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Liberazione
02-Giugno-2005
Bolivia, proteste
a La Paz per la legge sull'energia |
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Sono degenerate in
violenze le proteste dei lavoratori dell'industria boliviana
dell'energia, che ieri sono arrivati in forze nella capitale La Paz
per invocare la nazionalizzazione del settore, non recepita dalla
nuova legge. Circa 700mila persone hanno manifestato per le strade
della capitale ed è intervenuta la polizia antisommossa.
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Liberazione
04-Giugno-2005
Bolivia, Mesa
concede assemblea costituente |
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L'annuncio da
parte del presidente Carlos Mesa di una Assemblea Costituente e del
referendum sulle autonomie, fissato per il 16 ottobre e temuto per
la possibilità che la ricca regione di Santa Cruz ne approfitti per
dichiararsi indipendente, non placa le proteste in Bolivia. Ieri
manifestazioni hanno paralizzato l'impianto di distribuzione di
benzina più grande di La Paz.
Liberazione 05-Giugno-2005
Bolivia
- La Paz isolata. Mancano cibo e benzina. Tensioni
nell'esercito |
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La
convocazione di un referendum sull'autonomia della ricca
regione di Santa Cruz, che chiede l'indipendenza da la Paz, fa
crescere la tensione in Bolivia. La decisione del presidente è
contestata dai sindacati e dalle organizzazioni indigene. Dopo
13 giorni di sciopero e di blocchi stradali, nella capitale
cominciano a scarseggiare benzina e generi alimentari. Ieri un
gruppo di militari ritirati ha rivolto un appello all'esercito
perché si decida ad intervenire. Alcuni dimostranti, fra cui
esponenti della Centrale operaia boliviana (Cob) hanno
manifestato davanti alla sede del comando delle forze armate
per chiedere al generale Marcelo Antezana di mettersi alla
testa di un governo civico-militare. L'aeroporto di La Paz è
chiuso. A Santa Cruz de la Sierra decine di pozzi di petrolio
risultano occupati. La circolazione è paralizzata in tutto il
Paese dai blocchi stradali di protesta. La Chiesa cattolica ha
accettato la proposta di intervenire come mediatrice avanzata
dal presidente Mesa. L'annuncio è stato dato dal segretario
della Conferenza episcopale, mons. Jesus Juarez. Le
organizzazioni sociali, compreso il Mas (il principale partito
dell'opposizione), ribadiscono la richiesta di elezioni
anticipate. La Cob continua a chiedere la nazionalizzazione di
tutti i giacimenti. Il Comitato civico di Santa Cruz, regista
dei tentativi di secessione della regione, annuncia che non ha
intenzione di aspettare il referendum del 16 ottobre. Ne ha
proclamato uno per suo conto per il 12 agosto.
il manifesto - 07 Giugno 2005
Bolivia in
rivolta, ore contate per Mesa
A La Paz e in
tutto il paese la mobilitazione popolare rende sempre più
probabili le dimissioni del presidente
Il gas La nazionalizzazione degli
idrocarburi è la richiesta irrinunciabile. La mediazione della
chiesa quasi fallita. La ricca Santa Cruz assediata dai
campesinos indigeni
PABLO
STEFANONI
LA PAZ
Le ore del presidente Carlos Mesa sembrano
contate. Le mobilitazioni popolari e il blocco delle strade
per chiedere l'assemblea costituente e la nazionalizzazione
degli idrocarburi sono diventate ancor più massicce ieri in
tutta la Bolivia, mentre la chiesa tentava una difficile
mediazione basata sulla convocazione di elezioni anticipate
rispetto al 2007. A questa proposta si è detto favorevole
anche Evo Morales, deputato del Mas e leader cocalero:
«Mesa e i presidenti di Camera e senato, Mario Cossio e
Hormando Vaca Diez, devono presentare le loro dimissioni nelle
mani del cardinale Julio Terrazas», ha detto, aggiungendo che
lo Stato «deve prendere possesso effettivo dei pozzi di gas e
petrolio e nazionalizzzare di fatto gli idrocarburi».
La rinuncia dei leader del parlamento è un
passo necessario in quanto la legislazione boliviana non
consente l'anticipo del voto, per cui questa ipotesi implica
che se ne vadano coloro che si trovano nell'immediata linea di
successione costituzionale così che, alla fine, il presidente
della Corte suprema possa convocare nuove elezioni. Ma sono in
molti a chiedere che se ne vadano anche tutti i parlamentari,
che sono stati eletti prima della «guerra del gas»
dell'ottobre 2003 che portò alle dimissioni del presidente
Sanchez de Lozada e non rappresentano più il quadro politico
del paese.
Dalla mattina di ieri, da El Alto, la
città che domina La Paz, decine di migliaia di abitanti e
lavoratori - che da due settimane sono in sciopero generale
per esigere la nazionalizzazione del gas - sono scesi un'altra
volta verso la sede del governo, in una delle mobilitazioni
più forti dall'inizio della crisi. Gli alteños hanno
mantenuto il blocco dell'impianto di Senkata, intorno a cui
hanno scavato buche per impedire l'uscita dei camion cisterna,
ciò che sta provocando scarsità di combustibile alla sede del
governo. Intanto stanno aumentando i prezzi dei prodotti di
prima necessità a causa della mancanza di rifornimenti. Nei
quartieri popolari di El Alto i dirigenti dei comitati di
sciopero cominciano a prendere coscienza dellla forza messa in
campo da questo enorme agglomerato indigeno situato a 4000
metri di altitudine e contiguo a La Paz, mentre nei dibattiti
si comincia a parlare della questione del potere. E ora?, era
la domanda ricorrente fra gli abitanti che si apprestavano a
scendere nella capitale.
Nella Plaza de los Heroes, in
centro, si è tenuto un'assemblea popolare per decidere sui
prossimi passi. «Cosa vogliamo, compagni?», chiedeva il leader
della Central Obrera Boliviana, Jaime Solares, e la
moltitudine rispondeva con un assordante: «La
nazionalizzazione». «Loro continuano a usare ogni tipo
di machiavellismo per tenersi le nostre risorse e continuare a
beneficiare le compagnie transnazionali, ma noi non lo
permetteremo. Vogliamo recuperare tutte le risorse naturali
boliviane e la mobilitazione continuerà», ci ha detto il
leader campesino Gualberto Choque. Intanto i
coltivatori di coca che seguono Morales - uno dei movimenti
sociali più coesi del paese - hanno anch'essi cominciato il
blocco della strategica strada Cochabamba-Santa Cruz, nella
Bolivia centrale. Una ventina di camion sono partiti
dall'altipiano diretti a La Paz trasportando 2000 indigeni
ayamara della provincia radicale di Aroma: «Stiamo
lottando perché i nostri figli abbiano un pezzo di pane, se
sarà necessario distruggeremo la Plaza Murillo», il
cuore della capitale dove si trovano le sedi del potere
politico.
I blocchi stradali sono arrivati fino a
Santa Cruz, nell'oriente ricco e «bianco», impegnata più che
mai nella sua offensiva autonomista. La città è praticamente
accerchiata dai campesinos che si oppongono alle
direttive del Comité civico cruceño, in cui vedono la
mano dell'oligarchia imprenditoriale. I campesinos
minacciano di occupare i pozzi petroliferi della zona e la
tensione crescente rende probabili scontri cruenti fra i
campesinos e gli indigeni da un lato - molti di loro
immigrati dell'occidente andino del paese - e le forze d'urto
del Comité civico, come la Union Juvenil Cruceñista,
dall'altro. Ieri pomeriggio, questo gruppo paramalitare e
razzista ha cercato di impedire l'ingresso in città dei
campesinos, così come aveva fatto nei giorni precedenti
quando aveva provocato diversi feriti. Le élite di questo
dipartimento hanno convocato unilateralmente un referendum
autonomista per il 12 agosto, un passo a cui si oppongono con
forza i movimenti sociali dell'occidente che vi scorgono un
intento secessionista delle oligarchie locali per avere il
controllo delle risorse naturali, prevalentemente gas,
petrolio e terre. Uno dei nodi della crisi attuale è proprio
la difficoltà di articolare la visione «liberista»
dell'oligarchia imprenditoriale dell'oriente con la visione «nazionalista»
delle maggioranza indigena e popolare dell'occidente.
Nel pomeriggio di ieri circolavano
insistenti voci di dimissioni di Mesa e di elezioni
anticipate. Lo stesso presidente del Congresso, Vaca Diez, ha
rafforzato queste voci con le sue dichiarazioni alla Bbc
secondo cui «Carlos Mesa è pronto a rinunciare». Da parte sua
il parlamento, oggetto della rabbia popolare, ha cessato i
lavori fino a nuovo ordine, mentre i manifestanti si
accingevano ad «accerchiare» la Plaza Murillo di La
Paz.«E' chiaro che siamo arrivati al momento del collasso
dello Stato e ormai non basta più nemmeno l'uscita di scena di
Mesa. Ci vuole l'assemblea costituente», ci ha detto
l'analista politica Alvaro Garcia Linera. Il vero nodo è come
«disattivare» la richiesta di nazionalizzazione del gas, che
ogni giorno prende più forza.
