Reazione operaia,

 resistenza ed

auto-attivazione

 

L’emersione di una conflittualità diffusa ha smentito platealmente la quasi totalità della letteratura esistente sull’esperienza di Melfi e sul suo modello. Talvolta gli autori sono stati perfino costretti a rivisitare o ricalibrare le proprie posizioni. Altre volte hanno semplicemente taciuto la crescente attivizzazione dei lavoratori. Ma la cristallina immagine della fabbrica antropocentrica si è comunque infranta inesorabilmente contro la reazione operaia alle massacranti condizioni di lavoro. Una reazione che si è svelata inizialmente, ed inevitabilmente, “elementare”, soggettiva, a tratti luddistica. Le inchieste più serie condotte sulla realtà lavorativa hanno infatti svelato un diffuso utilizzo di piccole astuzie nel tentativo di lenire i disagi ed i bisogni più immediati del lavoratore. Si tratta, brevemente, di quelle stesse “astuzie vietate” che Bonazzi reputava definitivamente sradicate dalla nuova partecipazione operaia. Così le descrive, non senza una punta d’orgoglio, l’ex conduttore di processi integrati Esposto Donato:

 

“Ultimamente alcuni operai generici mi hanno raccontato le astuzie che adottano per autoridursi il lavoro. Mi hanno confidato che molte delle fermate della linea erano stimolate da loro con dei bulloni, nelle catene, o mandando fuori ciclo l’impianto. Mi hanno detto che quando si devono riposare, si prendono il riposo. Io poi impazzivo a trovare il guasto, ma sono contento di sapere che c’erano delle persone in grado di reagire con mezzi anche non ufficiali. […] E poi c’è stato il trucchetto della password. La genialità del proletariato entra nell’era dell’informatica! A un certo punto tutti i generici la sanno questa password, se la passano di bocca in bocca, entrano sui computer del loro pezzo di linea e riducono la velocità della catena. Ogni giorno così, con il capo che imposta la velocità secondo le direttive degli ingegneri e con gli operai che subito dopo la abbassano”[113].

 

Parallelamente a queste forme di vero e proprio sabotaggio tecnico, coesistono innumerevoli altre modalità di fuga dall’ossessione temporale della linea. Riuscire a ritagliarsi il tempo per una sigaretta, rifiutarsi di prestare lavoro straordinario durante le giornate di riposo, ignorare le condizioni qualitative del prodotto, ottenere un permesso per malattia sono tutte azioni vissute come momenti di difesa e di rivalsa nei confronti dell’azienda. Gli autori della corrente foucaultiana hanno pensato di leggere in questa “resistenza immediata”,

 

“l’altro polo della relazione di potere, il motore stesso del suo funzionamento e, al tempo stesso, la fonte della sua trasformazione come condizione ineluttabile per la riproduzione del dominio”[114].

 

La reazione dei lavoratori sarebbe pertanto non semplicemente dialettica, ma riflessiva, complementare e riproduttiva rispetto ai sistemi di controllo, alla “tecnologia di potere”. Questa corrente, oscurando in qualche modo la centralità del lavoro rispetto alla categoria foucaultiana del potere come struttura, finisce così col relegare la resistenza operaia ad una mera “insubordinazione” soggettiva alle relazioni di dominio. Tale resistenza sarebbe pertanto “irriducibile”, “preliminare e permanente”, ma anche irrimediabilmente subordinata, incapace di oltrepassare la sua dimensione individuale. Destinata inconsciamente ad una funzione ri-produttiva dei meccanismi del potere. Questa ispirazione “iper-soggettiva” comporta una sottovalutazione, se non una negazione, della resistenza collettiva organizzata ed invoca allo sviluppo di una “nuova teoria della resistenza”[115]. A detta di Sewell, infatti,

 

“per cogliere la complessità delle relazioni di potere della fabbrica snella è necessario superare il punto di vista tradizionale [ovvero dell’operaio collettivo]. Una concezione della resistenza di tipo newtoniano è incompatibile con l’idea foucaultiana di potere capillare. Per concezione newtoniana intendo quella secondo cui per interpretare la resistenza bastava identificare un gruppo di persone con un set di interessi comuni e omogenei che si scontrava – contrapponendo una forza uguale e contraria – con un gruppo con un differente set di interessi comuni e omogenei. Mi sembra evidente che una tale concezione della resistenza sia incompatibile con la complessità del potere operante sotto il modello lean. Si tratta pertanto di elaborare nuove basi teoriche che superino le limitazioni del punto di vista ortodosso sul potere, sul controllo e sul dominio”[116].

