Riportiamo di seguito alcuni articoli tratti dalla stampa italiana sulla ridiscesa in campo del proletariato in Bolivia. Per la precedente tornata di lotta rimandiamo all'articolo pubblicato sul numero 62 nostro giornale, che fare.

 

Liberazione  02-Giugno-2005

Bolivia, proteste a La Paz per la legge sull'energia

 

 

Sono degenerate in violenze le proteste dei lavoratori dell'industria boliviana dell'energia, che ieri sono arrivati in forze nella capitale La Paz per invocare la nazionalizzazione del settore, non recepita dalla nuova legge. Circa 700mila persone hanno manifestato per le strade della capitale ed è intervenuta la polizia antisommossa.

 

Liberazione  04-Giugno-2005

Bolivia, Mesa concede assemblea costituente

 

 

L'annuncio da parte del presidente Carlos Mesa di una Assemblea Costituente e del referendum sulle autonomie, fissato per il 16 ottobre e temuto per la possibilità che la ricca regione di Santa Cruz ne approfitti per dichiararsi indipendente, non placa le proteste in Bolivia. Ieri manifestazioni hanno paralizzato l'impianto di distribuzione di benzina più grande di La Paz.

 

 

Liberazione  05-Giugno-2005

Bolivia - La Paz isolata. Mancano cibo e benzina. Tensioni nell'esercito

 

 

La convocazione di un referendum sull'autonomia della ricca regione di Santa Cruz, che chiede l'indipendenza da la Paz, fa crescere la tensione in Bolivia. La decisione del presidente è contestata dai sindacati e dalle organizzazioni indigene. Dopo 13 giorni di sciopero e di blocchi stradali, nella capitale cominciano a scarseggiare benzina e generi alimentari. Ieri un gruppo di militari ritirati ha rivolto un appello all'esercito perché si decida ad intervenire. Alcuni dimostranti, fra cui esponenti della Centrale operaia boliviana (Cob) hanno manifestato davanti alla sede del comando delle forze armate per chiedere al generale Marcelo Antezana di mettersi alla testa di un governo civico-militare. L'aeroporto di La Paz è chiuso. A Santa Cruz de la Sierra decine di pozzi di petrolio risultano occupati. La circolazione è paralizzata in tutto il Paese dai blocchi stradali di protesta. La Chiesa cattolica ha accettato la proposta di intervenire come mediatrice avanzata dal presidente Mesa. L'annuncio è stato dato dal segretario della Conferenza episcopale, mons. Jesus Juarez. Le organizzazioni sociali, compreso il Mas (il principale partito dell'opposizione), ribadiscono la richiesta di elezioni anticipate. La Cob continua a chiedere la nazionalizzazione di tutti i giacimenti. Il Comitato civico di Santa Cruz, regista dei tentativi di secessione della regione, annuncia che non ha intenzione di aspettare il referendum del 16 ottobre. Ne ha proclamato uno per suo conto per il 12 agosto.

 

 

 

il manifesto - 07 Giugno 2005

 

Bolivia in rivolta, ore contate per Mesa
A La Paz e in tutto il paese la mobilitazione popolare rende sempre più probabili le dimissioni del presidente


Il gas La nazionalizzazione degli idrocarburi è la richiesta irrinunciabile. La mediazione della chiesa quasi fallita. La ricca Santa Cruz assediata dai campesinos indigeni
PABLO STEFANONI
LA PAZ
Le ore del presidente Carlos Mesa sembrano contate. Le mobilitazioni popolari e il blocco delle strade per chiedere l'assemblea costituente e la nazionalizzazione degli idrocarburi sono diventate ancor più massicce ieri in tutta la Bolivia, mentre la chiesa tentava una difficile mediazione basata sulla convocazione di elezioni anticipate rispetto al 2007. A questa proposta si è detto favorevole anche Evo Morales, deputato del Mas e leader cocalero: «Mesa e i presidenti di Camera e senato, Mario Cossio e Hormando Vaca Diez, devono presentare le loro dimissioni nelle mani del cardinale Julio Terrazas», ha detto, aggiungendo che lo Stato «deve prendere possesso effettivo dei pozzi di gas e petrolio e nazionalizzzare di fatto gli idrocarburi».

La rinuncia dei leader del parlamento è un passo necessario in quanto la legislazione boliviana non consente l'anticipo del voto, per cui questa ipotesi implica che se ne vadano coloro che si trovano nell'immediata linea di successione costituzionale così che, alla fine, il presidente della Corte suprema possa convocare nuove elezioni. Ma sono in molti a chiedere che se ne vadano anche tutti i parlamentari, che sono stati eletti prima della «guerra del gas» dell'ottobre 2003 che portò alle dimissioni del presidente Sanchez de Lozada e non rappresentano più il quadro politico del paese.

Dalla mattina di ieri, da El Alto, la città che domina La Paz, decine di migliaia di abitanti e lavoratori - che da due settimane sono in sciopero generale per esigere la nazionalizzazione del gas - sono scesi un'altra volta verso la sede del governo, in una delle mobilitazioni più forti dall'inizio della crisi. Gli alteños hanno mantenuto il blocco dell'impianto di Senkata, intorno a cui hanno scavato buche per impedire l'uscita dei camion cisterna, ciò che sta provocando scarsità di combustibile alla sede del governo. Intanto stanno aumentando i prezzi dei prodotti di prima necessità a causa della mancanza di rifornimenti. Nei quartieri popolari di El Alto i dirigenti dei comitati di sciopero cominciano a prendere coscienza dellla forza messa in campo da questo enorme agglomerato indigeno situato a 4000 metri di altitudine e contiguo a La Paz, mentre nei dibattiti si comincia a parlare della questione del potere. E ora?, era la domanda ricorrente fra gli abitanti che si apprestavano a scendere nella capitale.

Nella Plaza de los Heroes, in centro, si è tenuto un'assemblea popolare per decidere sui prossimi passi. «Cosa vogliamo, compagni?», chiedeva il leader della Central Obrera Boliviana, Jaime Solares, e la moltitudine rispondeva con un assordante: «La nazionalizzazione». «Loro continuano a usare ogni tipo di machiavellismo per tenersi le nostre risorse e continuare a beneficiare le compagnie transnazionali, ma noi non lo permetteremo. Vogliamo recuperare tutte le risorse naturali boliviane e la mobilitazione continuerà», ci ha detto il leader campesino Gualberto Choque. Intanto i coltivatori di coca che seguono Morales - uno dei movimenti sociali più coesi del paese - hanno anch'essi cominciato il blocco della strategica strada Cochabamba-Santa Cruz, nella Bolivia centrale. Una ventina di camion sono partiti dall'altipiano diretti a La Paz trasportando 2000 indigeni ayamara della provincia radicale di Aroma: «Stiamo lottando perché i nostri figli abbiano un pezzo di pane, se sarà necessario distruggeremo la Plaza Murillo», il cuore della capitale dove si trovano le sedi del potere politico.

I blocchi stradali sono arrivati fino a Santa Cruz, nell'oriente ricco e «bianco», impegnata più che mai nella sua offensiva autonomista. La città è praticamente accerchiata dai campesinos che si oppongono alle direttive del Comité civico cruceño, in cui vedono la mano dell'oligarchia imprenditoriale. I campesinos minacciano di occupare i pozzi petroliferi della zona e la tensione crescente rende probabili scontri cruenti fra i campesinos e gli indigeni da un lato - molti di loro immigrati dell'occidente andino del paese - e le forze d'urto del Comité civico, come la Union Juvenil Cruceñista, dall'altro. Ieri pomeriggio, questo gruppo paramalitare e razzista ha cercato di impedire l'ingresso in città dei campesinos, così come aveva fatto nei giorni precedenti quando aveva provocato diversi feriti. Le élite di questo dipartimento hanno convocato unilateralmente un referendum autonomista per il 12 agosto, un passo a cui si oppongono con forza i movimenti sociali dell'occidente che vi scorgono un intento secessionista delle oligarchie locali per avere il controllo delle risorse naturali, prevalentemente gas, petrolio e terre. Uno dei nodi della crisi attuale è proprio la difficoltà di articolare la visione «liberista» dell'oligarchia imprenditoriale dell'oriente con la visione «nazionalista» delle maggioranza indigena e popolare dell'occidente.

Nel pomeriggio di ieri circolavano insistenti voci di dimissioni di Mesa e di elezioni anticipate. Lo stesso presidente del Congresso, Vaca Diez, ha rafforzato queste voci con le sue dichiarazioni alla Bbc secondo cui «Carlos Mesa è pronto a rinunciare». Da parte sua il parlamento, oggetto della rabbia popolare, ha cessato i lavori fino a nuovo ordine, mentre i manifestanti si accingevano ad «accerchiare» la Plaza Murillo di La Paz.«E' chiaro che siamo arrivati al momento del collasso dello Stato e ormai non basta più nemmeno l'uscita di scena di Mesa. Ci vuole l'assemblea costituente», ci ha detto l'analista politica Alvaro Garcia Linera. Il vero nodo è come «disattivare» la richiesta di nazionalizzazione del gas, che ogni giorno prende più forza.

