci e lode, il bollino blu del federalismo genuino è
nostro!
Persino Rauti pensa oggi ad una repubblica sociale federale, con Salò e Torpignattara in
grado di esercitare in piena sovranità le proprie autonomie. Neppure Fini osa
contraddire, lui, lerede di un partito che ad ogni stormir di autonomia locale
agitava il tricolore gridando allunità della patria in pericolo. Anche Berlusconi
(nonostante i suoi disegni ideali di riorganizzazione centralistica dello stato -persino
dotati di un certo solido senso borghese-) non osa contraddire lola imperante.
Ma è proprio a sinistra che il federalismo impazza. Bassanini si vanta di essere "il
ministro più federalista" dellattuale governo. I "rossi" toscani non
se ne sentono però soddisfatti: macché quadro unitario, in casa nostra vogliamo fare da
soli, politica estera compresa! La piena autonomia regionale del Friuli-Venezia Giulia non
piace a pidiessini e rifondatori perché costringerebbe "centralisticamente"
entro gli stessi confini realtà diverse ed a vocazione autonoma, Friuli da una parte (o,
meglio, varie fette di Friuli indipendenti e sovrane a sé) e Trieste dallaltra. E
ci sono già dei pidiessini allopera per creare una "cosa due" per
realizzare questo disegno in opposizione alle romane (e quindi ladrone) Botteghe Oscure.
Bassolino e Cacciari contestano: siamo ancora alle regioni, sia pure in formato ridotto?
Non ci sta bene: rivendichiamo la sovranità dei Comuni, rivogliamo la Serenissima e il
trono di Napoli!
Allestremissima sinistra (si fa per dire..., solo laggettivo è calzante, a
designarne la quota di ridicolo e di vergogna) cè la stessa gara per entrare nel
Guinness dei primati del federalismo.
Autonomia Operaia afferma, contro "il centralismo burocratico e statalista, il mito
unitario", espressione del "dominio reale sullintera vita
produttiva", che "il territorio deve acquistare un valore centrale,
strategico" ed invoca "il federalismo degli autogoverni municipali" (da un
documento dei "compagni dellArsenale Sherwood", Padova 28 agosto
96). Cacciarate o caciarate?
Il coordinatore nazionale del Movimento Nonviolento, un tantino più
"centralista", scrive alla Stampa (11 settembre 96):
"Condividiamo i principi di autonomia, indipendenza e libertà rivendicati dalla Lega
Nord" e "confidiamo che la Padania possa costituire davvero esempio e guida per
tutte le etnie italiane, che prima o poi saranno costrette a liberarsi da questo nostro
potere statale centralista e partitocratico". La sola pregiudiziale che egli pone è
quella del ricorso alle "tecniche della nonviolenza capitiniana e gandhiana" in
luogo dei mezzi della violenza e dellintolleranza. Basteranno "la disobbedienza
civile, la noncollaborazione, lo sciopero, lobiezione di coscienza e fiscale,
ecc.". (Gli eccetera verranno poi da sé, bossoli compresi!).
Su Resistenza leggiamo: "L80% di ciò che chiede oggi la Lega Nord è
copiato da ogni programma democratico conseguente", dalla Comune di Parigi ai Soviet
in URSS ed alle Comuni in Cina che "erano strutture di uno stato federale".
Manca il restante 20% che, però, è lessenziale per dei "veri comunisti"
di tale calibro: "Nella società attuale non è possibile costruire uno Stato
federale, dal basso in alto, sulla base del capitalismo". Bisogna, invece, sempre dal
basso in alto, conquistarsi localmente dei poteri non capitalistici, e cioè "il
diritto di amministrare quello che è alla base di tutto: la propria attività
economica", ciò che comporta la "proprietà collettiva dei mezzi di
produzione"... territorio per territorio.
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Cè un "unitarismo" che, forse, è più bestia del federalismo imperante.
Solo pochissimi non ci sentono da questorecchio e, pur
sempre federalisti, ma "unitari" e "solidali", suonano unaltra
campana. Peggiore ancora, se possibile.
Sentite questappello di professori universitari capeggiati dal rifondatore Domenico
Losurdo (Liberazione, 17 settembre 96): contro l"attacco alla
Costituzione" del leghismo, legato "ad alcuni settori retrivi dellItalia
settentrionale" ed "agli interessi dellimperialismo tedesco e del capitale
finanziario internazionale" "facciamo appello alla sinistra... per la
mobilitazione popolare sui seguenti obiettivi: l) la difesa dellunità nazionale,
che... è oggi un obiettivo "di sinistra" (utili le virgolette, n.)...; 2) la
costruzione di un nuovo fronte antifascista, che riunisca tutte le forze democratiche
contrarie al secessionismo (cioè della borghesia non "retriva", antitedesca,
forse un po meno anti-USA, seriamente impegnata per la difesa e lo sviluppo di un
proprio imperialismo, n.); 3) lattivazione immediata della magistratura (nonché
della forza pubblica e dellesercito, se del caso, come precedentemente invocato
sullo stesso giornale, n.)".
Non sappiamo se Losurdo vorrebbe attivare la magistratura ed il resto anche contro i
propri compagni impegnati nel federalismo spinto (vedi in Toscana, dove Rifondazione è,
proprio come partito, federata alla sinistra dellultra-autonomista Chiti), o se egli
consideri questa forma di federalismo iper-jugoslavo compatibile con lunitarismo
statale. In ogni caso il messaggio è chiaro: unitarismo borghese al di sopra di
tutto, spinto sino al riscatto delle bandiere nazional-imperialiste lasciate cadere
nel fango dai settori borghesi "retrivi". Molto resistenziale, non cè che
dire... A quando il nuovo CLN con Bertinotti e Scalfaro, Agnelli e Cipputi, gli Stati
Maggiori della Difesa e i GAP?
Posizioni del genere non saranno certamente in grado di fermare, neppure da un punto di
vista borghese, lattuale secessionismo, che è qualcosa di più e di diverso da
una fantasia di settori "retrivi" di una destra borghese locale, perché trova
le sue ragioni profonde nelle condizioni strutturali del capitalismo italiano e delle sue
rappresentazioni politiche allinterno del quadro capitalistico internazionale,
"globale". In compenso, però, potranno servire da arma contro
lautonomia di classe: sia per quel poco che varranno a spingere settori
proletari a mettersi dietro il carro di una borghesia "unitarista" che la
sinistra stessa dovrebbe promuovere ed inventarsi alluopo; sia per la legittima, a
questo punto, reazione dei soggetti proletari che vorrebbero mantenere in piedi il proprio
antagonismo di classe salvo a smarrirlo poi (nel baillamme generale) nella deriva
autonomistica che sopra sè visto.
Noi labbiamo detto chiaramente: i marxisti sono schierati contemporaneamente
contro il federalismo (in quanto borghese) così come contro lunitarismo (borghese
in pari grado).
Forse che non facciamo distinzione tra le due strade, le giudichiamo indifferenti e prive
di rilievo concreto per il proletariato? Come, putacaso, per lopposizione
fascismo-democrazia che noi settari non avremmo a suo tempo colto?
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Falsa antitesi: federalismo o centralismo.
Vera antitesi: capitalismo o socialismo.
Niente di tutto questo. Il dissidio cinteressa,
eccome!, ma va chiarito ed affrontato alla nostra marxista maniera, che già da
tempo immemorabile ha fatto i conti con luno e laltro campionario delle
bestialità qui esibite. Se avete pazienza ci spieghiamo subito, sia pur per sommissimi
capi.
Quando ci si chiede: "Ma voi siete per il centralismo
statale o per il federalismo?" ci si pone un falso quesito. Il centralismo ed
il suo contrario non sono due antitetici modelli di società tra cui ci sia dato
scegliere, ma due forme di amministrazione della società presente che: 1)
ubbidiscono in ogni caso allobiettivo primario di accentramento di poteri
borghesi contro il proletariato indipendentemente dalla loro efficacia o meno a
promuovere il desiderato (dai sostenitori delluna come dellaltra forma) pieno
sviluppo capitalistico; 2) non è assolutamente detto che, di per sé, al di fuori del
tempo e dello spazio, si contrappongano tra loro rispetto allimperativo di una reale
centralizzazione del capitale: in situazioni date, centralismo e decentramento (ai
più svariati livelli) possono darsi benissimo il cambio, o combinarsi tra loro, per
meglio adempiere a questa loro specifica funzione.