Liberazione 08-giugno-2005
Bolivia,
esplode la rivolta del gas |
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Il
presidente Mesa si dimette. Esercito in strada a la Paz.
Violenti scontri |
di
Angela Nocioni
Vuoto di potere in Bolivia.
Il presidente della
Repubblica si è dimesso ma nessuno ha preso ad interim
il suo incarico.
La Paz è isolata. Manca
la benzina e il cibo scarseggia. Il Parlamento è
assediato da centomila minatori armati di candelotti di
dinamite. Reparti militari sono schierati in tutta la
città. Blocchi stradali paralizzano i trasporti e
impediscono i rifornimenti. L'esercito scalpita, la
polizia è in rivolta, ma non si sa bene a chi entrambi
rispondano in questo momento. Se
qualcuno decidesse di aprire il fuoco sulla folla,
sarebbe impossibile ricostruire la catena di comando. In
un Paese che conta duecento golpe militari nei suoi
centottanta anni di storia repubblicana e dove, l'ultima
volta che un presidente è stato costretto alle
dimissioni da un'insurrezione popolare (ottobre 2003) la
polizia ha sparato uccidendo ottanta persone, le
dimissioni del capo dello Stato possono aprire la strada
tanto alla convocazione di un'assemblea costituente
quanto a una soluzione militare.
La
crisi che da due mesi tiene la Bolivia sospesa sull'orlo
dell'esplosione, ha avuto nelle ultime ore un'improvvisa
accelerazione con la decisione del presidente della
Repubblica Carlos Mesa di rassegnare le dimissioni per
la seconda volta dal 7 marzo scorso (il Congresso,
allora, le respinse). A far crollare il suo traballante
incarico sono state due spinte, uguali e contrarie, che
si contendono l'ultima parola sull'esito della crisi.
Da una
parte la rivolta dell'intero arco della sinistra sociale
e politica boliviana - movimento indigeno, operai,
minatori, insegnanti, la Cob (la centrale sindacale
dalla più lunga e radicale tradizione di lotta del
continente) e il Movimento al socialismo (il principale
partito dell'opposizione) - che chiede la
nazionalizzazione dei giacimenti di idrocarburi e non
trova un accordo interno sull'opportunità di convocare
nuove elezioni.
Dall'altra, le
rivendicazioni secessioniste della ricca regione di
Santa Cruz, dove è concentrato l'80%
delle riserve di gas. Il progetto degli imprenditori
cruzeñi è la creazione di un minuscolo paradiso fiscale
arrampicato sulle Ande, un mondo separato senza tasse,
senza poveri e soprattutto senza royalities per le
multinazionali che vendono all'estero il gas estratto
dai giacimenti boliviani.
Contano di poter
approfittare della caduta di Mesa per poter formalizzare
una dichiarazione d'indipendenza. Santa
Cruz è stata il feudo del dittatore Hugo Banzer ed è
tradizionalmente fedele alla destra del Movimiento
nacionalista revolucionario e del suo ultimo presidente,
Gonzalo Sanchez de Lozada, attualmente rifugiato negli
Stati Uniti dopo la rivolta del 2003 nata anche allora
dall'annuncio dell'aumento del prezzo del carburante (de
Lozada siede ora alla direzione dell'Istituto per le
Americhe, insieme a rappresentanti della Enron, della
British Petroleum e della Shell, che da tempo appoggiano
l'indipendenza del distretto di Santa Cruz).
Finora il presidente Mesa, stretto tra le rivendicazioni
indipendentiste e l'insurrezione popolare che incendia a
intervalli regolari le strade di la Paz, si era limitato
a temporeggiare. L'altra sera è comparso in lacrime
davanti alle telecamere per dire: "Sono arrivato fin
qui. Oltre non posso andare". Venerdì scorso la chiesa
cattolica e il cardinale Julio Terraza avevano avviato
un'opera di mediazione. Non risulta che tra le mosse
suggerite a Mesa comparissero le sue dimissioni. I
manifestanti sostengono che il suo gesto serve a
spianare la strada alla secessione di Santa Cruz.
Il
presidente del Senato, Hormando Vaca Diez, primo nella
linea di successione al capo dello stato, assicura che
"non esiste alcun vuoto di potere" perché "il Congresso
prenderà le sue decisioni". Ma il Congresso non riesce a
discutere di nulla e si divide persino sull'opportunità
di affrontare la questione della successione.
Tanto che lo stesso
presidente del Senato ammette "l'impossibilità di
trovare un luogo dove i 157 deputati e senatori
boliviani possano riunirsi senza pressioni".
Mesa
era il vicepresidente del governo di de Lozada. Ha preso
il suo posto dopo la rivolta dell'ottobre 2003 ma la sua
nomina non è mai passata al vaglio delle urne. Subito
dopo essersi insediato ha promesso la convocazione di un
referendum sulla
nazionalizzazione del gas. Il referendum
si è svolto il 18 luglio scorso. Ma tra le domande poste
il quesito sulla proprietà degli idrocarburi non c'era.
Principale sponsor di quella consultazione è stata la
Total (una delle imprese che gestiscono l'export del
gas), che ha direttamente contrattato i tecnici chiamati
a confezionare i quesiti (costo dell'operazione: 56mila
dollari) in modo da tutelare, a prescindere dall'esito
del voto, gli interessi delle multinazionali degli
idrocarburi.
Il
Movimento al socialismo (Mas) ha definito le dimissioni
del presidente "accettabili solo a patto che siano
seguite dalla convocazione di elezioni" su cui chiama a
garantire "il presidente della Corte suprema, Eduardo
Rodriguez".
La
chiesa cattolica conferma che continuerà "a lavorare
alla ricerca di un'agenda minima per consolidare il
dialogo", ma buona parte degli insorti rifiuta la
mediazione perché sospetta l'intenzione di assecondare
gli interessi degli imprenditori di Santa Cruz.
Nuove colonne di contadini e di minatori marciavano ieri
sera verso la Paz. Plaza Murillo, sede del governo e del
Congresso nazionale, isolata dalla polizia, è stata per
tutto il giorno teatro di violenti scontri tra
manifestanti e agenti.
Da Fort
Lauderdale, in Florida, dove è riunita l'assemblea
dell'Organizzazione degli stati americani, in molti
fremono per un intervento esterno. Mossa impossibile, a
meno di violare la sovranità di uno Stato membro, senza
un'esplicita richiesta in tal senso delle autorità
boliviane. Che per ora tacciono. L'unica eventualità in
cui automaticamente il Consiglio permanente o il
segretario generale dell'Osa potrebbero intervenire
senza richiesta sarebbe nel caso di una rottura
dell'ordine costituzionale.
Durante l'assemblea di
Fort Lauderdale, a cui gli Stati Uniti prendono parte,
Washington ha posto con forza la questione di un
possibile intervento in paesi dell'America latina "dove
sia in pericolo la democrazia".
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www.repubblica.it
Secondo il presidente dimissionario,
solo il voto anticipato
può salvare il paese dal durissimo scontro con le masse
di minatori
Bolivia, appello di Mesa al
Parlamento
"Elezioni subito, o sarà bagno di
sangue"
LA PAZ - Solo le elezioni anticipate possono
salvare la Bolivia dalla guerra civile e da un bagno di
sangue. Ne è convinto il presidente dimissionario Carlos
Mesa che si è appellato ai capi di Camera e Senato
chiedendogli di rinunciare alla procedura di nomina di
un suo successore per via parlamentare chiamando invece
immediatamente i cittadini alle urne.
La Bolivia da settimane è teatro di violenti scontri di
piazza tra manifestanti e forze dell'ordine. Ieri,
all'indomani della presentazione delle nuove dimissioni
da parte dello stesso Mesa, decine di migliaia tra
minatori e contadini sono tornati a riversarsi nelle vie
della capitale, La Paz, per reclamare riforme
costituzionali che accordino alla maggioranza india una
più ampia rappresentanza nelle istituzioni e,
soprattutto, la nazionalizzazione delle risorse naturali,
in particolare del gas, il vero nodo all'origine della
crisi che già era costato il posto al precedente
presidente Gonzalo Sanchez de Losada, costretto alla
fuga nell'ottobre 2003 in seguito alla durissima
repressione dei moti popolari.
La mossa di Mesa, che si è rivolto ai connazionali in un
drammatico discorso alla Nazione trasmesso in serata
dalla televisione, è stata provocata dalla decisione del
presidente della Camera dei Deputati nonché dell'intero
Congresso, Hormando Vaca Diez, di convocare per domani
una riunione di entrambi i rami dell'assemblea per
procedere all'eventuale accettazione o meno della
rinuncia di Mesa, la seconda dopo quella dello scorso
marzo, che fu peraltro respinta dai parlamentari.
Secondo la Costituzione boliviana, se questa volta
l'esito della votazione fosse opposto, proprio Vaca Diez
dovrebbe assumere la più alta carica istituzionale; le
opposizioni hanno però già avvertito che un'ipotesi del
genere sarebbe inaccettabile, e che in tal caso le
manifestazioni proseguirebbero a oltranza.