 

 

 

 

 

 

 

 

Liberazione 08-giugno-2005 

 Bolivia, esplode la rivolta del gas

 

Il presidente Mesa si dimette. Esercito in strada a la Paz. Violenti scontri

di Angela Nocioni
Vuoto di potere in Bolivia. Il presidente della Repubblica si è dimesso ma nessuno ha preso ad interim il suo incarico. La Paz è isolata. Manca la benzina e il cibo scarseggia. Il Parlamento è assediato da centomila minatori armati di candelotti di dinamite. Reparti militari sono schierati in tutta la città. Blocchi stradali paralizzano i trasporti e impediscono i rifornimenti. L'esercito scalpita, la polizia è in rivolta, ma non si sa bene a chi entrambi rispondano in questo momento. Se qualcuno decidesse di aprire il fuoco sulla folla, sarebbe impossibile ricostruire la catena di comando. In un Paese che conta duecento golpe militari nei suoi centottanta anni di storia repubblicana e dove, l'ultima volta che un presidente è stato costretto alle dimissioni da un'insurrezione popolare (ottobre 2003) la polizia ha sparato uccidendo ottanta persone, le dimissioni del capo dello Stato possono aprire la strada tanto alla convocazione di un'assemblea costituente quanto a una soluzione militare.

La crisi che da due mesi tiene la Bolivia sospesa sull'orlo dell'esplosione, ha avuto nelle ultime ore un'improvvisa accelerazione con la decisione del presidente della Repubblica Carlos Mesa di rassegnare le dimissioni per la seconda volta dal 7 marzo scorso (il Congresso, allora, le respinse). A far crollare il suo traballante incarico sono state due spinte, uguali e contrarie, che si contendono l'ultima parola sull'esito della crisi.

Da una parte la rivolta dell'intero arco della sinistra sociale e politica boliviana - movimento indigeno, operai, minatori, insegnanti, la Cob (la centrale sindacale dalla più lunga e radicale tradizione di lotta del continente) e il Movimento al socialismo (il principale partito dell'opposizione) - che chiede la nazionalizzazione dei giacimenti di idrocarburi e non trova un accordo interno sull'opportunità di convocare nuove elezioni. Dall'altra, le rivendicazioni secessioniste della ricca regione di Santa Cruz, dove è concentrato l'80% delle riserve di gas. Il progetto degli imprenditori cruzeñi è la creazione di un minuscolo paradiso fiscale arrampicato sulle Ande, un mondo separato senza tasse, senza poveri e soprattutto senza royalities per le multinazionali che vendono all'estero il gas estratto dai giacimenti boliviani. Contano di poter approfittare della caduta di Mesa per poter formalizzare una dichiarazione d'indipendenza. Santa Cruz è stata il feudo del dittatore Hugo Banzer ed è tradizionalmente fedele alla destra del Movimiento nacionalista revolucionario e del suo ultimo presidente, Gonzalo Sanchez de Lozada, attualmente rifugiato negli Stati Uniti dopo la rivolta del 2003 nata anche allora dall'annuncio dell'aumento del prezzo del carburante (de Lozada siede ora alla direzione dell'Istituto per le Americhe, insieme a rappresentanti della Enron, della British Petroleum e della Shell, che da tempo appoggiano l'indipendenza del distretto di Santa Cruz).

Finora il presidente Mesa, stretto tra le rivendicazioni indipendentiste e l'insurrezione popolare che incendia a intervalli regolari le strade di la Paz, si era limitato a temporeggiare. L'altra sera è comparso in lacrime davanti alle telecamere per dire: "Sono arrivato fin qui. Oltre non posso andare". Venerdì scorso la chiesa cattolica e il cardinale Julio Terraza avevano avviato un'opera di mediazione. Non risulta che tra le mosse suggerite a Mesa comparissero le sue dimissioni. I manifestanti sostengono che il suo gesto serve a spianare la strada alla secessione di Santa Cruz.

Il presidente del Senato, Hormando Vaca Diez, primo nella linea di successione al capo dello stato, assicura che "non esiste alcun vuoto di potere" perché "il Congresso prenderà le sue decisioni". Ma il Congresso non riesce a discutere di nulla e si divide persino sull'opportunità di affrontare la questione della successione. Tanto che lo stesso presidente del Senato ammette "l'impossibilità di trovare un luogo dove i 157 deputati e senatori boliviani possano riunirsi senza pressioni".

Mesa era il vicepresidente del governo di de Lozada. Ha preso il suo posto dopo la rivolta dell'ottobre 2003 ma la sua nomina non è mai passata al vaglio delle urne. Subito dopo essersi insediato ha promesso la convocazione di un referendum sulla nazionalizzazione del gas. Il referendum si è svolto il 18 luglio scorso. Ma tra le domande poste il quesito sulla proprietà degli idrocarburi non c'era. Principale sponsor di quella consultazione è stata la Total (una delle imprese che gestiscono l'export del gas), che ha direttamente contrattato i tecnici chiamati a confezionare i quesiti (costo dell'operazione: 56mila dollari) in modo da tutelare, a prescindere dall'esito del voto, gli interessi delle multinazionali degli idrocarburi.

Il Movimento al socialismo (Mas) ha definito le dimissioni del presidente "accettabili solo a patto che siano seguite dalla convocazione di elezioni" su cui chiama a garantire "il presidente della Corte suprema, Eduardo Rodriguez".

La chiesa cattolica conferma che continuerà "a lavorare alla ricerca di un'agenda minima per consolidare il dialogo", ma buona parte degli insorti rifiuta la mediazione perché sospetta l'intenzione di assecondare gli interessi degli imprenditori di Santa Cruz.

Nuove colonne di contadini e di minatori marciavano ieri sera verso la Paz. Plaza Murillo, sede del governo e del Congresso nazionale, isolata dalla polizia, è stata per tutto il giorno teatro di violenti scontri tra manifestanti e agenti.

Da Fort Lauderdale, in Florida, dove è riunita l'assemblea dell'Organizzazione degli stati americani, in molti fremono per un intervento esterno. Mossa impossibile, a meno di violare la sovranità di uno Stato membro, senza un'esplicita richiesta in tal senso delle autorità boliviane. Che per ora tacciono. L'unica eventualità in cui automaticamente il Consiglio permanente o il segretario generale dell'Osa potrebbero intervenire senza richiesta sarebbe nel caso di una rottura dell'ordine costituzionale. Durante l'assemblea di Fort Lauderdale, a cui gli Stati Uniti prendono parte, Washington ha posto con forza la questione di un possibile intervento in paesi dell'America latina "dove sia in pericolo la democrazia".

 

 

 

www.repubblica.it

Secondo il presidente dimissionario, solo il voto anticipato
può salvare il paese dal durissimo scontro con le masse di minatori
Bolivia, appello di Mesa al Parlamento
"Elezioni subito, o sarà bagno di sangue"


 

 


LA PAZ - Solo le elezioni anticipate possono salvare la Bolivia dalla guerra civile e da un bagno di sangue. Ne è convinto il presidente dimissionario Carlos Mesa che si è appellato ai capi di Camera e Senato chiedendogli di rinunciare alla procedura di nomina di un suo successore per via parlamentare chiamando invece immediatamente i cittadini alle urne.

La Bolivia da settimane è teatro di violenti scontri di piazza tra manifestanti e forze dell'ordine. Ieri, all'indomani della presentazione delle nuove dimissioni da parte dello stesso Mesa, decine di migliaia tra minatori e contadini sono tornati a riversarsi nelle vie della capitale, La Paz, per reclamare riforme costituzionali che accordino alla maggioranza india una più ampia rappresentanza nelle istituzioni e, soprattutto, la nazionalizzazione delle risorse naturali, in particolare del gas, il vero nodo all'origine della crisi che già era costato il posto al precedente presidente Gonzalo Sanchez de Losada, costretto alla fuga nell'ottobre 2003 in seguito alla durissima repressione dei moti popolari.

La mossa di Mesa, che si è rivolto ai connazionali in un drammatico discorso alla Nazione trasmesso in serata dalla televisione, è stata provocata dalla decisione del presidente della Camera dei Deputati nonché dell'intero Congresso, Hormando Vaca Diez, di convocare per domani una riunione di entrambi i rami dell'assemblea per procedere all'eventuale accettazione o meno della rinuncia di Mesa, la seconda dopo quella dello scorso marzo, che fu peraltro respinta dai parlamentari.

