La propaganda

 

Il dibattito manageriale sul toyotismo e sulla sua adattabilità al sistema produttivo delle società occidentali, si è sviluppato, nel corso degli anni novanta, sovrapponendosi ad un immaginario collettivo già preparato alla teorizzazione finale del “superamento del taylorismo”. L’automazione, e, soprattutto, la cosiddetta “rivoluzione informatica”, iniziata grosso modo nel decennio precedente, avevano infatti suscitato un profondo interesse per le profonde implicazioni che avrebbero avuto sul mondo del lavoro. Nel corso di questo dibattito, al timore per le ricadute occupazionali si sostituì ben presto una fiducia positivista nelle nuove tecnologie. Spesso con il consenso delle organizzazioni sindacali, le aziende hanno mascherato gli effetti più generali di queste trasformazioni, focalizzando invece l’attenzione sulla creazione di nuove figure professionali, sulle mirabolanti potenzialità della microelettronica e, soprattutto, sulla liberazione dalla fatica fisica nei nuovi processi produttivi. Questa tendenza, nel tentativo di occultare fenomeni sempre più palesi come la dequalificazione del lavoro operaio, la destrutturazione e la delocalizzazione dei grandi poli industriali, la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la sistematizzazione di bacini strutturali di disoccupati, lavoratori precari, lavoratori non regolarizzati, ha raggiunto talvolta espressioni paradossali. Mentre andavano nuovamente aumentando, infatti, sia gli orari che l’intensità del lavoro, si è diffusa la teoria  della “fine del lavoro”. Si è tentato così di negare la centralità del lavoro, salutando lo schiudersi di una nuova, mitica, età dell’oro, caratterizzata dalla definitiva liberazione dal sudore della catena. Ecco cosa ne dice Rifkin:

 

“Oggi, per la prima volta, il lavoro umano viene sistematicamente eliminato dal processo di produzione; entro il prossimo secolo, il lavoro «di massa» nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni…”[19].

 

Alla pesante attività muscolare delle linee di montaggio fordiste, si sostituirebbe allora, secondo tale teoria, la valorizzazione della creatività, delle doti intellettuali, della “flessibilità” del lavoro umano. Non più semplicemente operai, ma lavoratori qualificati, lavoratori impegnati in mansioni “intellettualizzate”, perfino lavoratori “immateriali”… Si giunge così a dichiarare:

 

“con l’informatizzazione della produzione tutto il lavoro sta per diventare definitivamente lavoro astratto”[20].

 

È questa una teoria anche profondamente legata alla percezione “egocentrica” dei paesi occidentali, poiché capace d’ignorare le trasformazioni globali del lavoro. Una percezione contemporaneamente classista e razzista se posta davanti alla realtà di una divisione internazionale del lavoro che costringe sempre maggiori contingenti di forza lavoro ad immigrare nei paesi del Primo Mondo per mansioni ben poco “immateriali”. La comparsa, negli anni novanta, di una considerevole produzione, scientifica e non, a sostegno della Fabbrica integrata, ha potuto avvantaggiarsi quindi della presenza di un dibattito già superficiale e distorto. Il sociologo Giuseppe Bonazzi inserisce la sua analisi del “modello giapponese” proprio entro questo dibattito. La produzione snella si potrà affermare, secondo Bonazzi, anche in Occidente grazie alla presenza di tre elementi di particolare importanza:

 

-          “l’esteso uso di tecnologie avanzate che consentono di evitare o almeno attenuare lo sfruttamento intensivo della manodopera praticato in Giappone;

-          la ricerca di accordi con il sindacato per il coinvolgimento consensuale della manodopera nelle proposte di miglioramento;

-          il ricorso a forme di organizzazione modulare della produzione (Cellular Manufacturing), particolarmente adatte a gestire con la necessaria rapidità e flessibilità le anomalie di processo e di prodotto[21]

 

ovvero la sostituzione delle vecchie squadre operaie, intese come mere entità burocratiche, con unità concepite come “subsistemi decentrati e largamente autosufficienti. Si tratta, per quanto riguarda gli stabilimenti Fiat, delle unità tecnologiche elementari.