"Il nostro Paese non può continuare a trastullarsi con
la possibilità di andare in mille pezzi - ha messo in
guardia il presidente dimissionario - L'unica soluzione
per la Bolivia consiste nell'avviare subito l'iter
elettorale". "La mia - ha aggiunto - è l'esortazione di
un presidente che lascia l'incarico, è l'appello rivolto
a un Paese che si trova sull'orlo della guerra civile, e
con il quale sarebbe insensato giocare proprio mentre è
a un passo dall'incendio. E' giunto il momento di
smetterla di scommettere su una simile follia. Io sto
cercando di evitare un bagno di sangue".
(8 giugno 2005)
Liberazione 09-Giugno-2005
Precipita la crisi a la Paz. Il Parlamento si riunisce
oggi lontano dalla capitale, assediata dalla protesta.
Il presidente dimissionario e il leader dell'opposizione:
rischio guerra civile |
Rivolta del gas in Bolivia,
gli insorti occupano i giacimenti |
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Un
presidente dimissionario che grida al pericolo di «una
guerra civile». Un parlamento che non riesce a riunirsi
per nominare il successore. Un intero Paese paralizzato
da blocchi stradali, barricate e dalle cariche di
dinamite esplose nei cortei. I campi petroliferi
dell'impresa spagnola Repsol occupati dai contadini a
Santa Cruz.
Un
terremoto politico è in corso in Bolivia. Le dimissioni
del presidente Mesa non hanno placato la rivolta
popolare che chiede la nazionalizzazione dei giacimenti
di gas, principale risorsa del Paese più povero
dell'America del sud.
I
minatori, l'ala radicale della protesta, sono in marcia
verso Sucre, dove oggi si riunisce in cattività il
Congresso. Colonne infinite di uomini armati di bastoni
e candelotti di esplosivo sono in cammino dalle miniere
di Potosì in direzione degli altopiani vicini alla
capitale. I deputati hanno abbandonato la sede del
Parlamento a la Paz, circondata dagli insorti, ma la
decisione di trasferire a novecento chilometri di
distanza i lavori parlamentari per sfuggire alla
pressione della piazza non impedirà l'assedio dei
minatori, decisi ad evitare che il presidente del Senato,
Hormando Vaca Diez, succeda a Carlos Mesa alla
presidenza della repubblica. Vaca Diez è considerato
legato a doppio filo agli imprenditori della ricca
regione di Santa Cruz che chiedono di costituirsi in
Stato autonomo.
Secondo la Costituzione, Hormando Vaca Diez, è il primo
in linea di successione, seguito dal presidente della
camera dei deputati, Mario Cossio, e dal presidente
della Corte suprema, Eduardo Rodriguez. Quest'ultimo è
il solo a poter convocare elezioni anticipate, a
condizione che nel frattempo gli altri due abbiano
rinunciato. Ma in Bolivia non si respira aria da accordo
politico per una tregua. Il rischio di una soluzione
militare della crisi rimane alto. La polizia è sul piede
di guerra. L'esercito è schierato nelle principali
strade della capitale.
Per
l'intera giornata la Paz è tornata ad essere un campo di
battaglia tra manifestanti e agenti. E' ancora isolata.
Si circola solo a piedi. La benzina è finita ormai da
giorni. Le ambulanze degli ospedali non sono più in
grado di muoversi. I trasporti sono bloccati in tutto il
Paese. Per permettere il rifornimento di generi
alimentari e carburante, le organizzazioni sociali del
gigantesco sobborgo di El Alto (un milione di persone
arrampicate sulle baraccopoli sopra la Paz), epicentro
della rivolta, si sono detti pronti a trattare. Ma si
tratta di una tregua momentanea, facilitata
dall'auspicio pubblico fatto da Carlos Mesa per la
convocazione di elezioni anticipate.
A
quest'inizio di negoziazioni hanno lavorato Abel Mamani,
responsabile dei comitati di base di El Alto, e
l'agguerrito Jaime Solares, massimo dirigente della
Centrale operaia boliviana (Cob) che tenta di scalzare
Evo Morales, capo del principale partito d'opposizione (il
Mas) dal ruolo di leader politico degli insorti. Il Mas,
sul cui discreto appoggio Carlos Mesa ha contato ogni
volta che negli ultimi diciotto mesi si è trovato a un
passo dalle dimissioni, fatica a mantenere il controllo
della rivolta. Sulle barricate in fiamme Morales è ormai
molto meno ascoltato dei dirigenti sindacali della Cob,
i duri e puri della protesta.
Victor Mena, segretario esecutivo della Federazione
delle cooperative minerarie della Bolivia (Fcmb), ha
dichiarato al quotidiano La Prensa che la sua
organizzazione «non accetta assolutamente Vaca Diez come
presidente e vuole invece che la carica sia assunta dal
titolare della Corte suprema, Eduardo Rodriguez, per
indire elezioni anticipate». Vaca Diez fa parte del
partito Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria)
che era alleato dell'ex presidente boliviano Gonzalo
Sanchez de Lozada, il cui governo cadde dopo una
sanguinosa repressione militare nell'ottobre del 2003
per essere poi sostituito con l'esecutivo guidato da
Mesa.
A.
N. |
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Liberazione
10-Giugno-2005
Colonne di persone
in marcia dalla miniere boliviane fino a Sucre per bloccare i lavori
parlamentari ed impedire che la crisi sia risolta senza la
convocazione di nuove elezioni. L'esercito: pronti ad intervenire
Bolivia, minatori
assediano il Parlamento |
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Migliaia di
minatori boliviani hanno assediato ieri la città di Sucre, dove era
stata convocata la riunione del Parlamento per nominare un
successore del presidente Carlos Mesa, dimessosi lunedì.
L'intenzione dichiarata dei manifestanti è bloccare i lavori
parlamentari. I minatori, insieme alla stragrande maggioranza della
popolazione insorta per chiedere la nazionalizzazione dei giacimenti
di gas del Paese (la principale risorsa boliviana) esigono che a
prendere il posto di Mesa sia il presidente della Corte Suprema,
Eduardo Rodriguez Veltzè, che secondo la Costituzione è il terzo in
linea di successione alla presidenza dopo i presidenti di Senato (Hormando
Vaca Diez) e Camera (Mario Cossio) e che è l'unico a poter
anticipare la data delle elezioni.
L'ammiraglio
Luis Aranda, capo di stato maggiore delle forze armate boliviane, ha
avvisato che i militari «sosterranno ogni presidente legittimamente
eletto». Lo ha fatto in un discorso in tv, durante il quale ha
invitato i parlamentari a rimanere fedeli alla Costituzione e a
prestare ascolto alla «volontà popolare» nella scelta del succesore
del dimissionario Carlos Mesa. «Rispetteremo le decisioni del
Parlamento e chiediamo a tutte le parti in causa in questo conflitto
di rimanere sereni in modo da arrivare ad una vera soluzione: fino a
che non vi saranno violazioni del sistema democratico e
costituzionale, continueremo a garantire la sicurezza di questo
processo» ha detto Aranda, alludendo alla possibilità di un
intervento militare. Evo Morales, leader del principale partito di
opposizione, il Movimento per il Socialismo, ha chiesto le
dimissioni dei presidenti di Camera e Senato in modo che il
presidente della Corte Suprema possa assumere l'interim e convocare
le elezioni.
Intanto il
dimissionario Carlos Mesa si è rivolto all'Argentina, al Brasile e
alle Nazioni Unite per l'invio di mediatori che lavorino a una
soluzione pacifica della crisi. Buenos Aires ha subito spedito a la
Paz un emissario del governo. Lima ha già disposto il rientro di
tutti i peruviani dalla Bolivia. Lo stesso sta facendo Madrid.
Dal Parlamento
europeo è arrivato un appello in cui si auspica che «la rinuncia del
presidente Mesa non comporti un vuoto di potere». «E' necessario -
si legge nel testo - favorire spazi di dialogo perché la Bolivia
possa risolvere la crisi pacificamente». I deputati invitano «alla
moderazione, alla ricerca di un dialogo costruttivo fra tutti i
segmenti della popolazione e di instaurare un clima di fiducia per
portare il Paese sulla via di una transizione pacifica». Hanno
chiesto infine l'invio di una delegazione europea per «analizzare la
situazione sul campo e proporre aiuti» e si sono detti «pronti a
partecipare in qualità di osservatori a eventuali processi
elettorali». A.N.
www.repubblica.it
Designato a sorpresa il numero uno della Corte
suprema
dopo la rinuncia dei leader delle due camere parlamentari
La Bolivia esce dal caos
Rodriguez nuovo presidente
Il successore di Mesa eletto alla fine di una
giornata di violenze. Morto, negli scontri polizia-manifestanti, un
minatore di 51 anni
Il neo presidente della Bolivia Eduardo Rodriguez
LA PAZ - La Bolivia tira un sospiro di sollievo. E il caos
dei giorni scorsi, al limite della guerra civile, cede il passo alla
speranza. Il Congresso nazionale, riunito a Sucre, capitale
costituzionale del paese, ha designato all'unanimità il magistrato
Eduardo Rodriguez come nuovo presidente, al posto del dimissionario
Carlos Mesa.