Secondo la Costituzione boliviana, se questa volta l'esito della votazione fosse opposto, proprio Vaca Diez dovrebbe assumere la più alta carica istituzionale; le opposizioni hanno però già avvertito che un'ipotesi del genere sarebbe inaccettabile, e che in tal caso le manifestazioni proseguirebbero a oltranza.


"Il nostro Paese non può continuare a trastullarsi con la possibilità di andare in mille pezzi - ha messo in guardia il presidente dimissionario - L'unica soluzione per la Bolivia consiste nell'avviare subito l'iter elettorale". "La mia - ha aggiunto - è l'esortazione di un presidente che lascia l'incarico, è l'appello rivolto a un Paese che si trova sull'orlo della guerra civile, e con il quale sarebbe insensato giocare proprio mentre è a un passo dall'incendio. E' giunto il momento di smetterla di scommettere su una simile follia. Io sto cercando di evitare un bagno di sangue".

(8 giugno 2005)

 

 

 

Liberazione 09-Giugno-2005

Precipita la crisi a la Paz. Il Parlamento si riunisce oggi lontano dalla capitale, assediata dalla protesta. Il presidente dimissionario e il leader dell'opposizione: rischio guerra civile

Rivolta del gas in Bolivia,
gli insorti occupano i giacimenti

 

 

Un presidente dimissionario che grida al pericolo di «una guerra civile». Un parlamento che non riesce a riunirsi per nominare il successore. Un intero Paese paralizzato da blocchi stradali, barricate e dalle cariche di dinamite esplose nei cortei. I campi petroliferi dell'impresa spagnola Repsol occupati dai contadini a Santa Cruz.

Un terremoto politico è in corso in Bolivia. Le dimissioni del presidente Mesa non hanno placato la rivolta popolare che chiede la nazionalizzazione dei giacimenti di gas, principale risorsa del Paese più povero dell'America del sud.

I minatori, l'ala radicale della protesta, sono in marcia verso Sucre, dove oggi si riunisce in cattività il Congresso. Colonne infinite di uomini armati di bastoni e candelotti di esplosivo sono in cammino dalle miniere di Potosì in direzione degli altopiani vicini alla capitale. I deputati hanno abbandonato la sede del Parlamento a la Paz, circondata dagli insorti, ma la decisione di trasferire a novecento chilometri di distanza i lavori parlamentari per sfuggire alla pressione della piazza non impedirà l'assedio dei minatori, decisi ad evitare che il presidente del Senato, Hormando Vaca Diez, succeda a Carlos Mesa alla presidenza della repubblica. Vaca Diez è considerato legato a doppio filo agli imprenditori della ricca regione di Santa Cruz che chiedono di costituirsi in Stato autonomo.

Secondo la Costituzione, Hormando Vaca Diez, è il primo in linea di successione, seguito dal presidente della camera dei deputati, Mario Cossio, e dal presidente della Corte suprema, Eduardo Rodriguez. Quest'ultimo è il solo a poter convocare elezioni anticipate, a condizione che nel frattempo gli altri due abbiano rinunciato. Ma in Bolivia non si respira aria da accordo politico per una tregua. Il rischio di una soluzione militare della crisi rimane alto. La polizia è sul piede di guerra. L'esercito è schierato nelle principali strade della capitale.

Per l'intera giornata la Paz è tornata ad essere un campo di battaglia tra manifestanti e agenti. E' ancora isolata. Si circola solo a piedi. La benzina è finita ormai da giorni. Le ambulanze degli ospedali non sono più in grado di muoversi. I trasporti sono bloccati in tutto il Paese. Per permettere il rifornimento di generi alimentari e carburante, le organizzazioni sociali del gigantesco sobborgo di El Alto (un milione di persone arrampicate sulle baraccopoli sopra la Paz), epicentro della rivolta, si sono detti pronti a trattare. Ma si tratta di una tregua momentanea, facilitata dall'auspicio pubblico fatto da Carlos Mesa per la convocazione di elezioni anticipate.

A quest'inizio di negoziazioni hanno lavorato Abel Mamani, responsabile dei comitati di base di El Alto, e l'agguerrito Jaime Solares, massimo dirigente della Centrale operaia boliviana (Cob) che tenta di scalzare Evo Morales, capo del principale partito d'opposizione (il Mas) dal ruolo di leader politico degli insorti. Il Mas, sul cui discreto appoggio Carlos Mesa ha contato ogni volta che negli ultimi diciotto mesi si è trovato a un passo dalle dimissioni, fatica a mantenere il controllo della rivolta. Sulle barricate in fiamme Morales è ormai molto meno ascoltato dei dirigenti sindacali della Cob, i duri e puri della protesta.

Victor Mena, segretario esecutivo della Federazione delle cooperative minerarie della Bolivia (Fcmb), ha dichiarato al quotidiano La Prensa che la sua organizzazione «non accetta assolutamente Vaca Diez come presidente e vuole invece che la carica sia assunta dal titolare della Corte suprema, Eduardo Rodriguez, per indire elezioni anticipate». Vaca Diez fa parte del partito Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria) che era alleato dell'ex presidente boliviano Gonzalo Sanchez de Lozada, il cui governo cadde dopo una sanguinosa repressione militare nell'ottobre del 2003 per essere poi sostituito con l'esecutivo guidato da Mesa.

A. N.

 

 

 

 

 

Liberazione  10-Giugno-2005

 

Colonne di persone in marcia dalla miniere boliviane fino a Sucre per bloccare i lavori parlamentari ed impedire che la crisi sia risolta senza la convocazione di nuove elezioni. L'esercito: pronti ad intervenire

Bolivia, minatori assediano il Parlamento

 

 

Migliaia di minatori boliviani hanno assediato ieri la città di Sucre, dove era stata convocata la riunione del Parlamento per nominare un successore del presidente Carlos Mesa, dimessosi lunedì. L'intenzione dichiarata dei manifestanti è bloccare i lavori parlamentari. I minatori, insieme alla stragrande maggioranza della popolazione insorta per chiedere la nazionalizzazione dei giacimenti di gas del Paese (la principale risorsa boliviana) esigono che a prendere il posto di Mesa sia il presidente della Corte Suprema, Eduardo Rodriguez Veltzè, che secondo la Costituzione è il terzo in linea di successione alla presidenza dopo i presidenti di Senato (Hormando Vaca Diez) e Camera (Mario Cossio) e che è l'unico a poter anticipare la data delle elezioni.

L'ammiraglio Luis Aranda, capo di stato maggiore delle forze armate boliviane, ha avvisato che i militari «sosterranno ogni presidente legittimamente eletto». Lo ha fatto in un discorso in tv, durante il quale ha invitato i parlamentari a rimanere fedeli alla Costituzione e a prestare ascolto alla «volontà popolare» nella scelta del succesore del dimissionario Carlos Mesa. «Rispetteremo le decisioni del Parlamento e chiediamo a tutte le parti in causa in questo conflitto di rimanere sereni in modo da arrivare ad una vera soluzione: fino a che non vi saranno violazioni del sistema democratico e costituzionale, continueremo a garantire la sicurezza di questo processo» ha detto Aranda, alludendo alla possibilità di un intervento militare. Evo Morales, leader del principale partito di opposizione, il Movimento per il Socialismo, ha chiesto le dimissioni dei presidenti di Camera e Senato in modo che il presidente della Corte Suprema possa assumere l'interim e convocare le elezioni.

Intanto il dimissionario Carlos Mesa si è rivolto all'Argentina, al Brasile e alle Nazioni Unite per l'invio di mediatori che lavorino a una soluzione pacifica della crisi. Buenos Aires ha subito spedito a la Paz un emissario del governo. Lima ha già disposto il rientro di tutti i peruviani dalla Bolivia. Lo stesso sta facendo Madrid.

Dal Parlamento europeo è arrivato un appello in cui si auspica che «la rinuncia del presidente Mesa non comporti un vuoto di potere». «E' necessario - si legge nel testo - favorire spazi di dialogo perché la Bolivia possa risolvere la crisi pacificamente». I deputati invitano «alla moderazione, alla ricerca di un dialogo costruttivo fra tutti i segmenti della popolazione e di instaurare un clima di fiducia per portare il Paese sulla via di una transizione pacifica». Hanno chiesto infine l'invio di una delegazione europea per «analizzare la situazione sul campo e proporre aiuti» e si sono detti «pronti a partecipare in qualità di osservatori a eventuali processi elettorali».   A.N.

 

 

www.repubblica.it

 

Designato a sorpresa il numero uno della Corte suprema
dopo la rinuncia dei leader delle due camere parlamentari
La Bolivia esce dal caos
Rodriguez nuovo presidente

Il successore di Mesa eletto alla fine di una giornata di violenze. Morto, negli scontri polizia-manifestanti, un minatore di 51 anni


 
Il neo presidente della Bolivia Eduardo Rodriguez


LA PAZ - La Bolivia tira un sospiro di sollievo. E il caos dei giorni scorsi, al limite della guerra civile, cede il passo alla speranza. Il Congresso nazionale, riunito a Sucre, capitale costituzionale del paese, ha designato all'unanimità il magistrato Eduardo Rodriguez come nuovo presidente, al posto del dimissionario Carlos Mesa.