 L’introduzione delle nuove tecnologie viene quindi descritta come momento cruciale per l’applicazione della “produzione snella” in Occidente. Sminuendo infatti la lettura bravermaniana della tendenziale dequalificazione del lavoro nel nuovo regime produttivo[22], l’autore sottolinea la capacità dei nuovi sistemi di alleggerire, o addirittura eliminare, lo sforzo muscolare da un lato, e, contemporaneamente, d’incorporare il “controllo dei tempi, modalità e standard del processo produttivo. Questa ultima qualità, definita altrove come “trasparenza”, non è certamente da intendersi come semplice aumento del controllo coercitivo sul lavoro operaio, bensì come stimolo alla partecipazione attiva. Infatti, spiega Bonazzi,

 

“il venir meno di un nesso diretto tra produzione e sforzo fisico continuato pone le premesse perché il controllo, da fatto disciplinare esterno si trasformi sempre più in conformità intelligente alle procedure. Tale conformità è tecnicamente analizzabile; si accompagna a una riduzione dello sforzo e non comporta necessariamente l’impoverimento del contenuto lavorativo, al contrario richiede spesso la crescita delle abilità mentali. Soprattutto viene meno il gioco a somma zero tipico dell’era della macchinizzazione classica e viene meno così uno dei tratti fondamentali dell’esperienza operaia in fabbrica, che alimentava una visione dicotomica e inevitabilmente conflittuale della società”[23].

 

Per “gioco a somma zero” l’autore intende la contrapposizione storica tra le componenti formali-proceduralizzate del lavoro e quelle informali e tendenzialmente “illegali”. Merito del nuovo sistema produttivo sarebbe pertanto l’aver evidenziato e cernito quella parte del processo lavorativo che il sistema fordista manteneva inevitabilmente sotto un cono d’ombra. Il vecchio sistema, infatti, tecnologicamente limitato e strutturalmente rivolto al primato della quantità, permetteva l’esistenza di particolari abilità non proceduralizzate. Queste abilità, definite dall’autore come astuzie nascoste” o “tacit skills”, non sarebbero state del tutto negative, garantendo una certa flessibilità alle vecchie catene di montaggio fordiste. Bonazzi differenzia infatti tra

1) astuzie presupposte,

 

“sono quelle astuzie e/o iniziative informali utili e spesso indispensabili al processo produttivo perché suppliscono limiti tecnologici”[24];

 

2) astuzie tollerate, ovvero sospese tra il divieto esplicito ed il permesso tacito;

3) astuzie vietate, in pratica

 

“tutte le pratiche opportunistiche per rendere più comodo o più svelto il lavoro con la conseguenza di compromettere la qualità del prodotto o la sicurezza del processo lavorativo”[25].

 

Il nuovo sistema sarebbe allora in grado di assorbire le “astuzie” positive attraverso la partecipazione operaia, e, al contempo, di negare ogni possibilità alle procedure informali negative attraverso il controllo tecnologico. Pertanto, sottolinea questo sociologo,

 

“oggi non ha più senso usare antagonisticamente le vecchie astuzie, ma può rientrare in una strategia rivelarle, affinché siano usate per migliorare la qualità”[26]!

 

La saturazione del tempo di lavoro viene così mascherata dall’avanzata del lavoro “formale” su quello “informale”. Giancarlo Cerrutti, pur partendo dalle stesse categorie concettuali di Bonazzi, giunge infatti a ben altre conclusioni. Il ricercatore dell’Ires-Cgil di Torino ripropone la divisione del lavoro operaio in lavoro formale e lavoro informale. Suddivide inoltre quest’ultimo, così come lo si trova all’interno della fabbrica tayloristica, in tre categorie: il lavoro informale rimosso, quello tollerato, ed infine, quello incoraggiato. Si tratta, grosso modo, della distinzione delle “astuzie” operaie di Bonazzi (vedi fig. 1). Ma la maggioranza della forza lavoro, sottolinea Cerrutti,  

 

 “continua ad essere impiegata nel lavoro diretto di trasformazione e montaggio del prodotto, mentre la minoranza svolge lavori di presidio, conduzione e manutenzione degli impianti; […] gli operai diretti continuano a costituire un variegato insieme di figure professionali asservite alle macchine e ad avere la maggior parte dei compiti e delle procedure rigidamente predefiniti”[27].