Rodriguez, 49 anni, presidente della Corte suprema, era il terzo
nella linea di successione costituzionale alla massima carica dello
stato, dopo i presidenti del Senato e della Camera, Hormando Vaca
Diez e Mario Cossio. A questa designazione inaspettata si è giunti
dopo una giornata di incertezza e di violenza, segnata anche dalla
morte di un minatore di 51 anni in uno scontro con polizia ed
esercito a pochi chilometri da Sucre.
In mattinata, le forze armate avevano dichiarato lo stato di
emergenza e avevano ammonito le parti affinché agissero con senso di
responsabilità nel rispetto dell'istituzionalità democratica.
Intanto da La Paz e da altre città della Bolivia erano giunti a
Sucre i 157 deputati e senatori membri del Congresso per procedere
all'accettazione delle dimissioni di Mesa e alla designazione del
suo successore.
Ma con loro si erano mossi anche migliaia di contadini e minatori
decisi, insieme al Movimento al socialismo (Mas) di Evo Morales, a
impedire che dopo l'accettazione della rinuncia del capo dello stato
uscente, assumesse l'incarico Vaca Diez. Nel pomeriggio, rendendo
ancora più drammatica una già difficile situazione dopo la morte del
minatore, le violenze si erano trasferite vicino a Plaza 25 de Mayo
e il presidente del Senato aveva fatto capire che era impossibile
dare il via alla seduta del Congresso.
A questo punto da più parti si è sottolineato
come in caso di mancata soluzione, il Paese sarebbe precipitato nel
caos, ma a sorpresa in serata Vaca Diez ha convocato una conferenza
stampa dicendosi disposto a farsi da parte se il Parlamento avesse
accettato le dimissioni di Mesa e le forze sociali avessero
garantito un'ordinata e sicura sessione parlamentare.
Così è stato e alle 22:50 (le 4:50 italiane) nella Casa de la
Libertad, il Congresso ha accettato le dimissioni del capo dello
Stato, atto seguito a distanza di un minuto dalla rinuncia alla
presidenza sia di Vaca Diez sia del presidente della Camera, Cossio.
I parlamentari hanno quindi designato presidente il titolare della
Corte suprema, che ha giurato fedeltà alla Costituzione assicurando
che il suo sarà "un mandato breve" mirato a organizzare elezioni
anticipate.
(10 giugno 2005) |
Liberazione
11-Giugno-2005
Il Parlamento
nomina ad interim il capo della Corte suprema. Che promette elezioni
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Bolivia, gli
insorti contro il neopresidente:
«E' un uomo delle multinazionali del gas» |
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Trovato un accordo
politico per la nomina di un nuovo presidente in Bolivia. Ma è
un'intesa tutta interna all'arco parlamentare, contestata dalla
parte dura della protesta che ha preso il controllo
dell'insurrezione boliviana. Tanto che lo stesso leader
dell'opposizione, Evo Morales, a capo del Movimento al socialismo,
si è rimesso al volere della maggioranza e prima di dire l'ulima
parola sulla scelta dei parlamentari aspetta il risultato delle
assemblee convocate da tutte le comunità insorte in ogni angolo del
Paese.
Il capo dello
Stato designato si chiama Eduardo Rodriguez Velt. E' il vertice
della Corte suprema boliviana. La sua carica istituzionale sarebbe
la terza, in linea di successione, dopo quella dei presidenti di
Senato e Camera, che però hanno preferito dimettersi preventivamente
per lasciare che Rodriguez Velt, l'unico costituzionalmente
abilitato a convocare nuove elezioni, venisse nominato. Rodriguez ha
promesso di chiamare alle urne entro 150 giorni e di nazionalizzare
l'industria petrolifera come richiesto dai manifestanti insorti
proprio per ottenere il controllo pubblico dei giacimenti di gas.
Gli intenti dichiarati dal neopresidente non sedano però la piazza.
I leader
dell'ala dura e pura della protesta, che sembrano aver trionfato sul
moderatismo del Mas guidato da Morales e che al momento gestiscono
politicamente la rivolta tuttora in corso, assicurano che «la lotta
continua». Roberto de la Cruz e Abel Mamani, leader popolari del
sobborgo di El Alto, epicentro delle proteste, insieme al massimo
dirigente della Centrale operaia boliviana (Cob), Jaime Solares, non
usano mezzi termini nel bocciare il nuovo presidente. Ha dichiarato
ieri Solares: «Eduardo Rodriguez è un uomo degli americani. E' stato
assessore dell'ambasciata e vicepresidente della Corte dei conti
boliviana durante la presidenza del tiranno Gonzalo Sanchez de
Lozada. La sua designazione è frutto di consultazioni fra i partiti
corrotti e le multinazionali». Rifiutano una soluzione di
compromesso politico per uscire dalla crisi. E aspettano che siano
le assemblee aperte a individuare le modalità per ottenere le
rivendicazioni sostenute: nazionalizzazione degli idrocarburi e
convocazione di una assemblea costituente. La maggior parte degli
analisti considera una soluzione tampone la nomina del nuovo
presidente e prevede che l'insurrezione continui. «Si tratta di una
tregua fragile - ha detto il sociologo boliviano Juan Ramon Quintana
- il nuovo presidente dovrebbe indire subito le elezioni
presidenziali e regionali, e un referendum sull'autonomia regionale
e sul processo nei confronti di Gonzalo Sanchez de Lozada (il
presidente fuggito nell'ottobre del 2003, al termine di una
manifestazione che aveva fatto tra i 60 e gli 80 morti). E convocare
un'assemblea costituente». Un'agenda impegnativa per un capo di
Stato senza base d'appoggio in un Paese in rivolta e dal quale tutti
si aspettano tutto e subito. Lo stato della crisi è tale che il
denominatore comune di tutti i commenti dei politologi boliviani,
anche dei meno radicali, è l'esortazione ad avviare una transizione
verso un nuovo modello economico che concordano tutti nel definire «di
post-liberalismo».
A.
N.
Liberazione 14-Giugno-2005
Bolivia,
insorti annunciano: la rivolta continua |
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Ancora tesissima la situazione n Bolivia dove
un'insurrezione popolare per la nazionalizzazione del gas ha
travolto la presidenza Mesa. Il suo successore ad interim
Eduardo Rodríguez Veltzé ha incontrato, a El Alto, sobborgo
epicentro della rivolta, un centinaio di rappresentanti degli
insorti che hanno rifiutato la richiesta di smobilitazione
annunciando nuove manifestazioni.
Liberazione 25-Giugno-2005
Viaggio nei sobborghi di el Alto. Tra miseria sociale e
fermento civile: qui sono nate le insurrezioni
dell'acqua e del gas |
Bolivia anno zero:
la fabbrica della rivolta |
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Angela
Nocioni
el Alto (la Paz) nostra inviata
«Quest'altopiano è la culla storica della cultura
politica insurrezionale del popolo boliviano» si
entusiasma Denise Arnold, ricercatrice inglese di casa a
la Paz, una delle analiste più note del mondo andino.
«La miscela esplosiva è nata dalla convivenza tra gli
aymara, eredi dell'esercito indigeno che con l'assedio
del 1781 affrontò la corona di Spagna, e i minatori
espulsi da Potosì, l'ala più bellicosa del sindacalismo
boliviano. Se el Alto insorge la Bolivia è in ginocchio».
Il
sobborgo dei poveri ha un capitale inestimabile: la
strada principale del Paese lo attraversa tagliandolo a
metà. Le casupole a due piani - le prime, quelle dei
venditori «por cuenta propia», le case dei quasi ricchi,
con parabole alle finestre e cani da guardia al portone
- sono cresciute attorno all'aeroporto internazionale e
all'arteria asfaltata che da qui corre verso l'altopiano.
Oruro, Potosì e Sucre a sud. Cochabamba e, soprattutto,
Santa Cruz, la parte ricca del Paese, a est. Questa
strada è l'asse principale della Bolivia. Controllarla
vuol dire tenere in pugno la Paz. Bloccarla significa
paralizzare il Paese.
Su
questo tratto di asfalto malandato si sono giocate le
ultime partite tra i movimenti sociali e il governo. La
battaglia per l'acqua, quella per il gas, la richiesta
di aumento salariale per gli insegnanti, la protesta
contro l'azzeramento delle pensioni. Quando, di recente,
le associazioni dei quartieri di El Alto che chiedevano
l'accesso all'acqua potabile sono riuscite a mantenere
blocchi stradali per settimane a due passi
dall'aeroporto, il governo è stato costretto a congelare
il contratto di privatizzazione con l'impresa "Aguas de
Illimani", proprietà della francese "Suez environnement".
«Un successo, ma una vittoria a metà» spiega Roberto de
la Cruz, uno dei leader di quella rivolta. «Il governo
Mesa ha fatto di tutto per evitare di cacciare la Suez.