Rodriguez, 49 anni, presidente della Corte suprema, era il terzo nella linea di successione costituzionale alla massima carica dello stato, dopo i presidenti del Senato e della Camera, Hormando Vaca Diez e Mario Cossio. A questa designazione inaspettata si è giunti dopo una giornata di incertezza e di violenza, segnata anche dalla morte di un minatore di 51 anni in uno scontro con polizia ed esercito a pochi chilometri da Sucre.

In mattinata, le forze armate avevano dichiarato lo stato di emergenza e avevano ammonito le parti affinché agissero con senso di responsabilità nel rispetto dell'istituzionalità democratica.

Intanto da La Paz e da altre città della Bolivia erano giunti a Sucre i 157 deputati e senatori membri del Congresso per procedere all'accettazione delle dimissioni di Mesa e alla designazione del suo successore.

Ma con loro si erano mossi anche migliaia di contadini e minatori decisi, insieme al Movimento al socialismo (Mas) di Evo Morales, a impedire che dopo l'accettazione della rinuncia del capo dello stato uscente, assumesse l'incarico Vaca Diez. Nel pomeriggio, rendendo ancora più drammatica una già difficile situazione dopo la morte del minatore, le violenze si erano trasferite vicino a Plaza 25 de Mayo e il presidente del Senato aveva fatto capire che era impossibile dare il via alla seduta del Congresso.

 

A questo punto da più parti si è sottolineato come in caso di mancata soluzione, il Paese sarebbe precipitato nel caos, ma a sorpresa in serata Vaca Diez ha convocato una conferenza stampa dicendosi disposto a farsi da parte se il Parlamento avesse accettato le dimissioni di Mesa e le forze sociali avessero garantito un'ordinata e sicura sessione parlamentare.

Così è stato e alle 22:50 (le 4:50 italiane) nella Casa de la Libertad, il Congresso ha accettato le dimissioni del capo dello Stato, atto seguito a distanza di un minuto dalla rinuncia alla presidenza sia di Vaca Diez sia del presidente della Camera, Cossio.

I parlamentari hanno quindi designato presidente il titolare della Corte suprema, che ha giurato fedeltà alla Costituzione assicurando che il suo sarà "un mandato breve" mirato a organizzare elezioni anticipate.

(10 giugno 2005)

 

 

Liberazione 11-Giugno-2005

Il Parlamento nomina ad interim il capo della Corte suprema. Che promette elezioni

Bolivia, gli insorti contro il neopresidente:
«E' un uomo delle multinazionali del gas»

 

 

Trovato un accordo politico per la nomina di un nuovo presidente in Bolivia. Ma è un'intesa tutta interna all'arco parlamentare, contestata dalla parte dura della protesta che ha preso il controllo dell'insurrezione boliviana. Tanto che lo stesso leader dell'opposizione, Evo Morales, a capo del Movimento al socialismo, si è rimesso al volere della maggioranza e prima di dire l'ulima parola sulla scelta dei parlamentari aspetta il risultato delle assemblee convocate da tutte le comunità insorte in ogni angolo del Paese.

Il capo dello Stato designato si chiama Eduardo Rodriguez Velt. E' il vertice della Corte suprema boliviana. La sua carica istituzionale sarebbe la terza, in linea di successione, dopo quella dei presidenti di Senato e Camera, che però hanno preferito dimettersi preventivamente per lasciare che Rodriguez Velt, l'unico costituzionalmente abilitato a convocare nuove elezioni, venisse nominato. Rodriguez ha promesso di chiamare alle urne entro 150 giorni e di nazionalizzare l'industria petrolifera come richiesto dai manifestanti insorti proprio per ottenere il controllo pubblico dei giacimenti di gas. Gli intenti dichiarati dal neopresidente non sedano però la piazza.

I leader dell'ala dura e pura della protesta, che sembrano aver trionfato sul moderatismo del Mas guidato da Morales e che al momento gestiscono politicamente la rivolta tuttora in corso, assicurano che «la lotta continua». Roberto de la Cruz e Abel Mamani, leader popolari del sobborgo di El Alto, epicentro delle proteste, insieme al massimo dirigente della Centrale operaia boliviana (Cob), Jaime Solares, non usano mezzi termini nel bocciare il nuovo presidente. Ha dichiarato ieri Solares: «Eduardo Rodriguez è un uomo degli americani. E' stato assessore dell'ambasciata e vicepresidente della Corte dei conti boliviana durante la presidenza del tiranno Gonzalo Sanchez de Lozada. La sua designazione è frutto di consultazioni fra i partiti corrotti e le multinazionali». Rifiutano una soluzione di compromesso politico per uscire dalla crisi. E aspettano che siano le assemblee aperte a individuare le modalità per ottenere le rivendicazioni sostenute: nazionalizzazione degli idrocarburi e convocazione di una assemblea costituente. La maggior parte degli analisti considera una soluzione tampone la nomina del nuovo presidente e prevede che l'insurrezione continui. «Si tratta di una tregua fragile - ha detto il sociologo boliviano Juan Ramon Quintana - il nuovo presidente dovrebbe indire subito le elezioni presidenziali e regionali, e un referendum sull'autonomia regionale e sul processo nei confronti di Gonzalo Sanchez de Lozada (il presidente fuggito nell'ottobre del 2003, al termine di una manifestazione che aveva fatto tra i 60 e gli 80 morti). E convocare un'assemblea costituente». Un'agenda impegnativa per un capo di Stato senza base d'appoggio in un Paese in rivolta e dal quale tutti si aspettano tutto e subito. Lo stato della crisi è tale che il denominatore comune di tutti i commenti dei politologi boliviani, anche dei meno radicali, è l'esortazione ad avviare una transizione verso un nuovo modello economico che concordano tutti nel definire «di post-liberalismo».

A.      N.

 

Liberazione  14-Giugno-2005

Bolivia, insorti annunciano: la rivolta continua

 

 

Ancora tesissima la situazione n Bolivia dove un'insurrezione popolare per la nazionalizzazione del gas ha travolto la presidenza Mesa. Il suo successore ad interim Eduardo Rodríguez Veltzé ha incontrato, a El Alto, sobborgo epicentro della rivolta, un centinaio di rappresentanti degli insorti che hanno rifiutato la richiesta di smobilitazione annunciando nuove manifestazioni.

 

Liberazione  25-Giugno-2005

Viaggio nei sobborghi di el Alto. Tra miseria sociale e fermento civile: qui sono nate le insurrezioni dell'acqua e del gas

Bolivia anno zero:
la fabbrica della rivolta

 

 

Angela Nocioni
el Alto (la Paz) nostra inviata
«Quest'altopiano è la culla storica della cultura politica insurrezionale del popolo boliviano» si entusiasma Denise Arnold, ricercatrice inglese di casa a la Paz, una delle analiste più note del mondo andino. «La miscela esplosiva è nata dalla convivenza tra gli aymara, eredi dell'esercito indigeno che con l'assedio del 1781 affrontò la corona di Spagna, e i minatori espulsi da Potosì, l'ala più bellicosa del sindacalismo boliviano. Se el Alto insorge la Bolivia è in ginocchio».

Il sobborgo dei poveri ha un capitale inestimabile: la strada principale del Paese lo attraversa tagliandolo a metà. Le casupole a due piani - le prime, quelle dei venditori «por cuenta propia», le case dei quasi ricchi, con parabole alle finestre e cani da guardia al portone - sono cresciute attorno all'aeroporto internazionale e all'arteria asfaltata che da qui corre verso l'altopiano. Oruro, Potosì e Sucre a sud. Cochabamba e, soprattutto, Santa Cruz, la parte ricca del Paese, a est. Questa strada è l'asse principale della Bolivia. Controllarla vuol dire tenere in pugno la Paz. Bloccarla significa paralizzare il Paese.

Su questo tratto di asfalto malandato si sono giocate le ultime partite tra i movimenti sociali e il governo. La battaglia per l'acqua, quella per il gas, la richiesta di aumento salariale per gli insegnanti, la protesta contro l'azzeramento delle pensioni. Quando, di recente, le associazioni dei quartieri di El Alto che chiedevano l'accesso all'acqua potabile sono riuscite a mantenere blocchi stradali per settimane a due passi dall'aeroporto, il governo è stato costretto a congelare il contratto di privatizzazione con l'impresa "Aguas de Illimani", proprietà della francese "Suez environnement". «Un successo, ma una vittoria a metà» spiega Roberto de la Cruz, uno dei leader di quella rivolta. «Il governo Mesa ha fatto di tutto per evitare di cacciare la Suez. Non vuole pagare l'indennità miliardaria per la rottura del contratto. Stanno tentando la creazione di una società mista, ma noi non la vogliamo. Aguas de Illimani deve restare fuori da el Alto».