 

L’annessione del lavoro informale incoraggiato da parte del lavoro informale riduce “gli spazi di libertà dal vincolo lavorativo”, mentre

 

“l’assegnazione agli operai «diretti» di funzioni e compiti eterogenei, nonché di attività di controllo e gestione del processo produttivo, con il conseguente sviluppo di valenze professionali polivalenti e polifunzionali, tende a realizzare una maggiore saturazione del tempo di lavoro, in quanto richiede un surplus di sforzo lavorativo sia in termini fisici che intellettuali[28]”.

 

 

Fig. 1- Lavoro operaio diretto. Lavoro formale e lavoro informale.

Fonte: G. Cerrutti, V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata, Roma, Ediesse, 1991, p. 47.

 

Questa colonizzazione delle aree del lavoro che rimanevano oscure al controllo fordista, e pertanto, in qualche maniera, gestite in maniera resistenziale dai lavoratori, viene ricompensata nella fabbrica integrata, dalla concessione di un”autonomia controllata” estremamente ristretta e comunque asservita alle necessità aziendali. In questa area, definita da Cerrutti come lavoro non procedularizzato, l’azienda introduce tutte quelle attività volte ad assicurare la qualità, la flessibilità e la continuità del ciclo produttivo. Quest’area, infine, rimane comunque organizzata, come tutto l’insieme del lavoro formale, secondo i principi “scientifici” del taylorismo. L’autore giunge così alla giusta conclusione che:

 

“il taylorismo non scompare dalla fabbrica integrata ma viene ricompreso in un più ampio concetto di razionalità organizzativa”[29].

 

 Nell’analisi di Bonazzi, questa “autonomia”, sarebbe invece parte della preziosa contropartita al “dono” operaio della partecipazione ed implicitamente, della non-conflittualità. Una contropartita ancor più preziosa se vista attraverso la lente mistificante della “fine del lavoro”, dato che:

 

“nella prospettiva di un sempre maggiore coinvolgimento intelligente degli operai si può presumere che quello scenario tecnologico è destinato a non bastare più e che occorrerà compiere un salto qualitativo verso una tecnologia che non riduca soltanto la fatica ma che consenta lavori meno vincolanti. […] Gli operai saranno sempre meno sollecitati a suggerire semplici astuzie pratiche come se si trattasse di un «giacimento» di esperienze in loro possesso finora non utilizzato dall’azienda. Sempre di più saranno sollecitati invece a dare contributi concettuali per risolvere problemi nuovi legati alle continue innovazioni di processo e di prodotto. La fine della penosità materiale diventa la premessa per la comparsa di una dedizione intelligente a tutto campo”[30].

 

L’altra parte del dono aziendale, la parte più consistente, dovrebbe consistere invece in alti salari, prospettive di carriera, gratifiche “simboliche e morali”. Si tratterebbe, insomma, del corrispondente nostrano del welfare aziendale su cui si è fondata la proverbiale “fedeltà” dei lavoratori giapponesi. Sennonché, ci ricorda premurosamente Bonazzi, il concetto antropologico dello “scambio del dono” implicherebbe non la mera contrattazione di uno scambio di favori, bensì la serena consapevolezza di un dono

 

“tacitamente contraccambiato sul lungo periodo, in una forma non rigidamente prevista eppure percepita come adeguata”. Pertanto, “lo scambio parziale di dono è piuttosto una categoria limite, che nella realtà della fabbrica «a tubo di cristallo», responsabili del personale e sindacalisti farebbero bene a conservare nel proprio retroterra mentale come ammonimento metodologico a non peccare mai di presunzione pan-contrattualistica”[31].

 

Bonazzi tenta così di delineare un volto “morbido” al toyotismo occidentale. Adottando un’immagine suggeritagli dagli stessi ingegneri Fiat, descrive allora la Fabbrica integrata come un “tubo di cristallo”, ovvero una struttura

 

“lineare semplice che evoca idee di essenzialità, snellezza, rapidità di attraversamento. Ma anche idee di rigidità e di precisione […]. Ma il tubo è di cristallo. La metafora non evoca soltanto rapidità e precisione, ma trasparenza e fragilità. […] Il lavoro tende a diventare trasparente perché l’obbiettivo zero-scorte e zero-difetti rende sempre più superato gestire nell’ombra tempi e risorse. Viene meno la possibilità gestionale di sotterfugi contabili nel calcolo delle scorte e viene meno anche la possibilità di interpretare il comportamento operaio in base al vecchio modello delle astuzie nascoste”[32].  