 

Contrariamente però a tali previsioni le lavoratrici ed i lavoratori di Melfi hanno intrapreso, fin dalla metà degli anni ’90, un lungo percorso di attivizzazione e di coscientizzazione. Un percorso che li ha portati a riconoscersi sempre più come “giovane classe operaia”, verso una progressiva unione della realtà melfese con quelle di Termoli, Termini Imerese, Pratola Serra, dei rispettivi indotti e delle unità terziarizzate. Un percorso che li ha portati a superare le trappole del localismo-federalismo meridionalista, proponendo anzi la “rivitalizzazione del Coordinamento nazionale del gruppo Fiat”[117]. I motivi principali delle mobilitazioni sono naturalmente le condizioni di lavoro, la mobilità interna, il comportamento antisindacale dell’azienda, la nocività e la velocità della linea di produzione. È del marzo 1998, ad esempio, un primo sciopero indetto dalla Fiom tra i lavoratori della Ute 15 sul cattivo funzionamento del meccanismo preposto al sostegno delle porte prima e durante il montaggio delle stesse (le «bilancelle»). Questa prima esperienza ha immediatamente  alimentato una seconda astensione, il giorno successivo e nella stessa Ute. Alle origini dell’agitazione ci fu questa volta il cattivo funzionamento degli aspiratori con una conseguente diffusione dei fumi della regolazione motori. Nel dicembre dello stesso anno furono invece due le Ute a fermarsi per problemi relativi ai carichi di lavoro. In questa occasione un comunicato della Fiom denunciò come:

 

“il moltiplicarsi degli invalidi o ‘limitati’ costringa i lavoratori ‘ancora sani’ a non ruotare su tutte le posizioni come si prefigurava con il modello di fabbrica integrata. Il fallimento di questo si ripercuote sui lavoratori ancora ‘sani’ costringendoli ad eseguire le postazioni più pesanti con le successive gravi conseguenze di salute”[118].

 

Il documento sottolineava anche la riduzione del personale dagli iniziali 6.500 a circa 6.200 addetti, rispetto “all’impegno ed al finanziamento ricevuto per 7.000 posti di lavoro”[119]. La consapevolezza dei legami tra l’intensità del lavoro, le mancate assunzioni e le dimensioni del problema occupazionale in basilicata, è anche alla base della sottoscrizione operaia del marzo 1998. Operata “clandestinamente” per paura di rappresaglie aziendali, questa sottoscrizione si appellava alla presidenza del Consiglio per ottener una riduzione degli orari e la modifica dei turni[120]. Nonostante l’evidente ingenuità e la propensione “garantista” di una tale iniziativa, è bene però registrare la crescente consapevolezza della necessità di scavalcare i meccanismi del nuovo modello partecipativo. Nel corso di questi anni è infatti cresciuto un diffuso risentimento verso le politiche concertative delle dirigenze sindacali. A queste ultime si rimprovera innanzitutto l’accettazione dei tre accordi fondativi dell’esperienza di Melfi. In breve:

Ø      Accordo del 18 dicembre 1990. Prevede la nascita degli stabilimenti SATA di Melfi e FMA di Pratola Serra e delinea già alcuni elementi sulla struttura dei turni e degli orari.