Nella città fantasma non ci sono fogne. A molte case manca la corrente elettrica, il gas e l'acqua potabile. Eppure il bacino idrico è ricco della neve che scende dalle cime delle Ande. E l'intero Paese è seduto su uno dei giacimenti di gas più grandi del mondo. Secondo solo a quelli russi.

Brasile, Argentina e Perù vivono degli idrocarburi della Bolivia. La cintura industriale di San Paolo dipende dalle forniture di la Paz. Buenos Aires d'inverno starebbe al freddo se non arrivasse il gas boliviano. Gli abitanti del Alto, però, il gas se lo devono comprare con le taniche al mercato nero. Una latta da venti litri costa tre dollari, come un filetto di carne di seconda scelta.

Il giovedì è giorno di mercato. Nelle strade sterrate intorno all'aeroporto si aggiusta di tutto e si vende qualsiasi cosa. Maiali, carta igienica, chiamate telefoniche, sigarette, galline, cd pirata. Non c'è musica. Nessuno grida. Non c'è una sola faccia bianca. Si parla un castigliano con le consonati aspirate misto a parole antiche delle lingue indigene. Vecchie indie con la bombetta in testa e i bambini legati sulla schiena scaldano zuppe di patate sedute in cerchio davanti a un portone dipinto di rosso. E' l'unica costruzione a più di due piani della zona. La sola con le pareti intonacate. La guardia all'ingresso la fa un ragazzino con pantaloni over size e felpa con cappuccio. E' uno di quelli che a el Alto c'è nato. Uno della nuova generazione, quella metropolitana, quella che la lingua indigena non la parlerà mai ma durante i blocchi stradali calza il passamontagna ed esegue gli ordini dei vecchi aymara. Apre un portoncino sgangherato e fila su per le scale per un lungo ballatoio su cui si affacciano laboratori, stanze con macchine da cucire, lavagne. E' il Centro per la promozione della donna "Gregoria Apaza". L'ha fondato quindici anni fa un gruppo di femministe di la Paz. Bianche, classe media, con il pallino della cultura indigenista. «Abbiamo iniziato lavorando con donne vittime di violenza familiare - racconta Lucia, una delle fondatrici - poi abbiamo creato laboratori di artigianato, corsi di alfabetizzazione aperti a tutti». Fuori tira un vento gelido e l'assemblea della Federazione associazioni di quartiere (Fejave, uno dei più importanti strumenti di pressione sul governo, tanto efficace da essere stata riconosciuta giuridicamente) si è riunita qui dentro. Duecento, trecento persone. Tutte sedute a terra. Parlano a turno. Sono soprattutto donne. Anziane per lo più. «Le donne hanno un ruolo fondamentale nelle mobilitazioni - spiega Lucia - Quando si tratta di organizzare una marcia, un blocco stradale, il machismo si dissolve. E' un'eredità dell'organizzazione sociale indigena. Tutta costruita sul ruolo centrale della madre. Sulle barricate ci vanno gli uomini. Ma sono quasi sempre le donne a decidere quando e dove bloccare le strade. Sono loro che organizzano la resistenza e la vigilanza». Si discute della tregua concessa al nuovo presidente Rodriguez, l'ex capo della Corte suprema succeduto a Carlos Mesa con la promessa di indire nuove elezioni. Le dimissioni di Mesa sono state annunciate ormai da tre settimane, dopo una marcia di centomila persone da el Alto su La Paz, l'assedio del Parlamento da parte di minatori armati di dinamite e la contemporanea paralisi di tutte le vie di comunicazione della Bolivia. Dopo la caduta del presidente la tensione è calata. Gli sbarramenti sono stati spostati ai margini delle strade, le occupazioni dei pozzi di gas sono state sospese, gli autobus circolano, i taxi pure. Di una chiamata alle urne, però, per ora non c'è traccia. Martedì il Congresso dovrebbe decidere se sciogliersi come chiesto dagli insorti o se iniziare un nuovo braccio di ferro. Un presidente in fuga e un intero parlamento sotto scacco nel giro di tre settimane, non sembra poco. Qui insistono che il punto non è questo. Una vecchia signora prende la parola. Trecce raccolte, la gonna a pieghe sopra ai pantaloni, il borsalino in testa e la pipa in mano. «Non siamo andati fino a la Paz per cambiare un presidente. Non siamo andati a la Paz per ottenere un'assemblea costituente. Siamo andati a la Paz per nazionalizzare il gas. Il gas è nostro. Se martedì il Congresso non si scioglie e non dichiara la nazionalizzazione dei giacimenti della Bolivia noi scenderemo tutti a la Paz».

 

 

Liberazione  28-Giugno-2005

Le radio fondate dalla Chiesa contro
i ribelli sono diventate la voce degli insorti

Bolivia in fm, va in onda
la rivolta

 

 

Angela Nocioni
el Alto (la Paz) nostra inviata
Biancheria da poveri stesa al sole, cani affamati e un manichino di pezza impiccato a un palo. Nel linguaggio muto del più grande sobborgo di la Paz, quel mucchio di stracci appeso al filo della luce è un monito ai ladri e agli stupratori. Sta per «l'uomo che ruba finisce ucciso». Ricorda ai passanti che qui non ci si fida della polizia. Si fa da sé. La chiamano «giustizia comunitaria».

La settimana scorsa un ladruncolo recidivo è stato picchiato e rinchiuso quattro giorni in un garage prima di essere rispedito in città. Decisione del Consiglio dei vicini, una sorta di solenne assemblea di quartiere. Gli è andata bene, un anno fa il sindaco di un municipio dell'altopiano è stato bruciato vivo. Rubava i soldi della comunità. Mauro, indio aymara, trent'anni e un taxi giallo che cura come una reliquia, racconta la storia e alza le spalle: «Erano dieci mesi che lo avevano denunciato per corruzione. Lui continuava a rubare e alla fine la gente si è difesa».

All'incrocio su cui dondola il manichino c'è un portone con doppio chiavistello. E' la sede di radio Pachamama, «la radio che ti ascolta» sta scritto all'entrata. Ci lavorano nove persone. Una in studio, un tecnico in cabina e sette inviati per strada. Copre l'altopiano di el Alto e l'intera città di la Paz. Due milioni di ascoltatori potenziali. Vive di pubblicità.

Una bella signora ben vestita fa cenno d'entrare e si attacca al telefono. Una complicatissima faccenda di minacce, ricatti e luce tagliata. Non è la prima volta. Ma domani il Parlamento deve decidere se dimettersi in blocco come chiedono gli insorti, a el Alto si preparano nuove proteste e la questione si fa urgente. «Nei giorni dell'insurrezione contro il presidente de Lozada, nell'ottobre del 2003, volevano far saltare in aria la radio» racconta tra un trillo e l'altro del cellulare Lucia Sauma, che di Pachamama è la direttrice. «Abbiamo fatto appena in tempo a mandare in onda la denuncia. E' sceso tutto il quartiere. I vicini hanno sigillato le strade nel raggio di un chilometro. Nessuno si è potuto avvicinare».

In Bolivia esistono più di 500 radio, senza contare quelle pirata. E' il mezzo di comunicazione più importante del Paese. Arriva dove non arriva la rete elettrica, dove non c'è televisione. Pioniera è stata la chiesa cattolica negli anni Quaranta. Fu sua l'idea della "radio educativa". La maggioranza delle emittenti le appartengono ancora. In principio erano state fondate per evangelizzare e per contrastare il pericolo rosso. Poco a poco si sono trasformate. Hanno cambiato di segno. L'esempio più evidente è la radio Pio XII, messa su per combattere il contagio comunista dalle miniere alle campagna. E' diventata la radio dei congressi dei minatori. La stessa cosa è successa con l'emittente dei preti canadesi. Alla fine, con la benedizione dei gesuiti, è nata radio Erbol, "educazione radiofonica di Bolivia", una rete di emittenti indipendenti in buona parte di lingua aymara.