 

Il tema del dono è stato in seguito ripreso da un altro sociologo italiano, Vittorio Cotesta. Nelle conclusioni ad una ricerca condotta proprio sulla Fiat di Melfi, lo studioso ha dovuto registrare come, nonostante fosse passata quasi una decina d’anni dall’inizio della produzione nello stabilimento lucano, quel contraccambio di doni, “seppur parziale”, non si fosse ancora visto. Almeno non nei termini previsti da Bonazzi. Secondo Cotesta, infatti, all’impegno produttivo dei lavoratori, l’azienda non avrebbe potuto, né dovuto, corrispondere con un riconoscimento salariale o con gratifiche di varia natura. La vera controparte offerta dall’azienda sarebbe invece l’opportunità lavorativa. Ben consapevole delle difficili condizioni occupazionali della Basilicata, e dell’intero Meridione, l’autore maschera il ricatto del lavoro come una donazione aziendale. Egli afferma infatti:

 

“In un contesto economico e sociale con alti indici di disoccupazione, l’opportunità di lavorare costituisce il primo momento del circuito del dono: donare, ricevere, ricambiare. All’opportunità di lavorare (al dono ricevuto) [sic] i lavoratori rispondono con il proprio impegno per la qualità e, soprattutto, per la qualità del prodotto. […] I lavoratori si mostrino consapevoli di tutto ciò, sia quando esprimono gratitudine verso l’azienda per l’opportunità ricevuta di lavorare, sia quando affermano che questa opportunità non si deve solo all’azienda ma anche al contributo del governo nazionale (la questione degli incentivi) e delle altre istituzioni regionali e locali”[33].

 

Alla già citata fedeltà aziendale si aggiunge così un “patriottismo” nazionale e regionale. Qua e là, tra le varie celebrazioni della fabbrica integrata, risorge allora un meridionalismo “interessato”. Ci si dimentica del ruolo storico di mero bacino di forza lavoro che il Mezzogiorno ha avuto per lo sviluppo dell’azienda torinese e del capitalismo italiano tutto e si sottolinea invece come

 

“anche negli anni difficili la Fiat abbia riservato al Sud tutti gli incrementi di attività, difendendone con assoluto privilegio l’occupazione. Quello di Fiat è una presenza tecnologicamente qualificata in quanto gli stabilimenti del Sud sono in linea generale i più moderni d’Europa e tra i più avanzati nel mondo”[34].

 

Nella letteratura aziendale Melfi viene descritta come una “testimonianza dell’impegno senza riserve del Gruppo per il Mezzogiorno”, una “scommessa”, un’”occasione eccezionale”, una “sfida” ai giovani meridionali, arruolati ancora una volta nel rilancio del Meridione e dell’Italia nel mercato mondiale. In questo le rappresentazioni esterne alla Fiat non si discostano di molto dalla propaganda aziendale. In un’importante rivista “meridionalista” ci si affanna infatti a sottolineare come l’esperienza lucana non sia

 

“la stessa cosa di altre volte. Cassino, Termoli, Pomigliano hanno già spostato consistentemente il baricentro geografico del gruppo torinese. Ma questa volta è il cervello che si muove, nel senso che Melfi ha un grado di autonomia di concezione, un’indipendenza «filosofica» dalla casa madre che forse sfugge persino ai suoi stessi progettisti. Melfi è la fabbrica meridionale e post-moderna per eccellenza, cioè la fabbrica italiana del Duemila”[35].

 

Dietro a questo rinvigorito orgoglio meridionalista (ma al contempo anche nazionalista ed europeista) si cela naturalmente il tentativo di indebolire ulteriormente la resistenza operaia, minandone l’unità. A questo scopo si scoprono allora le “specificità territoriali”, grazie alle quali si potranno giustificare i patti territoriali ed i contratti d’area. Si contrappongono i differenti “distretti produttivi” ad altre aree sub-regionali, o regionali, od addirittura nazionali[36]. Si giunge, infine, alla proposta di abolizione della contrattazione nazionale di categoria o di istituzione delle gabbie salariali per il sud. In questo articolato tentativo d’incrinare l’unità e disperdere le forze organizzative della classe operaia, l’esperienza di Melfi ha un ruolo di primo piano. La creazione della SATA in quanto struttura aziendale giuridicamente autonoma dalla Fiat Auto e la firma dell’accordo integrativo aziendale del giugno 1993, hanno fatto sì che Melfi, non solo fosse svincolata dalle condizioni generali della contrattazione vigenti nel resto del gruppo Fiat, ma venisse anche utilizzata come un vero e proprio ariete da utilizzare contro le resistenze degli altri stabilimenti. In questo senso è corretto parlare di Melfi innanzi tutto come