Ø      Accordo dell’11 giugno 1993. Si tratta del principale atto fondativo di Melfi. Vi si stabilisce infatti l’organizzazione dello stabilimento, il sistema di turnazione, il lavoro notturno anche per le donne, l’introduzione del Tmc/2, il sistema retributivo, il quadro delle relazioni sindacali e delle conseguenti commissioni paritetiche. Anche in questo caso, inoltre, l’accordo è stato firmato precedentemente all’assunzione dei lavoratori e, pertanto, senza alcuna loro consultazione.

Ø      Accordo del 31 gennaio 1996. Vi si perfeziona il meccanismo delle commissioni paritetiche oltre alla ridefinizione di alcuni dettagli riguardanti il premio di competitività e le pause di alcune Ute.

Proprio tramite questi accordi la Fiat ha potuto strutturare il modello Melfi. Il sindacato non ha peccato, pertanto, solamente di fiducia e “possibilismo” nei confronti della fabbrica integrata ma ne è stato un dichiarato sostenitore e costruttore. Dietro i continui richiami alla necessità di creare sviluppo ed occupazione, si è permessa una flessibilità sempre più selvaggia, un vistoso e generale peggioramento delle condizioni di lavoro, una inesorabile ritirata sul fronte dei diritti della classe lavoratrice. Mentre sulle pagine di “Meta”, il mensile dei metalmeccanici della Fiom-Cgil si sottolineava come

 

“l’accordo siglato l’11 giugno [1993] non vada visto come una porta aperta verso una deregolamentazione del lavoro nell’industria dell’auto, ma, al contrario, come un’intesa dotata di uno spiccato carattere innovativo”[121],

 

il segretario Sergio Cofferati dichiarava candidamente:

 

“la Cgil è disponibile a trovare soluzioni già sperimentate con profitto a Gioia Tauro e Melfi. Misure di flessibilità legate a formazione e produttività”[122].

 

È questo il clima sindacale in cui le rappresentanze di base sono costrette ad operare. Con l’eccezione delle mobilitazioni nazionali, come ad esempio gli scioperi per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, le confederazioni sindacali si rivelano restie ad appoggiare le rivendicazioni che montano dalla base del sindacato. Nei primi mesi del 1999 il mancato rinnovo del contratto di formazione lavoro a decine di giovani operai provoca il ritorno delle agitazioni[123]. Con esse si vuol denunciare soprattutto l’allontanamento di quei lavoratori impegnati nel sindacato. È il caso, ad esempio, dello sciopero di 30 minuti indetto a gennaio dalla Fiom per il licenziamento “di fatto” dell’attivista Antonio Scalone. Ed è sempre contro l’attività antisindacale che si promuove un’altra astensione di mezz’ora nel febbraio 1999. Pochi mesi più tardi, tra i malumori legati al rinnovo del contratto nazionale del lavoro, la cosiddetta ala dura della Fiom di Melfi indice uno sciopero di otto ore sulla mobilità interna. Il trasferimento ingiustificato da un reparto all’altro di centinaia di lavoratori, ed in particolare dei più sindacalizzati, viene infatti contestato da alcuni rappresentanti di base che ne denunciano la natura discriminatora ed antisindacale. In questa occasione la segreteria provinciale della Fiom-Cgil prende apertamente le distanza dall’iniziativa mentre le altre organizzazioni sindacali non perdono l’occasione di sottolinearne la scarsa adesione tra gli operai ad una campagna “demagogica” ed “irresponsabile”. Si delinea così una frattura destinata ad aggravarsi tra la dirigenza della Fiom (regionale e nazionale) e i delegati di base. Il gruppo aderente ad “Alternativa Sindacale”, componente riconosciuta della Cgil, si distingue in particolare per lucidità d’analisi e combattività. La nascita di questa corrente in seno alla Fiom-Cgil di Melfi provoca inizialmente un certo disorientamento tra i lavoratori e rende talvolta rovente i toni del dibattito interno all’organizzazione dei metalmeccanici. Il delegato Innocenti, nell’estate dello stesso anno, dichiara alla stampa:

 

“Durante gli scioperi il sindacato non ha mai difeso i lavoratori. E mentre l’azienda faceva pressioni sugli scioperanti trasferendoli in altre unità, violando palesemente l’art. 13 dello statuto di lavoratori, la Fiom, come del resto gli altri sindacati, non ha mosso un dito. L’impressione è che il sindacato si sia appiattito sulla posizione della Fiat”[124].

