Verso la fabbrica

 

 integrata

 

Le radici più profonde dell’esperienza di Melfi affondano nella crisi generale in cui il sistema capitalistico si dibatte ormai da una trentina d’anni. Questa fase, che si vuole comunemente innescata dalla crisi petrolifera del 1973, si presenta, sinteticamente, come una “classica” crisi da sovrapproduzione. Inflazione e disoccupazione si elevano a problemi strutturali mentre rallenta sensibilmente il tasso di crescita dell’insieme dei paesi capitalistici industrializzati. Ma l’elemento principale, primo responsabile delle future trasformazioni del sistema produttivo, è la caduta del saggio di profitto. La contraddizione tra le crescenti potenzialità produttive e la relativa capacità di consumo delle classi lavoratrici (e dialetticamente la relazione tra la componente fissa e la componente variabile del capitale industriale), non possono che provocare un calo, più o meno rapido, della vendita dei beni e, di conseguenza, una crisi nella realizzazione del plusvalore. Il fordismo, nella sua accezione classica, cresciuto a dismisura fino agli anni ’60,

 

“entra in contraddizione con lo sviluppo materiale che ha prodotto, negando selettivamente alle persone l’appropriarsi delle potenzialità date dal mondo materiale che si va dispiegando. Ciò che è materialmente possibile è socialmente negato”[48].

 

Questi elementi costrinsero le élites capitalistiche a ripensare a fondo il modello di sviluppo impiegato fino ad allora. Si è così assistito, dagli anni ’70 in poi, al varo di un vasto e complesso groviglio di politiche neo-liberali e neo-coloniali, ed al tentativo di adattare il sistema produttivo alle nuove condizioni dell’economia mondiale. I primi passi intrapresi dalle aziende in difesa dei propri tassi di profitto sono stati il decentramento produttivo e l’automazione. Anche la Fiat, stretta tra il disperato tentativo di frenare la caduta del saggio di profitto, la necessità di decongestionare gli stabilimenti di Mirafiori e Rivalta, come anche l’intero triangolo industriale Torino-Milano-Genova, l’aggravarsi della conflittualità in tutti i settori della società oltre che, in forma massiccia, nelle fabbriche, si vide costretta ad imboccare la strada del decentramento meridionale e della corsa all’automazione[49]. È però bene sottolineare il ruolo fondamentale che ebbero le lotte operaie nella decisione di abbandonare il sistema di produzione fordista. Proprio mentre nell’azienda andavano aumentando le potenzialità produttive, le agitazioni del 1968 giunsero a causare, nel solo stabilimento di Mirafiori, 19 milioni di ore di sciopero,

 

“con una produzione mancata valutabile in 277.000 autoveicoli e 7.800 trattori. [..] Negli anni successivi la perdita di ore di lavoro per sciopero si mantenne molto elevata. Nel 1970 oltre 4 milioni, nel 1971 oltre 3 milioni, nel 1972 oltre 4,5 milioni”[50].

 

Gli scioperi “a scacchiera” e a “gatto selvaggio” dimostrano, in particolare, la volontà operaia di minare il ciclo produttivo minimizzando, al contempo, gli effetti delle reazioni padronali. Parallelamente agli scioperi si svilupparono altri fenomeni legati alla conflittualità, quali l’assenteismo, il luddismo, la disaffezione al lavoro in generale. La consapevolezza di come la crisi della fabbrica non fosse altro che uno specchio della crisi della società comportò spesso una saldatura tra i diversi movimenti di protesta. Gli anni ’60 e ’70 videro infatti convergere la rivolta delle fabbriche con quella studentesca, il movimento contro la guerra del Vietnam con quello femminista, le lotte anticoloniali con quelle contro il razzismo. Questi fenomeni erano il risultato della stessa divisione in classi della società e degli stessi rapporti capitalistici di produzione. Per contro anche la reazione padronale (e quindi statale) fu complessa e puntò a smantellare la figura dell’operaio-massa in tutti i suoi aspetti ed a rimettere in discussione l’intero modello taylorista. Nell’ambito produttivo rimase comunque la vecchia fabbrica fordista a provocare i “peggiori mal di testa” alla classe dirigente, come ebbe modo di dire Gianni Agnelli. Ecco cosa scriveva un opinionista a metà degli anni ’70:

 

“… la rivolta delle fabbriche […] ha insegnato alla direzione della FIAT una verità elementare: i grossi impianti come Mirafiori sono ormai ingovernabili [e quindi] prende piede la riforma del sistema FIAT. Si fanno cioè gli impianti al Sud, ma si fanno in un certo modo. Non si crea cioè una Mirafiori del Sud, ma tanti piccoli stabilimenti. Non solo: tutti questi impianti hanno in comune una cosa, e cioè sono indipendenti l’uno dall’altro”[51].