 

“un laboratorio per sperimentare il ri-disciplinamento generale della forza-lavoro nelle coordinate della competizione ‘globale’”. Ed infatti “condizioni di maggiore flessibilità degli orari dopo l’accordo di Melfi hanno cominciato immediatamente a diffondersi, nel gruppo FIAT – a Mirafiori (terzo turno e lavoro notturno obbligatorio anche per le donne), a Termoli (da 15 a 18 turni settimanali ordinari), alla Teksid di Carmagnola, ecc.. – come in altre aziende, di ogni settore”[37].

 

Si delinea allora il cosiddetto “modello Melfi”, in pratica un pacchetto di strumenti atti a flessibilizzare, precarizzare ed intensificare il lavoro operaio. A questa “cura” vengono via via sottoposti non solo gli stabilimenti della Fiat e dell’indotto dell’automobile, ma le aziende di ogni altro ramo produttivo[38].

 Questa rappresentazione della Fabbrica integrata, sintetizzata da Bonazzi nella fortunata immagine del “tubo di cristallo”, è stata ampliamente diffusa negli anni passati non solo da una vigorosa letteratura organica agli interessi aziendali, ma anche attraverso la carta stampata e le televisioni. Anche l’opinione pubblica doveva essere infatti compresa in questa colossale campagna propagandistica. Non solo per un imprescindibile orgoglio nazionale ma, soprattutto, perché eserciti una vera e propria pressione sociale sui lavoratori. Se la fabbrica integrata è un gioiello tecnologico, una struttura cristallina, un luogo di cultura costruito appositamente attorno alla figura umana, perché dovrebbero lamentarsi gli operai? Perché dovrebbero arrecare danno all’economia nazionale con le loro agitazioni? Allo scopo di sostenere e di premere sui lavoratori affinché sopportino le difficili condizioni di lavoro, il nuovo sistema produttivo finisce con l’arruolare così anche le reti familiari e sociali dei lavoratori. Si riduce il territorio in uno spazio coattivamente produttivo. Questo accade naturalmente con ancora maggiore efficacia se il contesto si presenta privo di presenze e culture industriali. Il territorio viene allora trasformato in una “forza socialmente produttiva” schierata a difesa dell’azienda e della sua vitale necessità di prevenire ogni criticità[39]. In questa opera l’azienda di Melfi è arrivata perfino ad organizzare dei family day. Così li descrive un operaio:

 

“Hanno portato in giro i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli dicendo “Guardate quanto è luminoso, quanto è bello lo stabilimento!”, ma hanno anche organizzato attentamente i percorsi. Mica fessi! Nessuno ha visto dove ci sta veramente il carnaio di noi lavoratori, tutti quanti hanno visto i robot, i computer, queste cose qua. Hanno creato così un meccanismo di conflitto fra i molti come me che sono insofferenti e le nostre famiglie. “Ma che cazzo volete di più?” ci rispondono quando gli raccontiamo del lavoro penoso in catena. “Non abbiamo visto picconi, non abbiamo visto martelli, non abbiamo visto incudini, non abbiamo visto vanghe, abbiamo visto dei robot che fanno le macchine e se vi lamentate vuol dire che siete degli sfaticati!”[40].

Anche il sistema scolastico viene investito da questo progetto di piegare la società lucana ai bisogni aziendali. La necessità di promuove la nuova cultura industriale nel bacino di provenienza della propria futura forza lavoro ha spinto la Fiat al varo di numerose iniziative informative nelle scuole superiori, in particolare in quelle a carattere tecnico. Vengono allora diffusi negli istituti opuscoli e documentari video sul nuovo sistema produttivo e sullo stabilimento di Melfi in  particolare. Si invitano nelle scuole i membri delle associazioni industriali, si firmano accordi con il ministero dell’istruzione per progetti sui processi di produzione coordinati dall’Isvor, si propongono stages formativi ed “esperienze pratiche” all’interno dello stabilimento[41]. A tal proposito dei docenti hanno confessato:

 

“ci inculcavano il discorso che i ragazzi dovevamo abituarli, che il mondo stava cambiando e non c’era più il discorso del posto fisso. […] Mi ricordo in un collegio dei docenti, il Preside che diceva “noi dobbiamo preparare questi ragazzi a dare risposte alla Fiat che è venuta a darci lavoro”[42].