La "scelta" dei comunisti non può essere che tra
due sistemi antagonisti: capitalismo o socialismo. Col corollario conseguente: conservazione
o rivoluzione.
Solo su questa base si potrà poi discutere di quali
debbano o possano essere le forme dellorganizzazione (non:
amministrazione) sociale socialista. In ogni caso, prima di affrontare questo tema occorre
essersi ben ancorati al contenuto di tale organizzazione, che sta nella presa in carico da
parte dellinsieme della società delle potenzialità produttive per il
soddisfacimento e lallargamento razionale, pianificato (sì, non spaventatevi...)
dei bisogni umani di questo stesso inscindibile insieme (non diremo
"egualitarismo", perché questo termine, per luso inverecondo che se
nè fatto, puzza di cristianuccio o democostituzionale, ma comunitarismo umano,
traducendo dal vocabolo marxiano Gemeinwesen); nella realizzazione di una produzione,
quindi, non mercantile, il che comporta conseguenze fondamentali non solo sul versante
della distribuzione, ma sulla stessa composizione qualitativa degli "oggetti
duso" da produrre (con la drastica eliminazione della produzione socialmente
tossica e nociva che attualmente ci appesta).
Lo scrittarello di Resistenza sopra citato potrebbe
arrogarsi il merito di dire quanto meno che il "vero federalismo" socialista è
incompatibile con il presente sistema sociale. Ma il merito si trasforma nel suo
contrario, sia perché lorizzonte socialista viene fatto dipendere da una lotta
"dal basso", localista, di progressive trasformazioni a partire dalle forme e
non dalla sostanza (tratto tipico del riformismo, con un arretramento rispetto allo stesso
riformismo secondinternazionalista, che coglieva, perlomeno, laspetto politico -e
non, o non solo, movimentista- e centralizzato del problema); sia perché, come vedremo,
il termine "federalismo" mal si attaglia a designare modi e contenuti
dellorganizzazione socialista. E, soprattutto, perché non cè una sola parola
ad evocare lorizzonte antagonista della produzione socialista. Sicché in buona
sostanza, socialismo significherebbe produrre le stesse cose del capitalismo,
possibilmente in più, per rendere tutti "egualitaristicamente" in grado (sui
rispettivi territori...) di abboffarsene. Il tutto in linea col folle ideale
superproduttivista dello stalinismo. Insomma: un capitalismo "socializzato". Né
più né meno.
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Contro il capitalismo (sistema mondiale centralizzato), un unitario esercito centralizzato della rivoluzione.
Orbene, se la questione è quella del rovesciamento
rivoluzionario dei contenuti, e cioè dei rapporti sociali attuali, si tratta di vedere
precisamente per quali vie esso possa darsi. Ma per stabilire ciò, occorre avere ben
presente il quadro teorico complessivo che il marxismo ci dà del capitalismo e quindi
della rivoluzione proletaria (per forza di cose delimitiamo qui il campo dei nostri
interlocutori a coloro che abbiano già, in qualche misura, conseguito questo punto di
partenza).
Tutta lopera di Marx si presenta come una spietata
condanna a morte del capitalismo e, insieme, unappassionata apologia del suo
contenuto storicamente rivoluzionario. Rivoluzionario sotto un duplice ed inscindibile
aspetto: in quanto distruzione di vecchi, sorpassati, reazionari ordinamenti sociali e in
quanto realizzazione delle concrete basi materiali del socialismo chiamato ad eseguirne la
condanna a morte.
La socializzazione del lavoro e, con esso, lo sviluppo
oltre ogni limite delle forze produttive, nonché la formazione, a ciò collegata, di una
classe antagonista -il proletariato- estremamente diffusa e concentrata, resta
unacquisizione di partenza per noi. La catena di orrori che ha accompagnato
lespropriazione dei "liberi produttori individuali" e la distruzione,
anche fisica, di vecchie culture (ed intere popolazioni), che Marx descrive a parole di
fuoco nel capitolo del Capitale sullorigine del capitalismo, non ci può provocare
rimpianto verso istituti economico-sociali morti e sepolti e che tali meritavano di
essere, né, peggio, prospettarcene una riedizione riveduta e corretta (post-capitalismo
come... risurrezione del precapitalismo in forme "nuove" e sotto
"nuovi" cieli). Loggetto della rivendicazione socialista, dicevamo, non è
la redistribuzione della proprietà e, con essa, di poteri politici frazionati, ma la
riappropriazione da parte della società dellinsieme della "proprietà"
realizzata dal capitalismo per arrivare allabolizione stessa della proprietà. Ogni
e qualsiasi rivendicazione "territorialistica" del socialismo trasmette non solo
un inganno quanto alle "forme" del socialismo, bensì quanto al contenuto di
esso: lideologia delle "libere comuni associate" territorialmente (ma
forse sarebbe più adeguato luso del maschile: "liberi comuni associati")
è il corrispettivo dellideologia dei "liberi produttori" indipendenti
e... concorrenziali con gli altri produttori di altri territori. Un "far da sé"
ed un "vinca il migliore" regressivi rispetto al capitalismo.
In stretta correlazione, il soggetto della
rivoluzione socialista non è questa o quella frazione di proletariato che possa agire
"autonomamente" su un "territorio" dato (magari per fare la Comune di
Canicattì), ma il proletariato internazionale, perché esso è per definizione classe
internazionale, così comè stato prodotto dal capitalismo. Lun genere di totalità
richiama laltro: se la frammentazione delleconomia capitalistica per stati
e centri di potere (legata allo sviluppo combinato e diseguale del sistema) non impedisce
che ovunque nel mondo agiscano le stesse leggi capitalistiche (non diciamo: "allo
stesso modo"), del pari la frammentazione del proletariato secondo la stessa logica,
e persino allinterno di uno stesso "territorio", allinterno quindi
della "stessa" classe localmente considerata, non impedisce che esso subisca
loppressione di uno stesso e solo sistema unitario. Esso è già unito da
unidentica condizione economico-sociale di fondo e se non lo è immediatamente,
automaticamente, sul piano soggettivo (teoria, programma, organizzazione), proprio qui
sta il compito dei comunisti. "Proletari di tutti i paesi, unitevi!" si
disse nel 1848. Nel 1919 a Mosca si tradusse in pratica questappello con la
formazione di unInternazionale Comunista che aspirava a diventare partito unico
mondiale (a meno che Losurdo non ci smentisca dimostrando che si trattava di una
"federazione" copiata all80%... dalla Lega) e ad istituire, sulle ceneri
degli spezzati apparati di potere della borghesia, la dittatura del proletariato, la repubblica
mondiale dei soviet proletari, nuovo organo di potere della rivoluzione socialista.
Anche qui: sulle forme di funzionamento di un tale partito e di un tale stato si
può discutere, e molto se ne discusse, ma, da marxisti (finché ce ne furono alla sua
testa) in relazione a questo suo proprio contenuto, lontano le mille miglia dallo
scimmiottamento dellaccentramento statalista borghese quanto, e più, dal suo
rovesciamento allindietro localista, autonomista.
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Marx mazzola i precursori ("socialisti") dellautonomismo.
Nel Manifesto, al capitolo sulla "letteratura
socialista", Marx ha in anticipo e definitivamente schiaffeggiato questutopia
reazionaria ricollegandola alle sue materiali basi piccolo-borghesi. Leggiamo.