Non vuole pagare l'indennità miliardaria per la rottura
del contratto. Stanno tentando la creazione di una
società mista, ma noi non la vogliamo. Aguas de Illimani
deve restare fuori da el Alto».
Nella città fantasma non ci sono fogne. A molte case
manca la corrente elettrica, il gas e l'acqua potabile.
Eppure il bacino idrico è ricco della neve che scende
dalle cime delle Ande. E l'intero Paese è seduto su uno
dei giacimenti di gas più grandi del mondo. Secondo solo
a quelli russi.
Brasile, Argentina e Perù vivono degli idrocarburi della
Bolivia. La cintura industriale di San Paolo dipende
dalle forniture di la Paz. Buenos Aires d'inverno
starebbe al freddo se non arrivasse il gas boliviano.
Gli abitanti del Alto, però, il gas se lo devono
comprare con le taniche al mercato nero. Una latta da
venti litri costa tre dollari, come un filetto di carne
di seconda scelta.
Il
giovedì è giorno di mercato. Nelle strade sterrate
intorno all'aeroporto si aggiusta di tutto e si vende
qualsiasi cosa. Maiali, carta igienica, chiamate
telefoniche, sigarette, galline, cd pirata. Non c'è
musica. Nessuno grida. Non c'è una sola faccia bianca.
Si parla un castigliano con le consonati aspirate misto
a parole antiche delle lingue indigene. Vecchie indie
con la bombetta in testa e i bambini legati sulla
schiena scaldano zuppe di patate sedute in cerchio
davanti a un portone dipinto di rosso. E' l'unica
costruzione a più di due piani della zona. La sola con
le pareti intonacate. La guardia all'ingresso la fa un
ragazzino con pantaloni over size e felpa con cappuccio.
E' uno di quelli che a el Alto c'è nato. Uno della nuova
generazione, quella metropolitana, quella che la lingua
indigena non la parlerà mai ma durante i blocchi
stradali calza il passamontagna ed esegue gli ordini dei
vecchi aymara. Apre un portoncino sgangherato e fila su
per le scale per un lungo ballatoio su cui si affacciano
laboratori, stanze con macchine da cucire, lavagne. E'
il Centro per la promozione della donna "Gregoria Apaza".
L'ha fondato quindici anni fa un gruppo di femministe di
la Paz. Bianche, classe media, con il pallino della
cultura indigenista. «Abbiamo iniziato lavorando con
donne vittime di violenza familiare - racconta Lucia,
una delle fondatrici - poi abbiamo creato laboratori di
artigianato, corsi di alfabetizzazione aperti a tutti».
Fuori tira un vento gelido e l'assemblea della
Federazione associazioni di quartiere (Fejave, uno dei
più importanti strumenti di pressione sul governo, tanto
efficace da essere stata riconosciuta giuridicamente) si
è riunita qui dentro. Duecento, trecento persone. Tutte
sedute a terra. Parlano a turno. Sono soprattutto donne.
Anziane per lo più. «Le donne hanno un ruolo
fondamentale nelle mobilitazioni - spiega Lucia - Quando
si tratta di organizzare una marcia, un blocco stradale,
il machismo si dissolve. E' un'eredità
dell'organizzazione sociale indigena. Tutta costruita
sul ruolo centrale della madre. Sulle barricate ci vanno
gli uomini. Ma sono quasi sempre le donne a decidere
quando e dove bloccare le strade. Sono loro che
organizzano la resistenza e la vigilanza». Si discute
della tregua concessa al nuovo presidente Rodriguez,
l'ex capo della Corte suprema succeduto a Carlos Mesa
con la promessa di indire nuove elezioni. Le dimissioni
di Mesa sono state annunciate ormai da tre settimane,
dopo una marcia di centomila persone da el Alto su La
Paz, l'assedio del Parlamento da parte di minatori
armati di dinamite e la contemporanea paralisi di tutte
le vie di comunicazione della Bolivia. Dopo la caduta
del presidente la tensione è calata. Gli sbarramenti
sono stati spostati ai margini delle strade, le
occupazioni dei pozzi di gas sono state sospese, gli
autobus circolano, i taxi pure. Di una chiamata alle
urne, però, per ora non c'è traccia. Martedì il
Congresso dovrebbe decidere se sciogliersi come chiesto
dagli insorti o se iniziare un nuovo braccio di ferro.
Un presidente in fuga e un intero parlamento sotto
scacco nel giro di tre settimane, non sembra poco. Qui
insistono che il punto non è questo. Una vecchia signora
prende la parola. Trecce raccolte, la gonna a pieghe
sopra ai pantaloni, il borsalino in testa e la pipa in
mano. «Non siamo andati fino a la Paz per cambiare un
presidente. Non siamo andati a la Paz per ottenere
un'assemblea costituente. Siamo andati a la Paz per
nazionalizzare il gas. Il gas è nostro. Se martedì il
Congresso non si scioglie e non dichiara la
nazionalizzazione dei giacimenti della Bolivia noi
scenderemo tutti a la Paz». |
Liberazione 28-Giugno-2005
Le
radio fondate dalla Chiesa contro
i ribelli sono diventate la voce degli insorti |
Bolivia in fm, va in onda
la rivolta |
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Angela
Nocioni
el Alto (la Paz) nostra inviata
Biancheria da poveri stesa al sole, cani affamati e un
manichino di pezza impiccato a un palo. Nel linguaggio
muto del più grande sobborgo di la Paz, quel mucchio di
stracci appeso al filo della luce è un monito ai ladri e
agli stupratori. Sta per «l'uomo che ruba finisce ucciso».
Ricorda ai passanti che qui non ci si fida della polizia.
Si fa da sé. La chiamano «giustizia comunitaria».
La
settimana scorsa un ladruncolo recidivo è stato
picchiato e rinchiuso quattro giorni in un garage prima
di essere rispedito in città. Decisione del Consiglio
dei vicini, una sorta di solenne assemblea di quartiere.
Gli è andata bene, un anno fa il sindaco di un municipio
dell'altopiano è stato bruciato vivo. Rubava i soldi
della comunità. Mauro, indio aymara, trent'anni e un
taxi giallo che cura come una reliquia, racconta la
storia e alza le spalle: «Erano dieci mesi che lo
avevano denunciato per corruzione. Lui continuava a
rubare e alla fine la gente si è difesa».
All'incrocio su cui dondola il manichino c'è un portone
con doppio chiavistello. E' la sede di radio Pachamama,
«la radio che ti ascolta» sta scritto all'entrata. Ci
lavorano nove persone. Una in studio, un tecnico in
cabina e sette inviati per strada. Copre l'altopiano di
el Alto e l'intera città di la Paz. Due milioni di
ascoltatori potenziali. Vive di pubblicità.
Una
bella signora ben vestita fa cenno d'entrare e si
attacca al telefono. Una complicatissima faccenda di
minacce, ricatti e luce tagliata. Non è la prima volta.
Ma domani il Parlamento deve decidere se dimettersi in
blocco come chiedono gli insorti, a el Alto si preparano
nuove proteste e la questione si fa urgente. «Nei giorni
dell'insurrezione contro il presidente de Lozada,
nell'ottobre del 2003, volevano far saltare in aria la
radio» racconta tra un trillo e l'altro del cellulare
Lucia Sauma, che di Pachamama è la direttrice. «Abbiamo
fatto appena in tempo a mandare in onda la denuncia. E'
sceso tutto il quartiere. I vicini hanno sigillato le
strade nel raggio di un chilometro. Nessuno si è potuto
avvicinare».
In
Bolivia esistono più di 500 radio, senza contare quelle
pirata. E' il mezzo di comunicazione più importante del
Paese. Arriva dove non arriva la rete elettrica, dove
non c'è televisione. Pioniera è stata la chiesa
cattolica negli anni Quaranta. Fu sua l'idea della
"radio educativa". La maggioranza delle emittenti le
appartengono ancora. In principio erano state fondate
per evangelizzare e per contrastare il pericolo rosso.
Poco a poco si sono trasformate. Hanno cambiato di segno.
L'esempio più evidente è la radio Pio XII, messa su per
combattere il contagio comunista dalle miniere alle
campagna. E' diventata la radio dei congressi dei
minatori. La stessa cosa è successa con l'emittente dei
preti canadesi. Alla fine, con la benedizione dei
gesuiti, è nata radio Erbol, "educazione radiofonica di
Bolivia", una rete di emittenti indipendenti in buona
parte di lingua aymara.
Pachamama ne fa parte. «Abbiamo solo due regole: dare
priorità alla voce degli esclusi e informare dal luogo
in cui avvengono i fatti». Lucia racconta la strage
dell'ottobre del 2003 come un incubo ricorrente. «Era
sabato notte. El Alto era insorto contro il governo e il
presidente aveva spedito quassù l'esercito per
sgomberare l'occupazione dei depositi di carburante. I
militari sparavano con le mitragliatrici. Sessantasette
delle ottanta persone uccise in quelle ore furono
ammazzate nelle strade che vanno da qui all'aeroporto.
Nessuno stava dando la notizia. Ho mandato in strada
tutti i redattori. Giravano al buio, in bicicletta.