Pachamama ne fa parte. «Abbiamo solo due regole: dare priorità alla voce degli esclusi e informare dal luogo in cui avvengono i fatti». Lucia racconta la strage dell'ottobre del 2003 come un incubo ricorrente. «Era sabato notte. El Alto era insorto contro il governo e il presidente aveva spedito quassù l'esercito per sgomberare l'occupazione dei depositi di carburante. I militari sparavano con le mitragliatrici. Sessantasette delle ottanta persone uccise in quelle ore furono ammazzate nelle strade che vanno da qui all'aeroporto. Nessuno stava dando la notizia. Ho mandato in strada tutti i redattori. Giravano al buio, in bicicletta. C'erano blocchi stradali ovunque. Fischiavano le pallottole. Molte persone quella notte morirono dentro casa. Un bambino ucciso mentre si affacciava alla finestra. Una nostra vicina stava in camera sua, una pallottola l'ha presa in testa. Aveva 24 anni. Era in corso un massacro e nessuno lo sapeva». «Abbiamo lavorato per giorni a microfoni aperti. Le telefonate hanno costruito la mappa di quello che stava succedendo. Così è andata per tutta la durata della rivolta. Gli altri mezzi di comunicazione non potevano salire a el Alto. La gente non glielo permetteva. E' furiosa con i giornali e con le televisioni. Eravamo gli unici a trasmettere, finché hanno cominciato a contattarci redazioni da Sucre, da Potosì. Credo di aver passato la notte a gridare: prendete il segnale, entrate in dulpex. Alla fine la catena ha coperto tutto il Paese».

Lucia fin quassù c'è venuta per la radio. E' nata e cresciuta nella zona sud di la Paz, mille metri più in basso, nella città blindata della borghesia bianca, delle ville dei deputati, dei parchi con piscina riscaldata. Parla con una rabbia sacra di quel mondo separato. «La rivolta indigena ha tolto la maschera alle oligarchie, anche a quelle di sinistra. Prima che gli aymara facessero esplodere la Paz, la Bolivia si presentava al mondo come un Paese non razzista. Noi razzisti? No, gli Stati Uniti sono razzisti, ci raccontavamo. Per noi, il privilegio assoluto sugli indigeni è assunto come naturale. Il fatto di avere in casa una domestica che vive in condizioni di semischiavitù è considerato normale, ovvio. Perché noi siamo bianchi». Strilla, quasi.

Guardandola mentre si agita sulla sedia, sembra che il complesso di colpa sia stato la fessura sottile da cui, poco a poco, sono scivolate via le scuole private, le prospettive di lavoro in Europa, l'intera esistenza preconfezionata di una figlia colta della borghesia di la Paz. «Ci minacciano, ma non ci chiudono. Questa radio esiste ancora perché esistono i minatori e gli indios di el Alto». Li difende con l'amore cieco delle passioni contrastate.

«L'informazione ufficiale mente su tutto. Sulla nazionalizzazione del gas, sulle spinte per la secessione dell'Oriente ricco boliviano. A Santa Cruz la situazione non è come dicono. Non è vero che la maggioranza vuole l'autonomia dalla capitale. Le agenzie di notizie raccontano che tutti i cruzeni sono per l'indipendenza. Falso. La maggior parte della popolazione anche lì è indigena e ha altri interessi. Ci sono i movimenti contadini, gli operai. Ma non hanno voce. Li cancellano».

Due anni fa Pachamama ha rotto il silenzio sulla strage. In queste ultime settimane sta tentando invece un ruolo di informazione e di dirigenza politica nella nuova rivolta per la nazionalizzazione del gas, di cui la Bolivia è ricchissima. Questa volta il governo non ha fatto salire l'esercito a el Alto, l'ex presidente Mesa (uomo dell'Opus dei) è stato travolto dalla piazza ma si è dimesso senza dare l'ordine di sparare sulla folla. Il presidente ad interim dice di non volere una soluzione violenta della crisi, ma di fatto non controlla più nulla. «Lo scontro ora è con i partiti tradizionali - racconta Lucia - la radio serve a fare chiarezza perché ci sono tante rivendicazioni diverse, tanti slogan allo stesso momento. Bisogna mostrare alla gente che scalpita per tornare a marciare su la Paz, quali sono le esigenze e canalizzarle. Bisogna vigilare perché non si faccia confondere dalle promesse della destra. Il rischio è alto. Molti dei leader popolari sono politicamente ingenui».

«I movimenti sociali non hanno ottenuto quello che chiedevano, ma in fondo non vogliono solo la nazionalizzazione degli idrocarburi. Nemmeno solo l'assemblea costituente. La richiesta va molto oltre. Gli indigeni chiedono chiaramente un cambiamento radicale e profondo della società. Sono il 75% della popolazione e hanno preso coscienza del loro potere. Non gli basta la rappresentanza parlamentare. Hanno bisogno di un tipo di partecipazione completamente differente. Vogliono poter decidere, ma non trovano un canale. Per qualcuno potrebbe essere l'assemblea costituente, ma la gran parte del movimento ha individuato come unico strumento l'incendio delle barricate e la paralisi dei trasporti. Gli sembra l'unico modo per ottenere qualcosa. E in effetti fino ad adesso così e stato. La lotta per la nazionalizazione degli idrocarburi li unisce, ma nel fondo stanno cercando una trasformazione strutturale. Non vogliono più promesse. Sono oltre, ma non hanno individuato né una tattica, né una richiesta strategica. Sono pronti a farsi ammazzare». Sospira. «In Bolivia è in corso molto più di una rivolta, ma potrebbe finire in una tragedia».


www.radiopachamama.com.bo per info radio@pachamamafm.com (il sito sarà aperto da lunedì prossimo)

 

 

Liberazione  29-Giugno-2005

«Nazionalizzare il gas boliviano si può. Ecco come

 

Parla Alvaro Garcia Linera, economista e sociologo,
tra i più brillanti analisti politici del paese andino

Angela Nocioni
la Paz nostra inviata
Ha senso proporre la nazionalizzazione del gas in Bolivia? O è una richiesta utile solo a mobilitare la popolazione contro il governo, irrealizzabile se non a costo di far precipitare il Paese in una crisi economica e sociale più profonda di quella in cui si trova? Alvaro Garcia Linera, economista e sociologo, uno dei più brillanti analisti politici boliviani, assicura che nazionalizzare il gas è possibile. «In Bolivia esiste una economia duale, schizofrenica. Per il 20% legata a processi moderni, industriali, in cui è impiegato il 7% dei lavoratori; Per l'80% ancorata ai modelli arcaici di una produzione familiare, semimercantile, contadina. Nel centro di la Paz trovi internet e i telefoni satellitari. A cinque chilometri vedi l'aratro del secolo XVI, insieme a gente che per produrre un paio di pantaloni usa una macchina Singer del 1920. Questo mondo costituisce la maggioranza della popolazione attiva della Bolivia. Come si modernizza un Paese così? Negli anni Ottanta si è pensato che gli investimenti stranieri potessero essere la locomotiva. E' stato un errore. Gli investimenti stranieri non hanno generato occupazione, né hanno aiutato a diversificare l'economia. Il capitale straniero entra in piccole aree, le trasforma con investimenti intensivi, si interessa delle materie prime, fondamentalmente del gas, del petrolio e dei minerali. Utilizza alta tecnologia e poco impiego e porta i profitti fuori dal Paese. Queste isole create dal capitale straniero galleggiano sopra ad un modello arcaico. Solo lo Stato potrebbe portare la Bolivia verso la modernità. Chi altri? Non gli imprenditori boliviani, che sono una realtà minuscola e che quando hanno realizzato profitti comprano macchine di lusso e vanno a Miami a mangiare da McDonald's. Gli investimenti privati nazionali sono un quarto di quelli di dieci anni fa. Questa è la Bolivia: secolo XVI nelle campagne, secolo XIX nell'altopiano e secolo XXI nell'internet point del centro di la Paz. Per uscire da quest'assurdità è necessario un nuovo ruolo dello Stato che non preveda né il socialismo, né l'utopia arcaica dell'indianismo, ma semplicemente la modernità della diversificazione dell'economia. Dove lo trova lo Stato il capitale necessario per compiere questo lavoro? In questo Paese c'è molto gas. Ma va tenuto in mani pubbliche per investirlo, per ridistribuirlo. Servono decenni, ma il gas va nazionalizzato. Non c'è alternativa».


Questo in teoria. Ma in pratica?

In pratica è assai complicato. Perché qui c'è il Brasile, proprietario del 20% della ricchezza boliviana. Sono suoi i due principali campi boliviani di gas, San Antonio e San Alberto, più grandi di quello ricchissimo di Margarita in mano alla spagnola Repsol. Sotto il suo controllo è l'intero processo di distribuzione del gas. Nelle sue mani sono i gasdotti che trasportano combustibile all'Argentina e all'area industriale di San Paolo. Sono sue le due imprese di raffinazione boliviane e anche le due grandi aziende di distribuzione di combustibile per automobili. E' ovvio che il Brasile difenderà la proprietà privata del gas boliviano. Per questo è necessaria una strategia graduale. Obiettivamente è indispensabile per consentire la sopravvivenza del Paese.


Cosa significa concretamente nazionalizzare per gradi? Da dove si comincia?