La borghesia non ha solo rovesciato laristocrazia
feudale, ma anche i borghigiani medievali e il piccolo ceto rustico, e cioè la
"piccola borghesia medievale". Questo processo si è verificato con tempi e
modalità differenti. A metà 800, nei "paesi in cui il commercio e
lindustria sono meno sviluppati, questa classe (la piccola borghesia medievale -n.) vegeta
ancora accanto alla borghesia che sta sviluppandosi". Nei paesi, invece, in cui
la civiltà moderna si è già più ampiamente sviluppata "si è formata una nuova
piccola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre
ricostituendo come parte integrante della società borghese, i cui componenti però,
continuamente ricacciati nel proletariato per effetto della concorrenza, per lo sviluppo
stesso della grande industria, vedono avvicinarsi un momento in cui spariranno
completamente come parte autonoma della società odierna (attenti a questo
"come" della sparizione!, n.)". E si hanno poi paesi, come la Francia di
allora, "dove la classe rurale forma metà della popolazione".
Queste forze sociali costituiscono la base
dell"anticapitalismo" del socialismo-piccolo borghese:
"Era naturale che gli scrittori i quali scendevano in
campo contro la borghesia a favore del proletariato applicassero nella loro critica
del regime borghese la scala del piccolo borghese e del piccolo possidente
contadino, e che pigliassero partito per gli operai dal punto di vista della piccola
borghesia".
(Siamo al 1848 e Marx può ammettere, comè
sacrosanto, che questi "scrittori", tra i quali si cita ad esempio il Sismondi,
si potessero definire schierati a favore del proletariato, socialisti. Non potremo dire lo
stesso di chi, ad un secolo e mezzo di distanza, torni indietro a categorie oramai
definitivamente cancellate dalla storia).
Nella fase prima dello sviluppo capitalistico e della
conseguente formazione del proletariato moderno, il socialismo piccolo-borghese si
conquistò dei meriti quanto alla critica degli effetti del capitalismo (ancora
agli albori), ma non poteva rappresentare la risposta positiva ad esso che la
scienza marxista ha potuto dare:
"Questo socialismo anatomizzò molto acutamente
le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli
eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti
dellintroduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei
capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina
inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato,
lanarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della
ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi
costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità.
"Quanto al suo contenuto positivo, però,
questo socialismo o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e
con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per
forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel
quadro dei vecchi rapporti di proprietà chessi hanno spezzato e che non
potevano non spezzare. In entrambi i casi è, ad un tempo, reazionario ed utopistico".
"Le corporazioni nella manifattura e leconomia
patriarcale nellagricoltura, queste sono le sue ultime parole.
"Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce
in un vile piagnisteo".
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Ma fin dalle sue origini il marxismo ha dovuto ingaggiare una
battaglia a tutto campo anche con unaltra sorta di "socialismo" a questa
apparentata quanto a sostanza di classe piccolo-borghese, ma ancora più pretenziosa nel
suo intento di costituire una soluzione globale delle contraddizioni del capitalismo
"più radicale" di quella comunista, ed a questa anzi alternativa: il
"socialismo libertario ed autogestionario" di Proudhon, padre duna lunga
progenie di riformismi e di riformisti.
La "critica" proudhoniana della società
borghese, che pur è in grado di cogliere il contenuto oppressivo della sopravveniente
dominazione capitalistica, e pur manifesta la volontà di reagire ad essa, rimane tuttavia
totalmente impigliata nelle categorie borghesi. E, peggio, è una critica del capitalismo
svolta con la testa ed il cuore rivolti ad un sistema precapitalistico da
riscattare per la realizzazione del "vero socialismo". Una critica incapace di
cogliere il dato rivoluzionario del capitalismo, che rompe il vecchio isolamento
(relativo) delle singole unità produttive, la precedente stagnazione, e socializza il
lavoro a scala universale, e solo a questa stregua rende realmente possibile il socialismo
(frutto e conseguenza del capitalismo stesso, da cui nasce e di cui
rappresenta la dialettica negazione, oppure socialismo non è).
Alla concentrazione e centralizzazione capitalistica il
proudhonismo vorrebbe rispondere contrapponendovi le libertà ed il
"comunitarismo" del piccolo produttore espropriato e delle comunità locali,
quindi: con un passo indietro rispetto al concreto evolversi storico. Dovrebbe
trattarsi di una "riappropriazione" (sebbene, idealmente, riformata) di quanto
il capitalismo va -utilmente- cancellando, secondo la classica visione anarchica,
corrispettivo ideologico degli interessi materiali del piccolo, "libero"
produttore.
Al centro di essa sta, come del resto nel sottofondo
"filosofico" di ogni specie di autonomismo "anti-centralistico", lindividuo,
il "libero arbitrio" delluomo-individuo. Che nella società
"socialista" immaginata da Proudhon si materializzerebbe nel "libero"
scambio (mercantile) tra lindividuo-venditore e lindividuo-compratore, e tra
le "libere" comunità locali da essi costituite. Un tale scambio avverrebbe
sulla base di un "nuovo" criterio di distribuzione del prodotto sociale,
laddove invece la organizzazione della produzione sociale continuerebbe a darsi
fermissimamente su... anarchiche basi (micro)mercantili. Il "nuovo" criterio
"anti-capitalistico"? Il valore di scambio delle merci -qui la prevista
soluzione degli "inconvenienti" propri del capitalismo- dovrebbe rapportarsi
"veramente" alla quantità di lavoro in esse contenuta, ed il reddito globale
prodotto dovrebbe esser ripartito in modo "veramente equo" tra tutti i
produttori. La protagonista di tanta "rivoluzione economica" (senza alcun
bisogno di rivoluzione sociale e politica, una "rivoluzione" dolce, quindi,
ideale, una rivoluzione senza rivoluzione, insomma: una riforma -utopistica e
antistorica- del capitalismo sulle sue stesse basi) sarebbe l"associazione
reciproca" dei produttori salariati, cioé, alla fin fine, la piccola impresa, se non
proprio una riesumata bottega artigiana, condotta, "auto-gestita", su basi
integralmente mercantili, dagli... operai.
Nella magnifica Miseria della filosofia Marx dà a
queste fantasticherie passatiste tuttoggi riruminate da tanto federalismo "di
sinistra" (e sia pur senza più alcuna velleità neppure verbale di socialismo, iddio
ne scampi!), una delle sue risposte definitive. Che giova richiamare anche nelle premesse
che vanno a colpire, insieme con le tesi politiche, la stessa concezione delluomo e
della società propri del federalismo (e dellanarchismo).
Nel "mondo reale" della società borghese, egli
afferma, non sha modo di imbattersi in nessuno dei personaggi immaginari della
commedia proudhoniana; men che meno in liberi individui agenti per conto di Sua Maestà
Imperiale il Libero Arbitrio (e così pure accadrebbe nel mondo puramente ideale partorito
dallinvoluto cervello piccolo-borghese). Vi si incontrano, bensì, produttori e
consumatori, ma essi sono materialmente "determinati dalla (loro) posizione
sociale, la quale dipende anchessa dallorganizzazione sociale nel suo
complesso". Le relazioni effettivamente esistenti tra gli uomini in carne ed ossa
sono relazioni sociali; non rapporti "tra individuo ed individuo" liberi
di auto-determinarsi da sé stessi, bensì rapporti tra classi antagoniste, tra -se
proprio li si vuol cogliere nella loro fisica immediatezza- operaio e capitalista,
contadino e proprietario terriero, etc. E questi rapporti, che costituiscono il modo di
scambio delle forze produttrici (da cui dipende il modo di scambio dei prodotti), sono non
solo condizionanti i singoli "liberi individui", bensì essi stessi storicamente
determinati dal grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive associate del
lavoro.
Questo grado, dice -nellanno di grazia 1847!-
la teoria che sarebbe in arretrato sui fatti "ultimi" (ed a cui dovrebbero esser
versati, se il mercato fosse "veramente" equo, "veramente"
proudhoniano, tutti i diritti dautore intascati dagli Ohmae, dai Reich e dagli altri
"scopritori" della mondializzazione del capitalismo, mentre invece siam qui,
come nonno Karl, a combattere con la lira), è quello di una divisione del lavoro
imperniata su una "grande industria distaccata ormai dal suolo nazionale, (che) dipende
unicamente dal mercato mondiale, dagli scambi internazionali, da una divisione del
lavoro internazionale". Già, perché lo sviluppo capitalistico porta con sé la
"riunione", la concentrazione delle condizioni oggettivate del lavoro
prima frammentate, il "monopolio moderno" di esse, che manda allaria per
sempre la possibilità che savveri il sogno (o lincubo?) di un ritorno alla
piccola produzione artigiano-contadina del Medioevo con tutti gli annessi e connessi.