C'erano blocchi stradali ovunque. Fischiavano le
pallottole. Molte persone quella notte morirono dentro
casa. Un bambino ucciso mentre si affacciava alla
finestra. Una nostra vicina stava in camera sua, una
pallottola l'ha presa in testa. Aveva 24 anni. Era in
corso un massacro e nessuno lo sapeva». «Abbiamo
lavorato per giorni a microfoni aperti. Le telefonate
hanno costruito la mappa di quello che stava succedendo.
Così è andata per tutta la durata della rivolta. Gli
altri mezzi di comunicazione non potevano salire a el
Alto. La gente non glielo permetteva. E' furiosa con i
giornali e con le televisioni. Eravamo gli unici a
trasmettere, finché hanno cominciato a contattarci
redazioni da Sucre, da Potosì. Credo di aver passato la
notte a gridare: prendete il segnale, entrate in dulpex.
Alla fine la catena ha coperto tutto il Paese».
Lucia fin quassù c'è venuta per la radio. E' nata e
cresciuta nella zona sud di la Paz, mille metri più in
basso, nella città blindata della borghesia bianca,
delle ville dei deputati, dei parchi con piscina
riscaldata. Parla con una rabbia sacra di quel mondo
separato. «La rivolta indigena ha tolto la maschera alle
oligarchie, anche a quelle di sinistra. Prima che gli
aymara facessero esplodere la Paz, la Bolivia si
presentava al mondo come un Paese non razzista. Noi
razzisti? No, gli Stati Uniti sono razzisti, ci
raccontavamo. Per noi, il privilegio assoluto sugli
indigeni è assunto come naturale. Il fatto di avere in
casa una domestica che vive in condizioni di
semischiavitù è considerato normale, ovvio. Perché noi
siamo bianchi». Strilla, quasi.
Guardandola mentre si agita sulla sedia, sembra che il
complesso di colpa sia stato la fessura sottile da cui,
poco a poco, sono scivolate via le scuole private, le
prospettive di lavoro in Europa, l'intera esistenza
preconfezionata di una figlia colta della borghesia di
la Paz. «Ci minacciano, ma non ci chiudono. Questa radio
esiste ancora perché esistono i minatori e gli indios di
el Alto». Li difende con l'amore cieco delle passioni
contrastate.
«L'informazione
ufficiale mente su tutto. Sulla nazionalizzazione del
gas, sulle spinte per la secessione dell'Oriente ricco
boliviano. A Santa Cruz la situazione non è come dicono.
Non è vero che la maggioranza vuole l'autonomia dalla
capitale. Le agenzie di notizie raccontano che tutti i
cruzeni sono per l'indipendenza. Falso. La maggior parte
della popolazione anche lì è indigena e ha altri
interessi. Ci sono i movimenti contadini, gli operai. Ma
non hanno voce. Li cancellano».
Due
anni fa Pachamama ha rotto il silenzio sulla strage. In
queste ultime settimane sta tentando invece un ruolo di
informazione e di dirigenza politica nella nuova rivolta
per la nazionalizzazione del gas, di cui la Bolivia è
ricchissima. Questa volta il governo non ha fatto salire
l'esercito a el Alto, l'ex presidente Mesa (uomo
dell'Opus dei) è stato travolto dalla piazza ma si è
dimesso senza dare l'ordine di sparare sulla folla. Il
presidente ad interim dice di non volere una soluzione
violenta della crisi, ma di fatto non controlla più
nulla. «Lo scontro ora è con i partiti tradizionali -
racconta Lucia - la radio serve a fare chiarezza perché
ci sono tante rivendicazioni diverse, tanti slogan allo
stesso momento. Bisogna mostrare alla gente che scalpita
per tornare a marciare su la Paz, quali sono le esigenze
e canalizzarle. Bisogna vigilare perché non si faccia
confondere dalle promesse della destra. Il rischio è
alto. Molti dei leader popolari sono politicamente
ingenui».
«I
movimenti sociali non hanno ottenuto quello che
chiedevano, ma in fondo non vogliono solo la
nazionalizzazione degli idrocarburi. Nemmeno solo
l'assemblea costituente. La richiesta va molto oltre.
Gli indigeni chiedono chiaramente un cambiamento
radicale e profondo della società. Sono il 75% della
popolazione e hanno preso coscienza del loro potere. Non
gli basta la rappresentanza parlamentare. Hanno bisogno
di un tipo di partecipazione completamente differente.
Vogliono poter decidere, ma non trovano un canale. Per
qualcuno potrebbe essere l'assemblea costituente, ma la
gran parte del movimento ha individuato come unico
strumento l'incendio delle barricate e la paralisi dei
trasporti. Gli sembra l'unico modo per ottenere qualcosa.
E in effetti fino ad adesso così e stato. La lotta per
la nazionalizazione degli idrocarburi li unisce, ma nel
fondo stanno cercando una trasformazione strutturale.
Non vogliono più promesse. Sono oltre, ma non hanno
individuato né una tattica, né una richiesta strategica.
Sono pronti a farsi ammazzare». Sospira. «In Bolivia è
in corso molto più di una rivolta, ma potrebbe finire in
una tragedia».
www.radiopachamama.com.bo per info radio@pachamamafm.com
(il sito sarà aperto da lunedì prossimo) |
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Liberazione 29-Giugno-2005
«Nazionalizzare
il gas boliviano si può. Ecco come |
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Parla
Alvaro Garcia Linera, economista e sociologo,
tra i più brillanti analisti politici del paese andino |
Angela
Nocioni
la Paz nostra inviata
Ha senso proporre la nazionalizzazione del gas in Bolivia? O è
una richiesta utile solo a mobilitare la popolazione contro il
governo, irrealizzabile se non a costo di far precipitare il
Paese in una crisi economica e sociale più profonda di quella
in cui si trova? Alvaro Garcia Linera, economista e sociologo,
uno dei più brillanti analisti politici boliviani, assicura
che nazionalizzare il gas è possibile. «In Bolivia esiste una
economia duale, schizofrenica. Per il 20% legata a processi
moderni, industriali, in cui è impiegato il 7% dei lavoratori;
Per l'80% ancorata ai modelli arcaici di una produzione
familiare, semimercantile, contadina. Nel centro di la Paz
trovi internet e i telefoni satellitari. A cinque chilometri
vedi l'aratro del secolo XVI, insieme a gente che per produrre
un paio di pantaloni usa una macchina Singer del 1920. Questo
mondo costituisce la maggioranza della popolazione attiva
della Bolivia. Come si modernizza un Paese così? Negli anni
Ottanta si è pensato che gli investimenti stranieri potessero
essere la locomotiva. E' stato un errore. Gli investimenti
stranieri non hanno generato occupazione, né hanno aiutato a
diversificare l'economia. Il capitale straniero entra in
piccole aree, le trasforma con investimenti intensivi, si
interessa delle materie prime, fondamentalmente del gas, del
petrolio e dei minerali. Utilizza alta tecnologia e poco
impiego e porta i profitti fuori dal Paese. Queste isole
create dal capitale straniero galleggiano sopra ad un modello
arcaico. Solo lo Stato potrebbe portare la Bolivia verso la
modernità. Chi altri? Non gli imprenditori boliviani, che sono
una realtà minuscola e che quando hanno realizzato profitti
comprano macchine di lusso e vanno a Miami a mangiare da
McDonald's. Gli investimenti privati nazionali sono un quarto
di quelli di dieci anni fa. Questa è la Bolivia: secolo XVI
nelle campagne, secolo XIX nell'altopiano e secolo XXI
nell'internet point del centro di la Paz. Per uscire da
quest'assurdità è necessario un nuovo ruolo dello Stato che
non preveda né il socialismo, né l'utopia arcaica
dell'indianismo, ma semplicemente la modernità della
diversificazione dell'economia. Dove lo trova lo Stato il
capitale necessario per compiere questo lavoro? In questo
Paese c'è molto gas. Ma va tenuto in mani pubbliche per
investirlo, per ridistribuirlo. Servono decenni, ma il gas va
nazionalizzato. Non c'è alternativa».
Questo in teoria. Ma in pratica?
In
pratica è assai complicato. Perché qui c'è il Brasile,
proprietario del 20% della ricchezza boliviana. Sono suoi i
due principali campi boliviani di gas, San Antonio e San
Alberto, più grandi di quello ricchissimo di Margarita in mano
alla spagnola Repsol. Sotto il suo controllo è l'intero
processo di distribuzione del gas. Nelle sue mani sono i
gasdotti che trasportano combustibile all'Argentina e all'area
industriale di San Paolo. Sono sue le due imprese di
raffinazione boliviane e anche le due grandi aziende di
distribuzione di combustibile per automobili. E' ovvio che il
Brasile difenderà la proprietà privata del gas boliviano. Per
questo è necessaria una strategia graduale. Obiettivamente è
indispensabile per consentire la sopravvivenza del Paese.
Cosa significa concretamente nazionalizzare per gradi? Da dove
si comincia?