 

Particolare attenzione si è infine avuta per l’organizzazione dei corsi di formazione e delle riviste aziendali. Maurizio Magnabosco, in occasione dell’inaugurazione del Learning Center dello stabilimento, ha difatti dichiarato:

 

“Melfi è un centro di eccellenza della cultura del lavoro in generale, in quanto il modello di governo della Sata propone schemi applicabili anche a business diversi da quello automobilistico; […]. Occorreva, dunque, dedicare alla formazione un impegno decisamente maggiore di quello normale, che in Fiat ha comunque sempre avuto standard elevati”[43].

 

In effetti la realizzazione della fabbrica integrata ha comportato una reale intensificazione dell’azione formativa. Secondo Vittorio Rieser, coordinatore di due fondamentali inchieste sulla realtà operaia di Melfi[44], l’impegno aziendale nella formazione è stato “imponente” e “sistematico”. I corsi hanno coinvolto tutte le figure professionali per periodi di tempo radicalmente superiori alla media degli altri stabilimenti. Ma, come sottolinea lo stesso Rieser:

 

“questo imponente sforzo formativo è [stato] segnato da un dualismo di fondo. La formazione «vera» (con gli elementi anche innovativi che l’hanno caratterizzata) riguarda tutte e solo le figure «qualificate», sia operaie (Cpi, conduttori di impianto, manutentori), sia impiegatizie (tecnologi, capi Ute). Per la massa degli operai comuni non si è trattato di una vera (sia pur rapida) formazione professionale, quanto di un momento di acculturazione industriale e aziendale[45].

 

Mentre infatti alle figure maggiormente qualificate si sono dedicati periodi di formazione e affiancamento lunghi fino a due anni, gli operai comuni hanno potuto avvalersi solamente di una o due settimane di formazione. Basterebbe questo dato quantitativo per ridicolizzare l’immagine propagandata della “fabbrica di cultura”. Ma è bene sottolineare anche il reale obbiettivo di tali corsi. Le inchieste operaie hanno infatti svelato come il loro elemento centrale fosse una

 

“acculturazione specifica al modello della fabbrica integrata. Si tenta cioè di far assimilare in partenza agli operai alcuni «principi organizzativi» e alcuni elementi-base della cultura e dell’ideologia che caratterizzano tale modello”[46].

 

Non quindi una preparazione meramente tecnica, ma, con le parole di un lavoratore “una specie di lavaggio del cervello”, con l’obbiettivo di raggiungere il maggiore coinvolgimento operaio possibile. L’insieme di queste  nozioni sul “come fare gruppo”, sul “come fare qualità”, sul come rendere il proprio “ruolo attivo”, si è immediatamente scontrata con una palpabile esigenza di concretezza, ovvero di una più approfondita “formazione alla mansione”, espressa dai neo-assunti. La formazione di Melfi è divenuta però un vero e proprio boomerang quando la teoria dei docenti dell’Isvor non ha retto il confronto con le reali condizioni di fabbrica. La palese contraddizione che ne è derivata diventa così il primo passo nella presa di coscienza della giovane classe operaia melfese. Ed ecco allora la lucida testimonianza di un operaio sui corsi:

 

“Col senno di poi, la nostra formazione aveva due obbiettivi: uno tecnico, e penso che lo abbiano raggiunto. […] L’altro pezzo della formazione serviva [invece] a motivarti rispetto alla giustezza dell’interesse aziendale. […] A questo insistere sulla motivazione, la reazione istantanea di tutti era un grande punto interrogativo. Sembrava talmente un’azienda ideale, quella che ti andavano a proporre, da essere poco credibile. Tutti quanti ci dicevamo: “ma sarà vero?”. Si percepiva il messaggio, ma il dubbio veniva. Sembrava una situazione idilliaca, da paradiso terrestre. Questa fabbrica paradiso!”[47].

 

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