Se davvero si vuole "il progresso senza
lanarchia" capitalistica, è necessario, afferma Marx, "abbandonare gli
scambi individuali" e la produzione mercantile. Affrontare e battere il capitalismo
centralizzato. Risolvere per via rivoluzionaria (una rivoluzione vera, "il
combattimento o la morte"!) la contraddizione antagonistica tra la concentrazione e
laccentramento borghese e laccentramento delle forze di classe del
proletariato, prodotto dallo stesso capitalismo -e che di esso costituisce
lantitesi-, nella sintesi del socialismo. Andando non al di qua, ma al di
là del capitalismo.
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Partito e Stato del proletariato, armi decisive del passaggio rivoluzionario al socialismo
Ma questo passaggio esige come conditio sine qua non la
costituzione del proletariato in classe, in partito. E dunque, laddove Proudhon scartava
come mezzo dazione del salariato perfino le coalizioni operaie immediate (anche in
questo lo seguono, e lo oltrepassano, i federalisti "di sinistra" di oggi,
cantori delle specificità dei "territori" da "liberare"
interclassisticamente tutti insieme, sfruttati e sfruttatori, da oppressori malvagi che
sono sempre ad essi esterni), Marx oppone la necessità dellazione della
"classe per sé stessa", della "lotta di classe contro classe",
della "lotta politica" violenta, della spaccatura in profondità del
"territorio" sociale capitalistico, della "organizzazione degli
elementi rivoluzionari" della classe oppressa, della guida del partito di classe per
la rivoluzione proletaria. Che è "rivoluzione totale", è questa
la espressione di Marx, in quanto è finalizzata, a differenza della
"rivoluzione" proudhoniana, ad un "cambiamento di tutti i rapporti
sociali", ad una società senza antagonismi di classe (lespropriazione
degli espropriatori non può avere altro significato), e perciò stesso -nel suo sviluppo
ulteriore- non più bisognosa di "un potere politico propriamente detto". Ed è
soltanto in questo nuovo contesto di organizzazione sociale liberato dalle catene degli
"scambi individuali" e della legge del valore, che potrà realizzarsi una
"libertà di ciascuno e di tutti" diversa dalla borghese "libertà"
(leggi: coazione) di gareggiare in affari, fregarsi e scannarsi lun con laltro
(e lun "territorio" con laltro).
Vi è qui già tutta intera, in materia di programma, di
economia, filosofia, storia e politica, la replica comunista, di ieri e di sempre, al
federalismo, allautonomismo, allindividualismo "libertario". E per
intenderlo ancor più a fondo è lettura indispensabile il testo di Bordiga, I
fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta
proletaria internazionale.
In esso si mette in massima evidenza, nella polemica tra
marxismo e proudhonismo, in stretta congiunzione con quella della "essenza" del
capitalismo e del comunismo come modi di produzione sociali, la questione del potere.
E infatti non secondario aspetto della concezione di Proudhon e di quante ad essa si
rifanno il prospettare, come dicevamo, una "rivoluzione economica"
"egualitaria" senza la necessità di passare attraverso una rivoluzione
politica anti-capitalista, un "movimento sociale" senza un corrispondente
"movimento politico".
Spiega Bordiga: Proudhon rifugge dal considerare
insostituibili per "abolire la proprietà privata" il Partito politico e lo
Stato dittatoriale di classe proprio "in quanto la sua posizione della
trasformazione sociale è monca, non contiene il superamento integrale dei rapporti
capitalisti di produzione, è concorrentista, è localmente cooperativa, resta bloccata
alla visione borghese della azienda e del mercato. Egli gridò che la proprietà è un
furto (ciò da cui ben si guardano il 99,9% degli autogestionari contemporanei -n.), ma il
suo sistema, restando un sistema mercantile, resta un sistema proprietario e borghese. La
sua miopìa sulla rivoluzione economica è la stessa dei moderni aziendisti,
che ripetono in forma meno vigorosa la vecchia utopia di Owen che voleva liberare gli
operai dando loro la gestione della fabbrica in piena società borghese. Si chiamino
questi signori ordinovisti allitaliana o barbaristi alla francese (il
riferimento è allOrdine Nuovo di Gramsci e alla formazione "neo-marxista"
transalpina "Socialisme ou Barbarie" -n.), uno stampo proudhoniano li accompagna
nella remota origine, e come a Stalin si potrebbe loro lanciare linvettiva: O
miseria degli arricchitori (del marxismo -n.)".
Lo stampo marxista, invece, una volta inchiodato saldamente
il "tema" della natura non mercantile della organizzazione socialista della
società, prevede come essenziale -per il trapasso dal capitalismo ad essa-
lintervento del Partito e dello Stato del proletariato rivoluzionario.
Ed impone la lotta più vigile non solo contro ogni forma di mercantilismo mascherato ed
ogni fantasia di riappropriazione parcellizzata dei mezzi di produzione socializzati dal
capitalismo, ma anche contro qualsiasi ipotesi e pratica che annacqui il ruolo del
partito come "primo organo della rivoluzione". E dunque lo smantellamento
delle sempre ritornanti bagolate pan-sindacaliste, aziendaliste, consiliariste, laburiste,
comunaliste, e così via.
La lotta per la distruzione del capitalismo non può esser
fatta da truppe proletarie o, peggio ancora, genericamente "popolari", federate
sulla base di interessi immediati, locali, di settore, dimpresa, di nazione; esige
la organizzazione unitaria internazionale della classe, senza di cui è destinata in
partenza a mancare lobiettivo. Al "centro dittatoriale del capitale"
può rispondere efficacemente solo un "centro dittatoriale del proletariato"
(e si comprenda che la diversa qualifica di classe del potere implica
"qualcosina" di diverso anche sulle forme della dittatura).
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Quadro nazionale e internazionalismo
Non si può certo dire, dunque, che la discussione sul
federalismo, le autonomie locali, etc., sia estranea alla storia del movimento operaio.
Soltanto, essa si è presentata, nella sua invariante sostanza, con modalità
specifiche corrispondenti ai differenti stadi di sviluppo del capitalismo (e del
proletariato).
Nella fase costitutiva del proletariato, questo non poteva
che combattere -assieme alla borghesia rivoluzionaria- per la trasformazione
rivoluzionaria dei vecchi rapporti sociali precapitalistici, e ciò non poteva, di regola,
avvenire che dandosi unossatura centralizzata alla scala della propria
nazione, del proprio stato.
Il proletariato combatte dapprima entro i rispettivi
quadri nazionali. Lo stalinismo ha contrabbandato questo "dapprima" come lessenza
stessa della battaglia socialista, sino a fare del proletariato una "classe
nazionale" per ledificazione di singoli "socialismi" in
singoli paesi o, in mancanza di ciò, da Togliatti in giù, per singole "democrazie
progressive" dichiaratamente nazional-borghesi "popolari".
Non ricopieremo tutto il Manifesto per
dimostrare come questa neo-teoria mal scopiazzata dallagenda borghese si
contrapponga da cima a fondo allimpostazione di Marx. Ci basterà richiamare, dopo
quanto già si è ricordato, la prefazione di Engels alledizione tedesca del 1890
del Manifesto stesso: "Oggi... il proletariato europeo e americano passa in
rassegna le sue forze, per la prima volta mobilitate come un solo esercito, sotto una
sola bandiera e per un solo scopo immediato... (mostrando) chiaramente ai
capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi che oggi i proletari di tutti i
paesi si sono di fatto uniti".