Con
consorzi in cui lo Stato sia presente al 51% lasciando il 49%
a investimenti stranieri mirati in grado di garantire il know
how necessario all'industrializzazione del processo. Serve
abilità tattica. Per esempio: grazie alla nuova legge sugli
idrocarburi lo Stato è diventato proprietario del 30% di due
grandi imprese petrolifere. Siamo soci minoritari. Dovremmo
tentare di diventare soci maggioritari. E a quel punto il 25%
del gas boliviano sarebbe in mano dello Stato. Secondo passo:
Petrobras (l'impresa pubblica del petrolio brasiliano) vuole
vendere le raffinerie. Bisogna comprarle. In associazione con
capitale straniero, se necessario, ma mantenendo la quota
maggioritaria. Ci sono imprese che hanno violato i contratti:
bisogna cacciarle. Nessun tribunale internazionale ci potrebbe
condannare per questo. Una nazionalizzazione immediata va bene
per i discorsi di piazza, ma oltre che ridicola sarebbe
suicida.
La maggior parte della popolazione chiede le elezioni. Quali
poteri le stanno ritardando?
Gli
interessi in gioco sono molti. Alcuni settori imprenditoriali
e parte della Chiesa credono che le elezioni generali siano un
modo di risolvere la polarizzazione sociale che divide la
Bolivia. Ma alla destra tradizionale convocare elezioni non
conviene. I vecchi e potenti partiti della destra
difficilmente riuscirebbero ad uscire da elezioni anticipate
con il peso politico di adesso. Non hanno una leadership, sono
stati responsabili della strage dell'ottobre del 2003 e ne
pagheranno le conseguenze in termini elettorali. Questo non
vuol dire che la destra non abbia forza. Si sta solo
trasformando. Tenterà di acquisire nuova linfa attraverso
nuovi leader e nuovi piccoli partiti. Quello dell'imprenditore
Merina, ad esempio. Siamo di fronte a un processo di ricambio
a destra.
Che ruolo ha avuto la Centrale operaia boliviana, il grande
sindacato del Paese, nell'ultima insurrezione popolare che ha
portato alle dimissioni del presidente della Repubblica?
Negli
anni in Bolivia c'era una sola grande organizzazione sociale
che raggruppava diversi movimenti sociali, la Cob. Il suo
nucleo forte era il radicamento nelle fabbriche con 4/5 mila
operai, attorno si aggrupparono via via altri movimenti,
studenti, contadini, commercianti. La Cob ha avuto grande
capacità di intervento politico nel duello contro i militari
negli anni 60 e 70. La sua forza politica l'ha mantenuta fino
all'85, quando iniziarono i processi di trasformazione
strutturale dell'economia nazionale. Investimenti stranieri,
privatizzazioni, aperture di mercato.
Nei dieci
anni dall'85 al '95 si distrugge il nucleo opearaio. Si
chiudono fabbriche, si chiudono miniere, si licenziano
lavoratori. La cultura operaia si estingue e sorge un nuovo
tipo di proletariato, frammentato. E' il lavoro operaio a
domicilio tanto diffuso nell'altopiano di el Alto. Si lavora
in luoghi anonimi, per un intermediario di una fabbrica. O in
casa, in quattro o cinque persone. Non ci sono sindacati, né
padroni visibili. Né orario fisso, né diritti sindacali. Il
nucleo della Cob scompare insieme all'operaio sindacalizzato.
Alla fine di questo processo di indebolimento strutturale
della condizione operaia, la Cob si è ritrovata ad avere
iscritto il 9% degli operai. La Cob finisce per concentrare
solo maestri, lavoratori della sanità e studenti. Per questo
la Cob continua ad essere presente nelle grandi mobilitazioni,
ma sono i singoli movimenti sociali che deteriminano l'esito
delle lotte. I contadini, per esempio, si mobilitano senza la
Cob. Noi qui chiamiamo sindacato contadino una cosa che in
realtà è una comunità.
Una carrellata dei principali movimenti sociali boliviani.
Negli
ultimi due anni si è assistito a un irrobustimento di molti
movimenti sociali, quasi sempre su base regionale. I cocaleros,
coltivatori della pianta di coca, si mobilitano attorno alla
lotta contro le coltivazioni portata avanti dal governo e
appoggiata dagli Stati Uniti. Poi ci sono gli indigeni della
confederazione contadina di Felipe Quispe, "il Condor", che ha
la sua forza concentrata a la Paz e nell'altopiano aymara.
Sono i più radicali, con la maggiore forza di mobilitazione e
il discorso politico più definito. Rappresentano l'emergenza
di un nazionalismo indigeno aymara (25% della popolazione
boliviana in cui gli indios sono il 75%). E' il primo
nazionalismo indigeno dell'America latina. Poi c'è la Giunta
dei vicini di el Alto, che ha 50 anni di vita, politicamente
forte da tre anni, fondata da una comunità di vicini, con una
composizione socioeconomica molto differente. In mezzo ci sono
operai, disoccupati, studenti, piccoli commercianti. Ma
l'identità forte è la condizione di vicinato. C'è una forte
composizione operaia ma non c'è identità operaia. Poi esiste
una miriade di altre piccole organizzazioni sparse nel Paese.
Per esempio gli indigeni delle pianure, solo il 7% della
popolazione indigena generale, che per esiguità numerica era
soliti trattare, cercare il compromesso con le autorità e che
ora si sta radicalizzando. Occupa i pozzi petroliferi. C'è la
Coordinadora del agua di Cochabamba, protagonista della lotta
contro l'impresa Bechtel nel 2000 e c'è un piccolo movimento
di senza terra a Santa Cruz.
I più
importanti movimenti al momento sono quattro: i vicini di el
Alto, gli aymara dell'altopiano di Felipe Quispe, i cocaleros
di Morales e la Coordinadora del agua. Poi viene la Cob.
E i minatori?
I
minatori, per la maggior parte, non sono più minatori di
grandi imprese, ma famiglie di lavoratori che dispongono di
tecnologie da Ottocento e lavorano in cooperative. Sono
60mila. Sono quelli che arrivano con la dinamite durante le
manifestazioni cruciali a la Paz. Hanno una grande forza di
mobilitazione e agiscono come gruppo di rottura. C'è un
elemento molto interessante di cui i minatori cooperativisti
sono rivelatori: la base organizzativa economica delle
principali figure sociali boliviane è la famiglia. Questo
garantisce molta flessibilità e molta capacità di resistenza.
Ma in termini di progetto politico è debole. Vale per tutte le
organizzazioni. Un esempio: tre settimane di sciopero a el
Alto, il governo sotto scacco. Le grandi centrali di
immagazzinamento del combustibile nelle mani degli insorti. Ma
quando c'è da distribuire il gas manca la capacità
organizzativa andata persa insieme alla cultura di lotta degli
operai delle grande imprese, come si fa a pensare a un
processo tanto complesso come la distribuzione del gas a
800mila persone? La mobilitazione è stata sospesa per questo.
Si sono dovuti fermare perché non hanno mai affrontato la
questione dell'alternativa di potere.
Il
radicalismo boliviano è caratterizzato da ondate di
mobilitazioni. Prima il 2000 a Cochabamba. Nel 2001 insorge
l'altopiano. Nel 2003 si ribella la Paz. Nel 2005 ancora la
Paz e l'altipiano. E' un marea che va e viene. In quest'ultima
ondata la questione del potere politico è stata posta, perché
chiedere la nazionalizzazione del gas obbliga a pensare a chi
deve nazionalizzare.
Il presidente Mesa si è dimesso senza far intervenire
l'esercito a reprimere la rivolta. Lo ha fatto perché voleva
evitare un'altra strage o temeva che i militari non
obbedissero?
L'esercito continua ad essere un potere, anche se non ha più
il ruolo decisivo giocato fino a venti anni fa. Negli ultimi
tempi ha mantenuto un'apparente fedeltà alla Costituzione.
Ogni volta che il governo gli ha chiesto di andare in strada
ha esibito la sua ferocia. Ha ucciso anche quando poteva non
farlo. Oggi i militari temporeggiano perché temono di essere
processati. Sanno che non sono tempi di dittatura. Questo non
vuol dire che non stiano fremendo per intervenire nella crisi.
La destra non li ha saputi usare. Ha giocato l'unico argomento
che non doveva: la secessione di Santa Cruz. Qui siamo in
America latina e l'esercito è nazionalista.
C'è una
certa simpatia nell'esercito verso la richiesta di
nazionalizzazione. Qui, chi per primo nazionalizzò, nel '58,
fu un militare. L'atteggiamento generale dell'ambiente
militare verso questa richiesta rimane freddo perché sono gli
indigeni ad avanzarla. La maggior parte dell'esercito li
considera esseri non umani che andrebbero presi a calci finché
non si decidono a parlare in castigliano. La Bolivia è
terribilmente razzista. C'è un apartheid di fatto.
Santa Cruz si prepara davvero la secessione?
Per
adesso la richiesta di autonomia è soprattutto una strategia
di contenimento rispetto alle richieste di nazionalizzazione
degli idrocarburi. Non è escluso che precipiti verso una
secessione. Questo equivarrebbe a una dichiarazione di guerra
civile.