 

In un altro documento i delegati aderenti ad Alternativa Sindacale rimproverano al sindacato una funzione meramente burocratica,

 

“separata ed in contraddizione con gli interessi dei lavoratori. È stato proprio lo stesso sindacato ad aver scardinato il suo potere cedendo man mano i propri strumenti. È chiaro che le contrattazioni territoriali ed aziendali così impostate comportano necessariamente un allentamento dei vincoli contrattuali e di conseguenza la perdita del potere contrattuale del sindacato e questo è già avvenuto con la flessibilità, con i contratti d’area e con il lavoro interinale insieme alle mille forme di precarizzazione del lavoro introdotte consensualmente negli ultimi anni, quale frutto della politica concertativa. Dopo aver ceduto quasi tutti gli spazi di contrattazione e di conseguenza aver perso in termini di rappresentanza, il sindacato diventa, man mano sempre più ininfluente, ma neanche questo lo induce ad un cambiamento di linea. La residua importanza del ruolo del sindacato deriva quasi unicamente dal rigore e dalla coerenza praticata negli ultimi anni rispetto agli impegni concertativi assunti con il padronato”[125].

 

 Gli scioperi comunque continuano, nel dicembre 1999 contro i carichi di lavoro e gli aumenti di velocità della linea, nell’estate del 2000 nuovamente contro le “spalmature”. Il quotidiano “l’Unità” dichiara: “alla Fiat-Sata di Melfi la partecipazione ha ceduto il posto al conflitto”[126]. Questi scioperi  spontanei, strettamente legati alle condizioni del lavoro, hanno infatti avuto il merito di decretare definitivamente la morte dell’illusione concertativa. Indetti dalla sola Fiom ed apertamente osteggiati dalla Fim (che rimane la sigla più forte a Melfi), Uilm, Ugl e Fismic, gli scioperi di Ute non hanno mai raggiunto grandi dimensioni. Come sottolineano Bubbico e Laguardia, indipendentemente dall’esito e dalla partecipazione più immediata di questi scioperi,

 

“non bisogna [però] dimenticare che per molti dei delegati e per la stragrande maggioranza dei lavoratori queste sono le prime vere esperienze di conflitto nel mondo del lavoro. Vi è dunque un deficit di esperienza, in questo caso, che va tenuto nella giusta considerazione anche quando gli scioperi non risultano pienamente soddisfacenti in termini di preparazione e consenso”[127].

 

Il loro merito principale rimane quindi l’aver dimostrato inequivocabilmente il fallimento del modello di relazioni che aveva contraddistinto lo stabilimento di Melfi.

Un nuovo ciclo di lotte sembra aprirsi invece nell’autunno del 2000. Queste nuove agitazioni, non più indette e limitate dalle singole Ute, hanno un respiro più ampio, spesso nazionale, e comportano una sempre maggiore consapevolezza di classe nei lavoratori melfesi. Il 15 di novembre lo stesso sciopero accomuna infatti la Fma di Pratola Serra, le fabbriche del gruppo Fiat in Irpinia (Iveco e Marelli) e la Sata di Melfi. La produzione viene bloccata contemporaneamente per otto ore contro il licenziamento di due delegati sindacali dello stabilimento di Pratola Serra[128]. Il clima di “condizionamento ed intimidazione” è tangibile anche grazie alla presenza delle forze di polizia e della Digos mentre viene definitivamente scoperta la questione dei rapporti tra gli stabilimenti meridionali e quelli settentrionali. A tal proposito, il segretario della Fiom avellinese, Andrea Amendola, lamenta apertamente come:

 

“oggi più che mai abbiamo bisogno dell’aiuto dei lavoratori del Nord. Torino non ha fatto un’ora di sciopero di solidarietà, a differenza di altre città”[129].