La lotta proletaria comincia sul terreno dei singoli
paesi a misura che su questo terreno il capitalismo si crea la propria iniziale
ossatura. Ma come "il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti
spinge la borghesia per tutto il globo terrestre" e "dappertutto essa
deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni" sì che essa
ha, nel tempo, "reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi" e
"con gran dispiacere dei reazionari ha tolto allindustria la base
nazionale", allo stesso modo il proletariato, prodotto della rivoluzione borghese,
dappertutto si ficca, si stabilisce, stringe relazioni perdendo la sua base nazionale, con
gran dispiacere degli... stalinisti e riformisti in genere.
Se in tutto il mondo lantagonismo
borghesia-proletariato chiama questultimo alla lotta, la risposta non può essere
quella del "fai da te", perché tu, proletario jugoslavo, iracheno, negro
americano, italiano etc., non ti scontri lì con un nemico localizzato, ma con un sistema
mondiale di oppressione. Chi rilutta a questa, che è una conseguenza del processo di
sviluppo del capitalismo, non può che cadere nella pratica che ci è quotidianamente
sotto gli occhi: quattro parole di solidarietà generica con gli oppressi di casa altrui
(sempre che si riesca nellimpresa di intravvedere un tale soggetto!), protesta
indolore, semmai, per lintromissione dei paesi borghesi che "non
centrano" con quella casa per permettere il costituzionale rispetto delle
regole del gioco colà (a cominciare dal "nostro" -altamente responsabile!- non
centrarci). E più: siccome dal quadro mondiale comunque non si scappa, ecco che
-labbiam visto in particolare per la questione jugoslava- si finisce per sostenere
(come la corda limpiccato...) gli "autonomi" diritti ed interessi degli...
stati richiamandosi allintervento, mezzo "umanitario" e tre quarti
militare, dellONU o del nostro stesso stato per ristabilire laggiù le regole di
"convivenza" e di "pacifica competizione". Tutto, fuorché lintervento
nostro, di classe.
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Stalinismo, atto primo: lautonomismo come "tattica rivoluzionaria"
Lo stalinismo degli esordi non osava ancora gettare al macero
la parola dordine dellinternazionalismo, ma la concreta strada intrapresa
sulla via della "costruzione del socialismo in un solo paese", lURSS, e
della rivoluzione socialista negli altri paesi per vie altrettanto nazionali, comportava
già in nuce tutti i passaggi ulteriori. La deviazione si mostrava, allimmediato,
sul piano delle tattiche; il rovesciamento di principio sarebbe venuto, del tutto
coerentemente, in appresso.
Accadde così in Italia che la neodirezione centrista
gramsciana del PCdI cominciò a scorgere come possibilità di una rivoluzione
"italiana", in cui tuttora si credeva come "tassello" del socialismo
mondiale, il corteggiamento dei vari movimenti autonomistici in campo, a cominciare da
quello sardo. Il ragionamento era questo: per scuotere il potere centrale di classe
fascista può essere utile smuovere lanticentralismo delle istanze
nazional-democratiche (borghesi, quindi) dei sardi, dei siculi, dei sud-tirolesi etc.
Occorre costituire con queste istanze un "blocco progressista" quale presupposto
della successiva spallata rivoluzionaria.
(Notiamo qui, a memoria del prof. Losurdo, che Gramsci non
nutriva perlomeno alcuna viscerale affezione per lo stato unitario, che sognava di disfare
per poi ricostruire, magari, in veste socialista)
Senonché, questa brillante "tattica" non teneva
in alcun conto lesigenza della vera tattica marxista di essere coerente ai propri
presupposti e linfluenza di rimando che ogni tattica esercita su chi la promuove. Il
"blocco" con gli autonomisti significava di per sé lassunzione da parte
del partito di esigenze anticentraliste espressione di strati sociali antiproletari e
con petizioni, quandanche spinte al massimo di radicalismo populista, utopiste e
reazionarie (sempre se stiamo al Manifesto). Di più, la dichiarata
disponibilità del PCdI degenerato a sostenere le rivendicazioni di queste forze trovava
un muro invalicabile di riluttanza nella loro avvertita coscienza dellalterità del
programma comunista (e dellesercito di classe comunista) rispetto ai propri
orizzonti. Autonomismo antimussoliniano sì, per intenderci, ma -per tutte le tendenze
autonomiste- prima e soprattutto anticomunismo da cima a fondo. Il contenzioso con
il fascismo riguardava le forme di una determinata amministrazione del sistema, in
nome della "specificità" nazionale, territoriale, di detta amministrazione, nel
nome di un "proprio" capitalismo "autocentrato". Nei confronti del
comunismo lopposizione riguardava esattamente i contenuti di sistema. Perciò
non se ne fece niente, con tantamarezza per i super-tattici. Ovvero: si fece sì che
la manovra "tattica", anziché conquistare forze esterne alla causa della
rivoluzione comunista, la penetrasse ed infettasse dal di dentro.
Nel 45, il Togliatti della "democrazia
progressiva" rovesciava limpostazione di Gramsci -tirando le estreme
conseguenze dello snaturamento del partito da lui iniziato-. La escludeva sul piano
"tattico" in quanto promotore di un rovesciamento di principii.
Al V Congresso del PCI, primo del dopoguerra (1945),
Palmiro disse: ogni rivendicazione autonomista è da escludere in quanto mira
oggettivamente ad indebolire il grado di compattezza e di forza dello stato nazionale
borghese, che il proletariato, dal canto suo, si deve ben guardare
dallintaccare, ma a cui deve aderire come "responsabile classe nazionale"
concorrente alla sua gestione. In principio era lo stato (borghese), ed alla fine
ad esso si deve ritornare.
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Stalinismo, atto secondo: lautonomismo come principio. Dal PCI di Togliatti...
Più tardi, con laffermarsi del neo-centralismo DC, il
PCI muta di nuovo rotta: lo stato in mano ai reazionari soffoca le autonomie locali. Via
quindi con la riscoperta di queste ultime. Ma, si badi bene!, non per ritornare alla
vecchia tattica gramsciana di attacco rivoluzionario al sistema, bensì per promuovere un
progetto di massima efficienza capitalistica, borghese del sistema-Italia sulla
base del "decentramento". Si scopre che il centralismo "deprime" le
autonome capacità produttive regionali che si vorrebbero capitalisticamente esaltare
(sempre in nome di una più grande Italia) e questo come garanzia degli interessi
"anche" dei proletari. Non contento di aver sottratto il proletariato italiano
allidea "cosmopolita" (termine usato come sinonimo della peggior
aberrazione!) dellinternazionalismo, il PCI lo vuole ora ben
"compartimentato", rigorosamente alla coda delle locali borghesie produttive con
cui stringere un bel patto... di sottomissione.
Di recente, sullUnità, è scappata fuori una
grossa verità: se la Lega non ha (ancora) messo radici nel triangolo rosso
emiliano-tosco-umbro, è perché lì il PCI prima, il PDS poi (con Rifondazione al carro)
ha messo in piedi un massimo di federalismo di fatto in grado di promuovere uno sviluppo
acconcio del capitalismo "locale" nel quadro, ed a favore, del capitalismo
nazionale come insieme, in una combinazione di decentramento ed accentramento. Solo
che, oggi, questo modello classicamente togliattiano di "alleanza" tra
proletari, ceto medio e borghesia produttiva è rimesso in causa dalle crepe dello stesso
sistema italiano globale. Lalleanza interclassista e il rapporto
"contrattuale" regioni-Stato viene anche qui al dunque nel terremoto che investe
lintiera struttura produttiva, sociale e politica dello Stato. Che fare allora? Le
forze dirigenti locali, in quanto rispondenti alle esigenze della rete locale di interessi
borghesi che si è andata tessendo, sembrano correre verso una ulteriore
"leghizzazione" in proprio. Classe dirigente nazionale sì, ma... del triangolo,
in concorrenza con la Lega sul suo stesso terreno. Da partito "nazionale" del
proletariato si è finiti, come si doveva, a partito locale della borghesia. Amen.
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...al sessantottismo di tutte le salse.