Liberazione 02 luglio 2005
Bolivia, tra i minatori-bambini
di Llallagua, la città fantasma |
Dalle privatizzazioni al fallimento delle cooperative |
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Angela
Nocioni
nostra inviata - Llallagua (Potosì)
Tetti rotti e porte tarlate. Bambini con sguardi da
vecchi, donne rinsecchite, ombre che scivolano lungo i
muri. La terra è una spugna che trasuda una polvere
sottile, aspra, irrespirabile. Oltre i resti di un campo
da pallone invaso dalle erbacce, la bocca spalancata
della miniera.
Benvenuti a Llallagua, bisognerebbe scrivere a questo
punto. Ma nessuno è benvenuto in questa città ai margini
del tempo, intrisa di un dolore che stordisce. Qui,
arrampicati sull'altopiano di Potosì, a 3.600 metri sul
livello del mare, tra baracche di miseria e pochi
arbusti, abitano 8mila poveri cristi. Minatori
sopravvissuti a stento alla chiusura della grande
impresa pubblica di estrazione dell'argento e dello
stagno. Bambini ovunque. Bambini con i piedi a mollo in
un'acqua putrida color cenere. Bambini con le mani nude
nell'acido. Bambini appesi a arnesi arrugginiti,
giganteschi, pesantissimi. Sono loro la vera forza
lavoro della miniera. Sono loro che garantiscono tutte
le fasi del processo di separazione del minerale dalla
roccia. Navigano nel labirinto buio dentro la montagna
senza inciampare, senza cadere, con una dimensione e un
tempo distinti, come pipistrelli. Hanno sette, otto,
dodici, tredici anni. Qualcuno va a scuola, qualcuno no.
Lavorano chi quattro, chi sei, chi nove ore al giorno.
Hanno volti scolpiti come pietre. Parlano a voce bassa.
Non covano rabbia. Sono stremati. Dalla fatica e dal
vento, che soffia costante e gelido da est.
Questa città fantasma è quello che resta di Potosì, la
terra mitica dalle cui viscere uscì l'argento che
finanziò la Corona spagnola per tutta l'epoca della
colonia. La leggenda racconta che, molto tempo prima
della conquista, l'indio Huallpa si sia fermato a
dormire in una grotta su queste alture. Accese un fuoco
e si trovò di fronte a un'enorme vena d'argento
illuminata dal riverbero della fiamma sulla parete della
montagna.
Non
sarà andata così, ma sulla ricchezza incalcolabile del
sottosuolo di quest'arida regione della Bolivia si è
costruita buona parte della potenza della Spagna
coloniale.
Nel
1560 qui intorno vivevano 160mila persone. Madrid nella
stessa epoca non aveva più di 5mila abitanti. L'argento
di Potosì sembrava infinito. Si calcola che ne sia stata
tirata fuori una massa pura pari a 46mila tonnellate.
Tramontata l'epoca dell'argento, cominciò quella dello
stagno. Dell'era mitica non c'è più traccia. Dei 700mila
abitanti attuali dell'altopiano, il 70% è povero. Finita
l'era del colonialismo classico arrivò la Patino mines,
industria privata che ha gestito le miniere fino al
1952. Fu allora che i militari decisero di
nazionalizzare le tre grandi compagnie minerarie
proprietarie dei due terzi dei giacimenti. Il resto
rimase in mani private, frammentato in piccole e medie
imprese di estrazione.
Nacque così la Comibol, corporazione miniere della
Bolivia. E' durata trentatré anni. Nel 1985 l'ondata di
privatizzazioni forzate dell'intero settore pubblico
boliviano la polverizzò. Licenziati 30mila minatori.
Un'odissea di stracci in fuga dall'altopiano verso la
Paz. Migrazione forzata. Centri urbani scomparsi. Non se
ne sono andati tutti. Alcuni sono rimasti. E hanno
formato le cooperative minerarie. 526 cooperative in
tutto il Paese, raggruppate in una federazione, Fencomin.
Oggi raggruppa il 73% di tutti i minatori boliviani. Le
cooperative dovevano essere un modello di autogestione
applicata al lavoro più duro del mondo. Invece sono un
modello di sfruttamento. Padri che sfruttano i figli.
Madri che partoriscono e tornano a lavorare in miniera.
Un orrore chiuso a chiave nel modello ipocrita della
famiglia povera in cui tutti si danno un mano per
sopravvivere.
Roberto, 12 anni, ha le mani deformate dal "quimbalete".
Serve a trasformare le pietre in polvere. E' una specie
di mezza luna ripiena di cemento e rivestita in ferro.
Con due grandi manici alle estremità. Si inclina da una
parte e poi dall'altra. Come una giostra. «Lo maneggiamo
io e mio fratello mentre papà è dentro la miniera». Una
bambina infila le pietre sotto la parte tondeggiante
della mezza luna. Ci passano sopra per sei, sette ore.
Inclinano verso destra, poi verso sinistra. Così, fino
al tramonto. Pesa sessanta, settanta chili. A Roberto
gli arriva all'altezza degli occhi. Deve arrampicarsi su
un grande sasso per afferrare i manici. Suo fratello è
un po' più alto. Sta dall'altra parte e non parla. Un
lampo negli occhi che sembra un sorriso, ogni tanto.
«Papà,
voy a bublear». Il "bublear" consiste nel separare il
minerale quasi pulito dal resto. L'operazione viene
realizzata con un cono di cemento, una cannella in fondo
e una piccola pala. A piedi nudi nell'acqua i bambini
infilano il materiale processato dentro la cannella,
muovono la pala di un moto costante, finché il minerale,
più pesante, si separa cadendo in basso. Il resto lo fa
lo un reattivo chimico in fiale. «Lei dice che è
pericoloso, ma io non ho paura» dice René, tredici anni,
indicando
Claudia, volontaria dell'ong Cepramin che da quindici anni
cerca di sottrarre i bambini alla miniera. Il reattivo
brucia la pelle. E' altamente tossico. Avvelena più
lentamente della silicosi, ma è altrettanto letale.
Llallagua è lo specchio torbido del fallimento delle
cooperative. I minatori producono con metodi arcaici.
Senza tecnologie, con attrezzi da museo. E poi vendono a
prezzi stracciati, senza nessuna forza di contrattazione,
alle imprese private. Si chiamano cooperativisti e in
tutto il Paese sono 60mila. Quando esisteva l'impresa
statale, 30mila addetti, e l'impresa media, altri
trentamila, esistevano comunque i cooperativisti, ma
erano una minoranza: 8, 10mila. E' andata così fino alla
metà degli anni 80. Quando sparisce l'industria statale
e l'industria privata si frammenta in microimprese, si
moltiplicano i cooperativisti.
Negli ultimi quattro anni hanno assunto peso politico,
ma non gli è servito a garantirsi quasi nulla. Hanno una
grande forza di mobilitazione e agiscono come gruppo di
rottura. Sono loro che nei momenti decisivi delle
innumerevoli insurrezioni boliviane arrivano a la Paz
con i candelotti di dinamite. Quando marciano sono
disciplinatissimi.
Nell'ottobre 2003, quando la rivolta travolse la
presidenza de Lozada e l'esercitò sparò sulla folla
uccidendo ottanta persone, arrivarono in carovana a la
Paz e parteciparono agli scontri degli ultimi due giorni.
Furono determinanti nel braccio di ferro con il governo.
Nelle ultime proteste per la nazionalizzazione del gas
sono tornati e hanno accerchiato il Parlamento. Deputati
e senatori, per sfuggire alla pressione, hanno convocato
una seduta straordinaria a Sucre. E i cooperativisti
sono andati fin lì. Incolonnati, a volto coperto, con la
dinamite in mano. Uno di loro è stato ucciso dalla
polizia. Di solito si muovono su rivendicazioni di
settore. Chiedono crediti allo Stato e zone di
produzione per non essere costretti a occupare le
miniere dimesse. Ma in momenti straordinari partecipano
alle mobilitazioni convocate o dagli aymara di el Alto o
dai contadini.
La
grande impresa della miniera boliviana è sopravvissuta,
ma in pochissime piccole aree. Ne è un esempio San
Cristobal, il terzo giacimento d'argento più grande del
mondo e in assoluto la maggiore riserva di zinco a cielo
aperto. E' in mano alla Apex Siver che da lì ricava una
media di 40mila tonnellate al giorno. Tradotto in altri
termini, vuol dire che tra 17 anni San Cristobal sarà
scomparso, svuotato dall'interno.
Romina ha 13 anni. Bella. Orfana di padre. Tra i bambini
di Llallagua sembra la più miserabile. E' molto magra.
Ha le braccia sottili. Non ce la fa a spostare le pietre,
figurarsi a schiacciarle con la mezzaluna di ferro.
All'alba arriva insieme alla madre con cestini di pane e
bibite gassate. Sta ferma davanti alla bocca della mina
tutto il giorno. Aspetta che agli uomini venga fame o
sete. «Qualche volta escono ubriachi - racconta a occhi
bassi - Ci vengono a cercare. Mia madre dice che quando
li sento ridere devo correre». |
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