Con consorzi in cui lo Stato sia presente al 51% lasciando il 49% a investimenti stranieri mirati in grado di garantire il know how necessario all'industrializzazione del processo. Serve abilità tattica. Per esempio: grazie alla nuova legge sugli idrocarburi lo Stato è diventato proprietario del 30% di due grandi imprese petrolifere. Siamo soci minoritari. Dovremmo tentare di diventare soci maggioritari. E a quel punto il 25% del gas boliviano sarebbe in mano dello Stato. Secondo passo: Petrobras (l'impresa pubblica del petrolio brasiliano) vuole vendere le raffinerie. Bisogna comprarle. In associazione con capitale straniero, se necessario, ma mantenendo la quota maggioritaria. Ci sono imprese che hanno violato i contratti: bisogna cacciarle. Nessun tribunale internazionale ci potrebbe condannare per questo. Una nazionalizzazione immediata va bene per i discorsi di piazza, ma oltre che ridicola sarebbe suicida.


La maggior parte della popolazione chiede le elezioni. Quali poteri le stanno ritardando?

Gli interessi in gioco sono molti. Alcuni settori imprenditoriali e parte della Chiesa credono che le elezioni generali siano un modo di risolvere la polarizzazione sociale che divide la Bolivia. Ma alla destra tradizionale convocare elezioni non conviene. I vecchi e potenti partiti della destra difficilmente riuscirebbero ad uscire da elezioni anticipate con il peso politico di adesso. Non hanno una leadership, sono stati responsabili della strage dell'ottobre del 2003 e ne pagheranno le conseguenze in termini elettorali. Questo non vuol dire che la destra non abbia forza. Si sta solo trasformando. Tenterà di acquisire nuova linfa attraverso nuovi leader e nuovi piccoli partiti. Quello dell'imprenditore Merina, ad esempio. Siamo di fronte a un processo di ricambio a destra.


Che ruolo ha avuto la Centrale operaia boliviana, il grande sindacato del Paese, nell'ultima insurrezione popolare che ha portato alle dimissioni del presidente della Repubblica?

Negli anni in Bolivia c'era una sola grande organizzazione sociale che raggruppava diversi movimenti sociali, la Cob. Il suo nucleo forte era il radicamento nelle fabbriche con 4/5 mila operai, attorno si aggrupparono via via altri movimenti, studenti, contadini, commercianti. La Cob ha avuto grande capacità di intervento politico nel duello contro i militari negli anni 60 e 70. La sua forza politica l'ha mantenuta fino all'85, quando iniziarono i processi di trasformazione strutturale dell'economia nazionale. Investimenti stranieri, privatizzazioni, aperture di mercato.

Nei dieci anni dall'85 al '95 si distrugge il nucleo opearaio. Si chiudono fabbriche, si chiudono miniere, si licenziano lavoratori. La cultura operaia si estingue e sorge un nuovo tipo di proletariato, frammentato. E' il lavoro operaio a domicilio tanto diffuso nell'altopiano di el Alto. Si lavora in luoghi anonimi, per un intermediario di una fabbrica. O in casa, in quattro o cinque persone. Non ci sono sindacati, né padroni visibili. Né orario fisso, né diritti sindacali. Il nucleo della Cob scompare insieme all'operaio sindacalizzato. Alla fine di questo processo di indebolimento strutturale della condizione operaia, la Cob si è ritrovata ad avere iscritto il 9% degli operai. La Cob finisce per concentrare solo maestri, lavoratori della sanità e studenti. Per questo la Cob continua ad essere presente nelle grandi mobilitazioni, ma sono i singoli movimenti sociali che deteriminano l'esito delle lotte. I contadini, per esempio, si mobilitano senza la Cob. Noi qui chiamiamo sindacato contadino una cosa che in realtà è una comunità.


Una carrellata dei principali movimenti sociali boliviani.

Negli ultimi due anni si è assistito a un irrobustimento di molti movimenti sociali, quasi sempre su base regionale. I cocaleros, coltivatori della pianta di coca, si mobilitano attorno alla lotta contro le coltivazioni portata avanti dal governo e appoggiata dagli Stati Uniti. Poi ci sono gli indigeni della confederazione contadina di Felipe Quispe, "il Condor", che ha la sua forza concentrata a la Paz e nell'altopiano aymara. Sono i più radicali, con la maggiore forza di mobilitazione e il discorso politico più definito. Rappresentano l'emergenza di un nazionalismo indigeno aymara (25% della popolazione boliviana in cui gli indios sono il 75%). E' il primo nazionalismo indigeno dell'America latina. Poi c'è la Giunta dei vicini di el Alto, che ha 50 anni di vita, politicamente forte da tre anni, fondata da una comunità di vicini, con una composizione socioeconomica molto differente. In mezzo ci sono operai, disoccupati, studenti, piccoli commercianti. Ma l'identità forte è la condizione di vicinato. C'è una forte composizione operaia ma non c'è identità operaia. Poi esiste una miriade di altre piccole organizzazioni sparse nel Paese. Per esempio gli indigeni delle pianure, solo il 7% della popolazione indigena generale, che per esiguità numerica era soliti trattare, cercare il compromesso con le autorità e che ora si sta radicalizzando. Occupa i pozzi petroliferi. C'è la Coordinadora del agua di Cochabamba, protagonista della lotta contro l'impresa Bechtel nel 2000 e c'è un piccolo movimento di senza terra a Santa Cruz.

I più importanti movimenti al momento sono quattro: i vicini di el Alto, gli aymara dell'altopiano di Felipe Quispe, i cocaleros di Morales e la Coordinadora del agua. Poi viene la Cob.


E i minatori?

I minatori, per la maggior parte, non sono più minatori di grandi imprese, ma famiglie di lavoratori che dispongono di tecnologie da Ottocento e lavorano in cooperative. Sono 60mila. Sono quelli che arrivano con la dinamite durante le manifestazioni cruciali a la Paz. Hanno una grande forza di mobilitazione e agiscono come gruppo di rottura. C'è un elemento molto interessante di cui i minatori cooperativisti sono rivelatori: la base organizzativa economica delle principali figure sociali boliviane è la famiglia. Questo garantisce molta flessibilità e molta capacità di resistenza. Ma in termini di progetto politico è debole. Vale per tutte le organizzazioni. Un esempio: tre settimane di sciopero a el Alto, il governo sotto scacco. Le grandi centrali di immagazzinamento del combustibile nelle mani degli insorti. Ma quando c'è da distribuire il gas manca la capacità organizzativa andata persa insieme alla cultura di lotta degli operai delle grande imprese, come si fa a pensare a un processo tanto complesso come la distribuzione del gas a 800mila persone? La mobilitazione è stata sospesa per questo.


Si sono dovuti fermare perché non hanno mai affrontato la questione dell'alternativa di potere.

Il radicalismo boliviano è caratterizzato da ondate di mobilitazioni. Prima il 2000 a Cochabamba. Nel 2001 insorge l'altopiano. Nel 2003 si ribella la Paz. Nel 2005 ancora la Paz e l'altipiano. E' un marea che va e viene. In quest'ultima ondata la questione del potere politico è stata posta, perché chiedere la nazionalizzazione del gas obbliga a pensare a chi deve nazionalizzare.


Il presidente Mesa si è dimesso senza far intervenire l'esercito a reprimere la rivolta. Lo ha fatto perché voleva evitare un'altra strage o temeva che i militari non obbedissero?

L'esercito continua ad essere un potere, anche se non ha più il ruolo decisivo giocato fino a venti anni fa. Negli ultimi tempi ha mantenuto un'apparente fedeltà alla Costituzione. Ogni volta che il governo gli ha chiesto di andare in strada ha esibito la sua ferocia. Ha ucciso anche quando poteva non farlo. Oggi i militari temporeggiano perché temono di essere processati. Sanno che non sono tempi di dittatura. Questo non vuol dire che non stiano fremendo per intervenire nella crisi. La destra non li ha saputi usare. Ha giocato l'unico argomento che non doveva: la secessione di Santa Cruz. Qui siamo in America latina e l'esercito è nazionalista.

C'è una certa simpatia nell'esercito verso la richiesta di nazionalizzazione. Qui, chi per primo nazionalizzò, nel '58, fu un militare. L'atteggiamento generale dell'ambiente militare verso questa richiesta rimane freddo perché sono gli indigeni ad avanzarla. La maggior parte dell'esercito li considera esseri non umani che andrebbero presi a calci finché non si decidono a parlare in castigliano. La Bolivia è terribilmente razzista. C'è un apartheid di fatto.


Santa Cruz si prepara davvero la secessione?

Per adesso la richiesta di autonomia è soprattutto una strategia di contenimento rispetto alle richieste di nazionalizzazione degli idrocarburi. Non è escluso che precipiti verso una secessione. Questo equivarrebbe a una dichiarazione di guerra civile.