Il radicalismo piccolo-borghese sessantottino riprenderà a
modo suo questi temi. Qualche sparuta frangia "maoista" rispolvererà la tattica
gramsciana dellalleanza con lautonomismo in funzione anticapitalista (sino a
sostenere, ad esempio, il secessionismo bombarolo sud-tirolese come "arma di attacco
allo stato"). Altre forze, maggioritarie nel "movimento", cominceranno a
riprendere lidea dellautonomismo quale modello di costruzione di un
microsocialismo in proprio, sulla linea dei Sismondi, dei Proudhon e dei Bakunin,
diffondendo lidea, più che mai utopistica e reazionaria (e da vile piagnisteo), che
le piccole comunità locali possano liberarsi di per sé in quanto tali (senza andar
troppo per il sottile sui connotati sociali e di potere interni ad esse) dal giogo
alienante del capitalismo ritornando indietro da esso e che tutto ciò
costituirebbe una garanzia di potenziale "socialismo"... precapitalistico.
Il tutto presupponendo che la "piovra centralista" se ne stia nel frattempo a
guardare.
Sergio Salvi ha aperto, come teorico, la pista con i suoi Le
lingue tagliate e Le nazioni proibite (pur ricchi di dati anche per noi
preziosi e di denunce incontrovertibili quanto agli effetti di sradicamento ed
annichilimento prodotti dal capitalismo sulle culture e le nazioni da esso assorbite o
dominate), col solito difetto di scambiare come causa dei guasti capitalistici una sua forma
"centralistica", cui sardi, friulani e quantaltri (in quanto
"popoli" classisticamente indistinti) potrebbero sottrarsi riformisticamente per
riproporre il capitalismo stesso sotto altre forme.
DP raccolse sul Quotidiano dei lavoratori la prima
sistemazione "teorica" del proprio ramo friulano "federato" sul
"colonialismo italiano" con una conseguente rivendicazione già indipendentista
da costruire assieme alla peggior feccia sociale, quella raccoltasi attorno al Movimento
Friuli e dominata da notabili e preti locali. (Questa specie di "compagni"
hanno coerentemente conclusa la loro parabola tra i Verdi iper-autonomisti e sono oggi
vicini alla Lega, casomai con la rivendicazione antibossista di una "piccola
patria" friulana o sub-friulana indipendente anche dalla Padania).
In Sicilia un ramo di DP accese le micce del
neo-secessionismo isolano, proponendo sul suo organo Terra e liberazione una
riedizione di "sinistra" del vecchio Movimento Indipendentista Siciliano. A
quanto ci risulta, costoro sono attualmente federati a Socialismo Rivoluzionario,
lorganizzazione nota per la difesa ad oltranza (da parte della NATO) del regime di
Izetbegovic in nome dell"autodeterminazione (a stelle e striscie) dei
popoli".
E si potrebbe continuare per un bel po.
Torniamo a dirlo, a scanso di equivoci: molte delle
denunzie relative agli effetti della dominazione capitalistica con centro a Roma,
del carattere estremamente prevaricatore dellunificazione formale del paese da essa
compiuta, delle distorsioni inerenti ad uno "sviluppo combinato e diseguale"
giunto in Italia al parossismo della diseguaglianza interna, sono perfettamente fondate.
Il guaio è che a ciò si reagisce non individuandone la causa reale, cioè il capitalismo
in quanto sistema mondiale (a cui la stessa "astrazione nazionale" Italia
appartiene in subordine), ma, al solito, le corrigende forme, insiste nel sistema. E, quel
che più importa, non si vede nel proletariato unito -al di là delle linee
territoriali e delle specifiche sue condizioni in cui lo si vuole dividere- il soggetto
dellunica risposta possibile, il socialismo, ma, conformemente alla base
ideale di riferimento sociale e politico, si individua il soggetto del
"cambiamento" nellindistinto popolo, borghesi e proletari insieme, quasi
fossimo tornati alla fase risorgimentale del capitalismo.
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Il federalismo della attuale "sinistra" è al di sotto di quello bossiano.
Bossi sopravanza di cento e una spanna questi terribili "rivoluzionari", dal momento che posiziona il problema del secessionismo padano sul terreno reale della "globalizzazione mondiale", affidandone senza remore la guida alla borghesia locale con la proposta al locale proletariato di mettersi alla coda di essa, chiuso in corporazione del capitale, con la promessa di una (dubitabile) partecipazione agli utili.
Ma più in generale tutto il federalismo "di sinistra" è una sciocchezza
immonda rispetto a quello leghista. Agitando la parola dordine della secessione
padana, Bossi sa benissimo, almeno, che non si tratta di immaginarsi un "piccolo è
bello" al di fuori del mercato mondiale e delle sue leggi, ma di centralizzare
delle forze economiche padane (giocando sui risultati positivi dello sviluppo combinato e
diseguale interno e tentando di scaricarne altrove i costi) per agganciarsi al
treno europeo, cioè alle sue maggiori locomotive. "La Padania serve per entrare sul
serio in Europa", "per affrontare le sfide della globalizzazione", egli
dice. O ancora: "meglio una Padania indipendente e al traino della Germania e soci,
che unItalia condannata alla terzomondializzazione. Il quadro è
-capitalisticamente- chiaro e preciso, al punto che lo stesso Bossi non si nasconde il
pericolo, insito nelle leggi di movimento del capitale, di unesposizione della
futura Padania alla "colonizzazione" addirittura da parte dei maggiori partner,
e non manca di rodomontare contro una tale minaccia. Casomai, è proprio Bossi a mettere
in guardia contro lo stupido localismo, diffuso nel Nord-Est, che basa tutti i suoi
calcoli sul fatturato immediato del territorio o dellazienda x. E, infatti, questo o
quel padroncino, questo o quel politico, e buona parte della "sinistra" (inclusi
gli avanzi dellAutonomia) gli imputano proprio un eccesso di... centralismo. Non
sarà meglio che ognuno si tenga e gestisca le proprie gallinelle dalle uova doro,
vuoi che siano le aziende tessili "che tirano", o la città turistica da
ingrassare ulteriormente, o -perché no?- finanche i micro-ghetti in cui si compravendono
merci "alternative"?
In un mondo in cui con un semplice input al computer
si smuovono tonnellate di miliardi, ci si appropria in un sol colpo delle ricchezze
prodotte da milioni di individui e si riducono alla fame masse sterminate di sfruttati; in
un mondo in cui alle armi del capitale concentrato rispondono immediatamente le flotte
navali di guerra e le rampe lancia-missili; in un mondo del genere è pura follia pensare
che la soluzione agli "squilibri del sistema" (mai messo in causa) si possa
rimediare barricandosi in casa propria, e in una casetta sempre più piccola, come i tre
porcellini a rischio di lupo cattivo. Il lupo è già in casa vostra, compari!
Non è pensabile che non lo sappiano certi soloni
delleconomia e della politica. Ma: primo, chi nella borghesia spinge per il
federalismo ha già messo in conto di affittarsi come succursale di servizio
di altre potenze (che non saranno, per non dispiacere ai Losurdo e a Bertinotti, i
terribili tedeschi, ma, magari!, gli innocui States; questo è successo chiaramente in
Jugoslavia, per esempio). Secondo: se non si può sfuggire allinsfuggibile, cioè
alla morsa della "mondializzazione", si può però ben tentare di sfuggire al
pericolo dellantagonismo "mondializzato" del proletariato, frammentandolo
in una rete (solo apparentemente) locale di interessi borghesi, a cui vincolarlo come
"cointeressato". Lazienda tal dei tali, e lintera azienda-Stato, si
sa benissimo come dipenda dal gioco degli interessi (non solo economicamente, ma
politicamente e militarmente) concentrati a scala internazionale; limportante è che
il proletariato "locale" non si senta dipendente dai suoi specifici interessi di
classe concentrandosi alla stessa, ed opposta, scala.