 

Dopo pochi giorni e per la prima volta dopo i 35 giorni del 1980, la Fiat si ferma in tutti i suoi stabilimenti. Da Torino alla Sicilia i metalmeccanici della maggiore industria italiana incrociano le braccia per la conquista del contratto e per il ritiro dei licenziamenti concordati con la General Motors. In prima fila, in tutta Italia, ci sono gli operai più giovani, spesso appena assunti con contratti a termine o in formazione-lavoro. Il lento emergere di questa nuova classe operaia, apparentemente restia alla sindacalizzazione ma sempre più strangolata da precarizzazione e ricatti occupazionali, rappresenta sicuramente l’elemento di maggior rilievo di questi ultimi anni. Anche nello stabilimento lucano si registra la crescente attivizzazione dei giovani precari. Teoricamente non sarebbero dovuti nemmeno esistere all’interno della fabbrica integrata ma nella realtà la loro presenza è stata, ed è, considerevole sia nella Sata che in tutto l’indotto. Il licenziamento di circa 300 di questi giovani, avvenuto nel marzo del 2001, ha spinto allora i colleghi precari a rifiutare ogni ricatto. Hanno capito che “tacere non sarebbe servito a salvarli dal licenziamento”. E così hanno scioperato, per la prima volta, a fianco dei colleghi “garantiti”. A detta di Cillis, ne è risultato uno sciopero riuscito, con un’astensione reale del 25%, ben più degli iscritti della Fiom, ovvero dell’unico sindacato impegnato nell’organizzare tale agitazione[130]. Come i 300 di marzo, tra la Sata e l’indotto, ve ne sarebbero altre migliaia a rischio, in balia delle fluttuazioni del mercato dell’automobile e dei disegni di ridimensionamento della produzione. Quando non è possibile allontanare i lavoratori con la mancata riconferma dei contratti si ricorre direttamente alla cassa integrazione. Infatti,

 

“nel corso del 2002 [migliaia di lavoratori dello stabilimento di Melfi] sono stati interessati per tre volte alla cassa integrazione ordinaria [...]. Nel 2001 la Sata era ricorsa soltanto due volte alla cassa integrazione ordinaria, la prima volta per sole 898 unità (a causa di disfunzione sugli impianti) e per una settimana a ottobre (per tutti gli operai e una parte degli impianti). […] Nel complesso tra Sata, aziende terziarizzate, aziende dell’indotto e di servizio, le ore di cig ordinaria sono passate, dal 2001 al 2002, da 326mila a 433mila, con un incremento del 28% delle ore per gli operai, cui ha corrisposto un aumento del numero di lavoratori coinvolti pari al 36% e delle settimane interessate da 80 a 177”[131].

   

Tutto questo senza ridurre i volumi produttivi!

Il 2002 termina per Melfi con l’esperienza dell’”assedio” da parte dei colleghi giunti da Termini Imerese, ma anche da Termoli, Pomigliano, Bologna e Modena Si lotta contro i terribili tagli annunciati dalla Fiat. Davanti ai picchetti, per tre giorni e tre notti si concretizza la solidarietà e l’unità maturate nelle lotte degli anni precedenti. Certo, la maggioranza dei lavoratori melfesi non partecipa al blocco ma nemmeno vi si oppone comprendendo profondamente le ragioni degli operai siciliani. Ai picchetti partecipa invece attivamente la minoranza più combattiva di Melfi, ovvero Fiom, Slai e Failms. Nonostante la presenza della polizia, nonostante i tentativi di far rientrare la protesta  da parte di Cgil e Rifondazione Comunista, nonostante un tempo inclemente, gli operai di Melfi presenti ai picchetti non indietreggiano. Organizzano alla meglio gli aspetti logistici, presidiano i blocchi stradali, ma soprattutto improvvisano comizi, discutono e si mescolano con i propri “fratelli di classe”[132]. Il blocco di Melfi rappresenta così l’apice del percorso di maturazione politica dei metalmeccanici lucani.