 

La necessità di smembrare la vecchia fabbrica fordista e di evitare le sue dialettiche conseguenze sociali, portarono la Fiat, come ogni altro marchio concorrente, ad esternalizzare particolari settori del processo produttivo (costruzione di particolari meccanici, minuteria, ecc..) e ad elasticizzare ed automatizzare la produzione rimanente. Nel 1980 la Fiat aveva dislocato nel Meridione già oltre 20 stabilimenti per un’occupazione di 41 mila addetti[52]. Parallelamente al decentramento produttivo si andò sviluppando nei vertici aziendali una cieca fiducia nella “meccanizzazione spinta”. Lo scopo ultimo rimaneva comunque la destrutturazione dell’organizzazione dell’operaio-massa. L’automazione infatti non si è sviluppata contemporaneamente su tutto il processo produttivo ma si è concentrata soprattutto, in sostituzione del lavoro vivo, nei reparti dove maggiormente era concentrata la conflittualità operaia, con uno schema definito a “macchia di leopardo”. Tra il 1974 e il 1975 vennero robotizzati a Mirafiori i reparti di lastroferratura e di verniciatura, nel 1976 si introdusse il digitron, un sistema automatico destinato ad operazioni di montaggio ed estremamente versatile. Nel 1978 si introduceva a Rivalta il Robogate, che, all’epoca, rappresentava il sistema più avanzato al mondo per la saldatura della scocca. Con l’introduzione del Robogate si ottenne la “desertificazione” di buona parte della lastroferratura. In questo reparto si ricercò

 

“…la realizzazione di un sistema ad automazione pressoché totale. Le parti della scocca erano trasportate da un carrello filoguidato (robocarrier) pilotato da un computer e attraversavano le stazioni (gate) per l’imbastitura e il completamento della saldatura[53].

 

Grazie a questo sistema il 99% dei punti di saldatura avviene ormai senza nessun intervento manuale, come risulta chiaramente dalla fig. 2. È sempre del 1978 l’introduzione del lam (Lavorazione Asincrona Motori) alla meccanica 3 di Mirafiori. Questi sistemi, oltre che nutrire le speranze di Corso Marconi di trovare una soluzione “tecnologica” ai problemi di gestione del personale, permettevano di fluidificare ulteriormente il ciclo produttivo.

 

“L’introduzione di linee di produzione flessibili ma parallele (robogate e lam) dava la possibilità di realizzare la produzione eliminando le linee rigide in sequenza lineare che si erano dimostrate molto esposte alla conflittualità operaia. Il parallelismo produttivo permetteva, infatti, in caso di blocco di alcune stazioni, di effettuare la produzione sulle altre”[54].

 

 

 

 

 

Fig. 2 – Grado di automazione nella saldatura scocche Fiat.   Fonte: Fiat

 

Il punto più avanzato di questa tendenza definita in seguito da uno stesso ingegnere Fiat, come una “libidine tecnologica”[55], fu la costruzione della Fabbrica ad Alta Automazione (FAA) a  Cassino,  per il montaggio,  e a Termoli,  per la produzione del motore “Fire”. Gli impianti ad alta densità tecnologica dimostrarono però ben presto i propri limiti strutturali[56]. Nelle FAA si susseguirono, infatti, un numero elevato di guasti meccanici ed un’impennata della difettosità dei prodotti, dovuti alla complessità ed alla rigidità del processo produttivo. La crescita del numero di componenti e la continua diversificazione dei modelli mise in crisi perfino il sistema informatico di approvvigionamento. La nuova tecnologia, pur avendo ridotto fortemente l’occupazione e fluidificato il capitale fisso, si era dimostrata incapace di rivitalizzare la fabbrica taylorista-fordista dalla propria crisi. Questa esperienza si rivelò comunque fondamentale per la realizzazione di quella che sarebbe stata chiamata Fabbrica integrata. Secondo Cesare Annibaldi, manager del Gruppo Fiat,

 

“…ci si è potuti avvalere dell’esperienza sviluppatasi con l’organizzazione del lavoro indotta dall’automazione, comprendendo come molti aspetti di essa potessero venire applicati anche a condizioni tecnologiche non paragonabili all’automazione integrale di cui si era parlato”[57]