(Bossi, tentando di promuovere un "sindacalismo
padano", mira essenzialmente a questo, buon scolaro del corporativismo fascista, -il
cui contenuto riverniciato si è totalmente trasmesso, potenziato, nel
post-fascismo. Ma non diversa strada imboccano, sostanzialmente, le "sinistre",
che, di fatto, lavorano a condizionare, anche legislativamente, le "fortune"
operaie alle sorti della regione, del "territorio", dei "propri"
settori od aziende. Con una spruzzata di "solidarismo" che non guasta mai, del
tipo di quella che si è vista al convegno della FAO a Roma...)
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Riassumiamo, per avviarci a concludere:
1) Lunificazione statale capitalista è il
corrispettivo della diffusione dei rapporti economico-sociali del modo di produzione
capitalistico che assorbe, assoggetta, comprime spazi sempre più vasti al dominio delle
proprie leggi ed, oggi, lo stesso stato nazionale non rappresenta che un tassello di un
sistema sociale di produzione mondializzato, globale.
2) Ogni tipo di unificazione statale capitalista comporta
aspetti combinati e diseguali tali da suscitare la reazione dei settori sfavoriti, ma una
risposta a ciò è possibile solo aggredendo i nodi di classe del sistema su un terreno
di classe.
3) Lautonomismo spinto, se del caso, sino al
secessionismo non è giammai un dato classisticamente "neutrale": di esso
possono farsi alfieri settori di microborghesia nazionale decisi a ricollocarsi
diversamente nel quadro comunque globale del sistema da cui si sa che non ci può
sottrarre volgendo la barca allindietro, quindi come pedine del sistema
capitalistico internazionale, con un grado ulteriore di accentramento e divaricazione
antagonista "in proprio"; non possono in nessun caso farsene fautori i
comunisti, per i quali la sola risposta alla mondializzazione del capitale consiste nel
rovesciarle contro linternazionalismo proletario.
4) Il problema del superamento delle diseguaglianze, della
privazione o compressione dei diritti "nazionali" (cultura, lingue...) può
essere impostato solo dal socialismo in quanto sistema sociale non graduato sulle leggi
della produzione mercantile, del profitto, della concorrenza spietata e dei knut di
ogni genere.
A questo punto, e solo a questo punto, potremo parlare dei
modi in cui si realizzerà la società socialista.
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Lauto-attività delle masse nel socialismo e lesperienza "sovietica"
Si è detto più volte: il socialismo presuppone un inventario
ed un piano dellinsieme delle risorse disponibili in mano alla società
collettiva una.
Significa questo che tutto si farà dal centro o
dallalto? La domanda-protesta presuppone un rimando polemico a quella che è stata
la "pianificazione" sovietica. Non vedete come lì, in conseguenza di ciò,
tutto è andato a catafascio?
La nostra risposta è scritta da decenni: in URSS non si
poteva pianificare (e non si è pianificato) socialismo, ma unicamente centralizzare e
promuovere rapporti mercantili di produzione, un immenso industrialismo che,
nelle condizioni date, doveva forzatamente prendere laspetto del centralismo
statalista più spinto. Ma il capitalismo -nostra tesi centrale- è per sua natura impianificabile.
Di qui la crescente contraddizione tra centri di produzione, aziende separate (private,
nella giusta accezione marxista) tra di loro e tra esse e lo Stato. Un massimo di
statalismo conviveva con un massimo di spinte settoriali, su base locale,
fortemente "federalistica", e le alimentava costantemente.
Lo sbocco storico è stato quel che doveva essere: messa in
piedi di un potente industrialismo "sovietico", ma, alla fine del percorso,
implosione delle vecchie ed oramai inadeguate forme centralistiche per lavvio di una
nuova, gigantesca ristrutturazione e ricentralizzazione borghese effettiva a più
alto livello (senza, logicamente, regredire al "prima" -come accennano degli
stolidi che blaterano di unattuale "feudalizzazione" dellex-URSS e
senza, ancor più logicamente, che dalle istanze autonomiste dei singoli territoriali
potesse sbocciare alcun tipo di neo-socialismo).
Lesempio della Russia "sovietica" mal si
addice, perciò, al socialismo. E cosa che riguarda voi borghesi dallinizio
alla fine. Dagli esordi (borghesemente rivoluzionari) dello stalinismo classico al
"caos" attuale che gli eredi di Baffone, scopertisi borghesi a pieno titolo,
devono gestire entro il sistema di rapporti capitalistici mondiali.
Torniamo allora a bomba. E nel socialismo? Sarà lì
inibita lautoattività dei singoli territori, delle "singole"
masse? Noi diciamo che, al contrario, questa autoattività, una volta svincolata dalle
leggi del mercato, raggiungerà i suoi massimi, a misura che la comunità umana
sentirà di poter lavorare per i propri umani bisogni come un tutto. Quando
si dice centralizzazione delle forze del proletariato è questo che sintende: un centralismo
-certo- che è però, per le sue finalità, la sua sostanza sociale e poi
anche nelle sue forme, tuttaltra cosa dal centralismo borghese.
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Il centralismo borghese (per la conservazione) è
burocratico e militare.
Il centralismo proletario (per la rivoluzione) è
volontario e cosciente.
La natura del centralismo proletario è connessa e dipendente
dalla natura del compito storico che al proletariato compete come classe rivoluzionaria,
alla natura -appunto- del socialismo.
Ora: base dellorganizzazione socialista è linventario
delle risorse tecniche ed umane disponibili ed un piano per il loro utilizzo a
scala universale. Ciò implica di per sé centralizzazione, ma di segno contrario
rispetto a quella capitalistica. La centralizzazione capitalistica significa, infatti,
dominio universale ed incontrastato delle leggi del capitale, con tutte le conseguenze del
suo procedere anarchico, incontrollato, delle sue enormi e crescenti disparità tra classi
e stati privilegiati e classi e stati sottomessi. Per questo esso abbisogna di un
centralismo, come dirà Lenin sulla scia di Marx ed Engels, burocratico e militare,
di una crescente coercizione organizzata sulla stragrande maggioranza della società -una
coercizione burocratica e militare che nei mini-stati sorti dai recenti processi
federalisti di "auto-determinazione", vedi Jugoslavia, lungi dallessersi
attenuata, è divenuta invece parossistica-.
La centralizzazione socialista significa, al contrario, la
pianificazione e la realizzazione di uno sviluppo armonico alla scala del globo, casa
unica della comunità umana: nulla di quanto il lavoro socializzato ha prodotto in questo
o quel luogo del pianeta sotto il dominio del capitale (con gli inevitabili squilibri)
può considerarsi "proprietà" di esso in concorrenza ed opposizione ad altri
luoghi, ad altre genti. La sua acquisizione, la sua redistribuzione, la sua ricostruzione
allargata non può essere che un "affare comune", o, per usare un linguaggio
più aderente ad una società in cui non ci saranno più i "liberi compratori"
ed i "liberi venditori" del mercantilismo, un compito comune, da svolgere
nellinteresse comune della società intiera. Ma, appunto per questo, occorre un
piano centrale.
E banale inferire da ciò che venga soppressa
liniziativa per così dire "locale", come sostengono tutti i detrattori
della pianificazione socialista. Ciò che viene abolita è soltanto liniziativa privata,
concorrenziale tipica dei rapporti sociali capitalistici, il fatto che la
produzione di qualcuno possa farsi e svilupparsi a detrimento di altri, come è inscritto
nelle tavole del mercato e del profitto. E che, sul piano politico, il potere della
società sia confiscato da una ristretta parte (privata, appunto) della società che lo
organizza anti-socialmente per impedire o castrare le possibilità di iniziativa
sia centrale che locale, e massimamente quelle di intervento sulla scena internazionale,
del proletariato.
Il proletariato rivoluzionario, invece, "pratica"
nel suo organizzarsi, fin da prima della presa del potere, un tipo di centralismo che,
come detto, corrisponde alle sue proprie finalità, ai suoi interessi, e che non ha nulla
a che vedere né con il centralismo borghese, né con il federalismo
borghese. I tratti di questo centralismo sono fissati in modo limpido da Lenin, oltre che
nel Che fare per quel che riguarda il partito, nel III capitolo di Stato e
rivoluzione per quel che riguarda il potere statale, proprio là dove egli
respinge come mostruosa (chissà se la notizia è -dopo 79 anni- giunta nella
redazione di Resistenza) la pretesa di Bernstein di cogliere una
"straordinaria affinità" tra il federalismo di Proudhon e quello di Marx.
"Nelle considerazioni di Marx già citate
sullesperienza della Comune non cè la minima traccia di federalismo
(s.n.). Marx è daccordo con Proudhon proprio su un punto che
lopportunista Bernstein non vede; Marx dissente da Proudhon proprio là dove
Bernstein vede la concordanza.
"Marx è daccordo con Proudhon in quanto
entrambi sono per la demolizione dellattuale macchina statale (...).
"Marx dissente sia da Proudhon che da Bakunin appunto
a proposito del federalismo (per non parlare poi della dittatura del proletariato). In
linea di principio, il federalismo deriva dalle vedute piccolo-borghesi
dellanarchismo. Marx è centralista (s.n.). E in tutti i passi citati non si
troverà la minima rinuncia al centralismo. Soltanto gente imbevuta di una volgare
fede superstiziosa nello stato può scambiare la distruzione della macchina
borghese con la distruzione del centralismo! (Proprio in quanto questa gente è incapace
anche solo di pensare di poter distruggere realmente la vecchia macchina dello stato
borghese, e -tanto più- è indisponibile a muoversi per questo scopo. Da cui la nostra
tesi: fasullissimo è l"anti-statalismo" dei federalisti. Esso è capace
solo di moltiplicare, con lo spezzettamento, i parassitari apparati statali
borghesi esistenti, e -attraverso lo spezzettamento dei meno solidi tra essi- di far
gonfiare ancora a dismisura la potenza centralizzatrice oppressiva dei massimi
super-stati, di cui è inconsapevole, e magari anche riottoso ma non per questo meno
effettivo, strumento. Federalismo=non contrazione, bensì diffusione del parassitario
statalismo borghese -n.)
"Ma -continua Lenin per chiarire la natura e funzione
del centralismo marxista- se il proletariato e i contadini poveri si impadroniscono
del potere statale, si organizzano in piena libertà nelle comuni e coordinano
lazione di tutte le comuni per colpire il capitale, spezzare la resistenza dei
capitalisti, trasmettere a tutta la nazione, a tutta la società la
proprietà privata delle ferrovie, delle officine, della terra, etc., non è questo forse
centralismo? Non è forse il centralismo democratico più conseguente e, con ciò, un
centralismo proletario?
"Bernstein (ovvero: ogni soggetto la cui mente è
ottenebrata dallideologia borghese, ogni federalista, ad es. -n.) è semplicemente
incapace di concepire la possibilità di un centralismo volontario, di ununione
volontaria delle comuni in nazione (e tanto più delle comuni "nazionali", delle
dittature del proletariato sorte inizialmente in singole nazioni in quellunica
Comune rivoluzionaria mondiale che è nel programma dazione del comunismo
internazionalista -n.), di una volontaria fusione delle comuni proletarie
nellopera di distruzione del dominio borghese e della macchina statale borghese.
Bernstein, come ogni filisteo, si rappresenta il centralismo come un qualcosa che, venendo
unicamente dallalto (da un "alto" che è esterno, estraneo, antagonista,
ai bisogni della comunità sociale -n.), non può essere imposto e mantenuto se non dalla
burocrazia e dal militarismo.". Tale invece non è il centralismo proletario, già
entrato in azione nellesperienza della Comune (e poi nellOttobre), che è un
centralismo cosciente, volontario, teso ad impulsare e inquadrare -per potenziarla- la
massima attivizzazione delle masse lavoratrici (è questo il senso di classe
dellaffermazione leniniana: il centralismo proletario è il più conseguentemente
democratico). Un centralismo lontano le mille miglia dal centralismo borghese chè
per sua essenza "militare e burocratico", in quanto è organicamente volto ad
impedire la partecipazione delle masse allesercizio del potere e -se e quando ne
impulsa ed inquadra la attivizzazione- lo fa per scagliarle contro se stesse.
Potrà mai capire la possibilità e le immense
potenzialità di una simile auto-attivazione del proletariato per sé stesso, per la
specie umana, e di un simile centralismo "volontario e cosciente", il bestione
borghese, od imborghesito nella "propria" capoccia, per cui non può muoversi
foglia -nella storia- se non per mano di sovrani, stati, papi o altri personaggi
"carismatici", mai comunque per opera della "massa bruta" che lavora?
o per cui non è il caso di muovere foglia se non è assicurato che qualcosa ce ne viene
in tasca? Ma per la comunità umana cè tutto da fare per arricchire il
"salvadanaio" della società collettiva, e la "massa bruta" che lavora
-proprio essa!- sarà la protagonista di questa svolta epocale da lungo tempo attesa.
Utopia? Che non lo sia già lo dimostra la storia
ultracentenaria del partito di classe in cui i militanti si centralizzano, e cioè:
si uniscono liberamente (qui ci vuole!), vivono e lottano come collettività umana,
infischiandosene del "proprio" tornaconto immediato, del libro mastro delle
"proprie" entrate e uscite e, in quanto a questo, reale anticipazione della
società futura. Il domani socialista è quello del "partito
dellumanità".
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Ci pare di avere già fornito implicitamente, nel testo di
questo Inserto, dei suggerimenti per quanti vogliano (avvertano come necessario)
approfondire sulle fonti marxiste il rapporto (polemico) che corre tra il federalismo
borghese e piccolo-borghese da un lato, il comunismo rivoluzionario dallaltro.
Anzitutto il Manifesto del Partito Comunista,
"piccolo" inesauribile scrigno del tesoro dottrinale marxista, la cui migliore
edizione italiana è quella curata da E. Cantimori Mezzomonti per Einaudi (ora disponibile
in edizione economica nella collana Oscar Mondadori).
Quindi, sempre di Marx, Miseria della filosofia,
pubblicata e ripubblicata (mai troppe volte) da Editori Riuniti, con lintroduzione
del 1884 di Engels e una importante appendice contenente, tra laltro, la lettera ad
Annenkov del 1846 e il Discorso sulla questione del libero scambio.
Fondamentali "commentarii" a questi testi, ma ben
più che tali in senso letterale, sono gli scritti di A. Bordiga, I fondamenti del
comunismo rivoluzionario, Ed. Il Programma comunista (che si può richiedere alla
casella postale dellomonimo giornale, n. 962, 20101 Milano) ed inoltre i Testi
sul comunismo, La Vecchia Talpa, Napoli, una raccolta che è assai più difficile
reperire, ma che ci è possibile far avere in fotocopia a chi ne faccia richiesta.
Infine, non certo per ultimo, Stato e rivoluzione di
Lenin ("La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella
rivoluzione", secondo lindicazione del suo sotto-titolo originale), contenuto
nel vol. XXV delle Opere complete o in edizione a sé, nel quale sono indicate anche le
altre opere sul tema di Marx ed Engels da cui non si può prescindere.
Per quel che riguarda, invece, la battaglia anti-localista,
anti-municipalista della tendenza marxista che diede vita al PCdI già nel periodo
antecedente al 1921, si cominci col vedere la Storia della sinistra comunista, vol.
I, pp. 29 ss., 64 ss., 214 ss., 218 ss. Ma su questa battaglia e sui suoi sviluppi
successivi nel primo e nel secondo dopoguerra avremo modo di tornare estesamente in un
lavoro sul federalismo in preparazione.
Si tratta, naturalmente, di indicazioni date -più che ai
singoli lettori, ed anche nel loro caso- per il lavoro collettivo (e non ci
riferiamo con ciò solo alla nostra organizzazione). Può ben darsi, lo sappiamo, che a
non pochi "singoli" compagni alcuni, almeno, di questi scritti possano risultare
impervii. Ma ad un lavoro di squadra ben organizzato nulla è -in assoluto- inaccessibile.