 

 

 

Liberazione 02 luglio 2005

 

Bolivia, tra i minatori-bambini
di Llallagua, la città fantasma

Dalle privatizzazioni al fallimento delle cooperative

 

 

Angela Nocioni
nostra inviata - Llallagua (Potosì)
Tetti rotti e porte tarlate. Bambini con sguardi da vecchi, donne rinsecchite, ombre che scivolano lungo i muri. La terra è una spugna che trasuda una polvere sottile, aspra, irrespirabile. Oltre i resti di un campo da pallone invaso dalle erbacce, la bocca spalancata della miniera.

Benvenuti a Llallagua, bisognerebbe scrivere a questo punto. Ma nessuno è benvenuto in questa città ai margini del tempo, intrisa di un dolore che stordisce. Qui, arrampicati sull'altopiano di Potosì, a 3.600 metri sul livello del mare, tra baracche di miseria e pochi arbusti, abitano 8mila poveri cristi. Minatori sopravvissuti a stento alla chiusura della grande impresa pubblica di estrazione dell'argento e dello stagno. Bambini ovunque. Bambini con i piedi a mollo in un'acqua putrida color cenere. Bambini con le mani nude nell'acido. Bambini appesi a arnesi arrugginiti, giganteschi, pesantissimi. Sono loro la vera forza lavoro della miniera. Sono loro che garantiscono tutte le fasi del processo di separazione del minerale dalla roccia. Navigano nel labirinto buio dentro la montagna senza inciampare, senza cadere, con una dimensione e un tempo distinti, come pipistrelli. Hanno sette, otto, dodici, tredici anni. Qualcuno va a scuola, qualcuno no. Lavorano chi quattro, chi sei, chi nove ore al giorno. Hanno volti scolpiti come pietre. Parlano a voce bassa. Non covano rabbia. Sono stremati. Dalla fatica e dal vento, che soffia costante e gelido da est.

Questa città fantasma è quello che resta di Potosì, la terra mitica dalle cui viscere uscì l'argento che finanziò la Corona spagnola per tutta l'epoca della colonia. La leggenda racconta che, molto tempo prima della conquista, l'indio Huallpa si sia fermato a dormire in una grotta su queste alture. Accese un fuoco e si trovò di fronte a un'enorme vena d'argento illuminata dal riverbero della fiamma sulla parete della montagna.

Non sarà andata così, ma sulla ricchezza incalcolabile del sottosuolo di quest'arida regione della Bolivia si è costruita buona parte della potenza della Spagna coloniale.

Nel 1560 qui intorno vivevano 160mila persone. Madrid nella stessa epoca non aveva più di 5mila abitanti. L'argento di Potosì sembrava infinito. Si calcola che ne sia stata tirata fuori una massa pura pari a 46mila tonnellate. Tramontata l'epoca dell'argento, cominciò quella dello stagno. Dell'era mitica non c'è più traccia. Dei 700mila abitanti attuali dell'altopiano, il 70% è povero. Finita l'era del colonialismo classico arrivò la Patino mines, industria privata che ha gestito le miniere fino al 1952. Fu allora che i militari decisero di nazionalizzare le tre grandi compagnie minerarie proprietarie dei due terzi dei giacimenti. Il resto rimase in mani private, frammentato in piccole e medie imprese di estrazione.

Nacque così la Comibol, corporazione miniere della Bolivia. E' durata trentatré anni. Nel 1985 l'ondata di privatizzazioni forzate dell'intero settore pubblico boliviano la polverizzò. Licenziati 30mila minatori. Un'odissea di stracci in fuga dall'altopiano verso la Paz. Migrazione forzata. Centri urbani scomparsi. Non se ne sono andati tutti. Alcuni sono rimasti. E hanno formato le cooperative minerarie. 526 cooperative in tutto il Paese, raggruppate in una federazione, Fencomin. Oggi raggruppa il 73% di tutti i minatori boliviani. Le cooperative dovevano essere un modello di autogestione applicata al lavoro più duro del mondo. Invece sono un modello di sfruttamento. Padri che sfruttano i figli. Madri che partoriscono e tornano a lavorare in miniera. Un orrore chiuso a chiave nel modello ipocrita della famiglia povera in cui tutti si danno un mano per sopravvivere.

Roberto, 12 anni, ha le mani deformate dal "quimbalete". Serve a trasformare le pietre in polvere. E' una specie di mezza luna ripiena di cemento e rivestita in ferro. Con due grandi manici alle estremità. Si inclina da una parte e poi dall'altra. Come una giostra. «Lo maneggiamo io e mio fratello mentre papà è dentro la miniera». Una bambina infila le pietre sotto la parte tondeggiante della mezza luna. Ci passano sopra per sei, sette ore. Inclinano verso destra, poi verso sinistra. Così, fino al tramonto. Pesa sessanta, settanta chili. A Roberto gli arriva all'altezza degli occhi. Deve arrampicarsi su un grande sasso per afferrare i manici. Suo fratello è un po' più alto. Sta dall'altra parte e non parla. Un lampo negli occhi che sembra un sorriso, ogni tanto.

«Papà, voy a bublear». Il "bublear" consiste nel separare il minerale quasi pulito dal resto. L'operazione viene realizzata con un cono di cemento, una cannella in fondo e una piccola pala. A piedi nudi nell'acqua i bambini infilano il materiale processato dentro la cannella, muovono la pala di un moto costante, finché il minerale, più pesante, si separa cadendo in basso. Il resto lo fa lo un reattivo chimico in fiale. «Lei dice che è pericoloso, ma io non ho paura» dice René, tredici anni, indicando Claudia, volontaria dell'ong Cepramin che da quindici anni cerca di sottrarre i bambini alla miniera. Il reattivo brucia la pelle. E' altamente tossico. Avvelena più lentamente della silicosi, ma è altrettanto letale.

Llallagua è lo specchio torbido del fallimento delle cooperative. I minatori producono con metodi arcaici. Senza tecnologie, con attrezzi da museo. E poi vendono a prezzi stracciati, senza nessuna forza di contrattazione, alle imprese private. Si chiamano cooperativisti e in tutto il Paese sono 60mila. Quando esisteva l'impresa statale, 30mila addetti, e l'impresa media, altri trentamila, esistevano comunque i cooperativisti, ma erano una minoranza: 8, 10mila. E' andata così fino alla metà degli anni 80. Quando sparisce l'industria statale e l'industria privata si frammenta in microimprese, si moltiplicano i cooperativisti.

Negli ultimi quattro anni hanno assunto peso politico, ma non gli è servito a garantirsi quasi nulla. Hanno una grande forza di mobilitazione e agiscono come gruppo di rottura. Sono loro che nei momenti decisivi delle innumerevoli insurrezioni boliviane arrivano a la Paz con i candelotti di dinamite. Quando marciano sono disciplinatissimi.

Nell'ottobre 2003, quando la rivolta travolse la presidenza de Lozada e l'esercitò sparò sulla folla uccidendo ottanta persone, arrivarono in carovana a la Paz e parteciparono agli scontri degli ultimi due giorni. Furono determinanti nel braccio di ferro con il governo. Nelle ultime proteste per la nazionalizzazione del gas sono tornati e hanno accerchiato il Parlamento. Deputati e senatori, per sfuggire alla pressione, hanno convocato una seduta straordinaria a Sucre. E i cooperativisti sono andati fin lì. Incolonnati, a volto coperto, con la dinamite in mano. Uno di loro è stato ucciso dalla polizia. Di solito si muovono su rivendicazioni di settore. Chiedono crediti allo Stato e zone di produzione per non essere costretti a occupare le miniere dimesse. Ma in momenti straordinari partecipano alle mobilitazioni convocate o dagli aymara di el Alto o dai contadini.

La grande impresa della miniera boliviana è sopravvissuta, ma in pochissime piccole aree. Ne è un esempio San Cristobal, il terzo giacimento d'argento più grande del mondo e in assoluto la maggiore riserva di zinco a cielo aperto. E' in mano alla Apex Siver che da lì ricava una media di 40mila tonnellate al giorno. Tradotto in altri termini, vuol dire che tra 17 anni San Cristobal sarà scomparso, svuotato dall'interno.

Romina ha 13 anni. Bella. Orfana di padre. Tra i bambini di Llallagua sembra la più miserabile. E' molto magra. Ha le braccia sottili. Non ce la fa a spostare le pietre, figurarsi a schiacciarle con la mezzaluna di ferro. All'alba arriva insieme alla madre con cestini di pane e bibite gassate. Sta ferma davanti alla bocca della mina tutto il giorno. Aspetta che agli uomini venga fame o sete. «Qualche volta escono ubriachi - racconta a occhi bassi - Ci vengono a cercare. Mia madre dice che quando li sento ridere devo correre».

 

 

 

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista