Dal manifesto - 10 Maggio 2005

 

Sciopera il call center Alitalia
Contro la precarietà dei contratti a tempo e l'esternalizzazione
FR. PI.
E' riuscito al 100%, secondo le stime del sindacato di base Cub, lo sciopero del call center Alitalia di Roma. Uno sciopero «contro la precarietà», visto che gli addetti alla struttura - più di 200 - sono quasi tutti con contratto a tempo determinato. La storia è simile a molte altre, anche se qui l'azienda non è uno dei tanti imprenditori mordi-e-fuggi. I contratti venivano rinnovati, fino a qualche tempo fa, ogni anno: erano contratti «stagionali» della durata di undici mesi (!), spesso prorogati per periodi minori, e con 20 giorni di «stacco» tra un rinnovo e l'altro. Ora, invece, Alitalia preferisce farli di soli 4 mesi, con un stacco di 10 giorni, come impone la legge. C'è gente - gli impiegati dei check in e dei call center, gli operai del carico-scarico bagagli) che vive così da 8-10 anni, raccontano i lavoratori; e che ha sentito tante promesse di assunzione mai realizzate.
I lavoratori puntano naturalmente alla stabilizzazione del contratto di lavoro, ma rivendicano anche il diritto a chiedere che sia fissato un criterio oggettivo per il passaggio alla stabilizzazione: quello dell'anzianità con lista unica. Non solo: chiedono che l'assunzione venga fatta da una delle tre società del gruppo che resteranno certamente «operative»: Alitalia, Alitalia Express o Alitalia Airport. La «Servizi», infatti, si sa già essere un contenitore di passaggio per le esternalizzazioni e le chiusure. E in effetti, sembra proprio che si intenzione dell'azienda cedere anche questo call center al gruppo Cos (partecipato al 50% da Alitalia). Chiaro, perciò, che l'agognata «stabilizzazione» rischia di diventare una chimera.
L'unica buona notizia è arrivata al termine della manifestazione sotto il palazzo della Regione Lazio. Accompagnati dal consigliere verde Angelo Bonelli e dal vicepresidente della provincia, Nando Simeone, sono stati ricevuti dalla segreteria del neo «governatore», Marrazzo. La giunta - che dovrebbe insediarsi ufficialmente oggi - ha preso l'impegno a convocare entro 48 ore i precari e i rappresentanti del Cub per affrontare la situazione insieme all'assessore al lavoro.

 

 

Atesia l'ingorda stavolta s'è fermata. Viaggio nei call center romani. Lo sciopero dei tremila cococò del gruppo Cos. Addetti al 119 Tim, gli operatori non hanno un compenso fisso. Tanti i lavoratori «atipici» ormai da anni, quarantenni e cinquantenni che in fondo al tunnel non vedono neppure una pensione. In stallo l'accordo dei confederali, i delegati Cgil rompono con Cisl e Uil. E si uniscono allo stop di 24 ore
ANTONIO SCIOTTO
ROMA
L'ultima beffa di Atesia è stata la riduzione del compenso per tre minuti di chiamata: da un euro - cifra assicurata all'inizio - a 90 centesimi, poi a 80. «Un errore di stampa», è stato il commento dei capi quando gli operatori hanno letto le buste paga. E' solo uno dei tanti piccoli episodi che dimostrano la quotidiana prepotenza a cui sono esposti i cococò del più grande call center italiano: 3 mila precari, alcuni alla cornetta da 12-13 anni. Giovedì e venerdì scorso hanno scioperato per 24 ore, riunendosi in assemblea nel cortile di fronte all'entrata, tra i palazzi della cittadella commerciale di Cinecittà. Atesia oggi appartiene alla Cos, il gruppo romano che ha acquistato il call center dalla Telecom: ma lavora ancora su commesse della compagnia telefonica, soprattutto per il servizio 119 Tim. Neanche a dirlo, chi risponde alle chiamate non gode di nessuna retribuzione fissa: è vittima dei capricci dell'azienda, che fissa a proprio piacimento i compensi. Un «cottimo» tipico di tanti call center: tanto parli, tanto guadagni. Se non ricevi chiamate e stai in attesa, quel tempo di lavoro non ti viene riconosciuto. Ma c'è una novità interessante che Atesia e la Cos hanno sperimentato negli ultimi mesi, sovvertendo, per così dire, le regole: il metodo del «più parli, meno guadagni».

«Signora, devo chiudere. Sennò ci rimetto»

Il sistema, in uso fino a qualche settimana fa e che oggi è stato sospeso a causa delle proteste degli operatori, è presto spiegato: bisogna sapere che le telefonate che arrivano dai clienti Tim, vengono retribuite solo se superano i 20 secondi. Ovvero, da 1 a 20 secondi di dialogo l'operatore lavora gratis: successivamente, il compenso cresce in maniera progressiva, fino a raggiungere gli 85 centesimi di euro quando si arriva a parlare per due minuti e 41 secondi. E dopo? Da due minuti e 41 a tre minuti il guadagno resta fisso a 85 centesimi, ma allo scattare dei tre minuti e 1 secondo torna indietro: l'operatore perde 5 centesimi, e torna a 80. Un «gioco dell'oca» dei compensi, di cui fanno le spese - è facile immaginarlo - non solo i lavoratori, ma anche i clienti del servizio 119. «Certo, io raggiunti i 2 minuti e quarantuno secondi faccio di tutto per chiudere - spiega una delle operatrici - In questo modo siamo spinti a trattare in maniera sbrigativa i clienti, perché l'azienda ha calcolato che una telefonata non deve durare più di tre minuti». Come abbiamo già detto, il sistema non è più in uso, ma in cambio la Cos ha modificato in peggio i parametri per il calcolo del compenso, applicando la novità retroattivamente. Risultato: molti lavoratori hanno trovato in busta paga meno di quanto si aspettavano, pur avendo maturato il loro guadagno secondo le regole precedenti.

L'accordo di maggio e la rotta dei sindacati

Ma la protesta di questi giorni non si è sviluppata solo per i «capricci» della Cos nello stabilire (pressoché unilateralmente) i compensi legati alle chiamate: gli operatori non sopportano più le condizioni di lavoro (in particolare sui problemi della sicurezza e del rispetto della legge 626), e chiedono lavoro stabile per il futuro. Sembrano destinati infatti a una perenne precarietà, dato che l'accordo del maggio di un anno fa - siglato dai sindacati confederali - è ancora inapplicato e in totale stallo. Le diverse sigle stanno implodendo: i delegati della Cgil, ormai in rotta esplicita con quelli di Cisl e Uil, hanno deciso di appoggiare lo sciopero della scorsa settimana, organizzato da un collettivo autonomo di precari. A loro si sono uniti, per solidarietà, le Rsu Cgil di Cos e Cosmed (rappresentanti dei dipendenti), e quelle della Finsiel (ramo informatico della Telecom, recente acquisto della stessa Cos).

L'accordo cui ci riferiamo è quello siglato nel maggio dello scorso anno: si fissava allora che i cococò di Atesia sarebbero stati trasformati in contratti di apprendistato (per le fasce di età 18-23 anni), apprendistato professionalizzante (fascia 24-29 anni), inserimento (categorie «deboli» e di collocamento più difficile, come le donne) e cocoprò (detti anche «lap», ovvero lavoratori a progetto, ugualmente precari). Nel frattempo, per mettere a punto il cambiamento contrattuale, la Cos ha ottenuto, grazie a un accordo con i sindacati, la proroga di tutti i cococò fino al settembre 2005. Ha dunque proceduto a mettere nero su bianco i contratti di apprendistato da far firmare ai lavoratori. E qui è scattata la rivolta.

Il contratto da apprendisti, lungo 26 mesi, prevedeva infatti un compenso di partenza di 380 euro lordi per 20 ore a settimana (la retribuzione sarebbe poi cresciuta progressivamente, giungendo al ventiseiesimo mese ai 560 euro lordi previsti dal contratto delle tlc). Il piccolo particolare è che la Cos ha pensato bene di inserire una disponibilità per i turni 24 ore su 24 e 365 giorni l'anno, impedendo così ai lavoratori di poter trovare un qualsiasi altro impiego part time per integrare il già magro compenso. Oltretutto, si proponeva agli operatori di rinunciare al pregresso: ovvero, se firmi non puoi più fare causa per lo sfruttamento subito negli anni passati. Risultato: su 207 persone, hanno deciso di accettare solo in 16. Mentre i delegati Cgil su questo punto hanno deciso di smarcarsi: «E' davvero troppo - dice Pompeo Scopino, del Nidil - Chiedere la disponibilità dei turni e la rinuncia al pregresso è inaccettabile». Intanto, mentre centinaia di lavoratori partecipavano alla protesta, i delegati Cisl e Uil restavano barricati dentro: «Dicono che siamo estremisti, che fuori ci sono i terroristi», spiegano gli scioperanti riuniti davanti all'entrata del call center. Ma francamente, nello spiazzo di Cinecittà noi abbiamo visto una protesta compostissima, fatta da tante persone che hanno solo il desiderio (e crediamo anche il diritto) di un impiego dignitoso e stabile.

«A cinquantacinque anni sono precaria»

Tra i pericolosi «estremisti», moltissimi i lavoratori over 40 e 50, stanchi dello sfruttamento al call center: «Io ho cinquantacinque anni - spiega una delle operatrici - e sono qui dentro da quando ci facevano pagare la postazione con la partita Iva, a metà anni Novanta. Perché scioperiamo? Innanzitutto per le condizioni di lavoro: l'ambiente non è climatizzato e si muore di caldo, le postazioni non sono insonorizzate, siamo costretti a lavorare appiccicati. E poi la precarietà: adesso se lavoro molto riesco a fare 800 euro al mese, forse in ottobre ce ne offriranno 600 per un contratto con uno straccio di contributi. Ma che futuro è questo?». «Lo stesso sindacato - aggiunge un'altra lavoratrice - dovrebbe fare una vertenza forte: dopo tanti anni, basta con i cococò, i cocoprò e simili: abbiamo diritto a un lavoro stabile e ben retribuito». Una ragazza ci mostra l'agendina dove segna le telefonate fatte: «Ecco, sabato scorso ho lavorato 6 ore e ho fatto sì e no 7 euro: ma si può continuare così?».

Se la rottura tra i delegati Cgil e quelli Cisl e Uil è dunque maturata soprattutto sulle liberatorie per il pregresso, oggi in Atesia l'ambiente sembra pronto per organizzare scioperi partecipati e convinti, che puntino a una vera stabilizzazione, scavalcando tutte le trappole precarizzanti introdotte della legge 30: «Non possiamo più andare dietro all'azienda e firmare tutto quello che propone, dobbiamo avere il coraggio di chiedere di più», dicono i precari autorganizzati.

D'altra parte, la Cos concorda gli obiettivi da raggiungere con la Telecom, e non mostra i compensi che riceve per le commesse: se le retribuzioni dei lavoratori e la durata dei contratti precari dovessero seguire sempre il mercato, si andrebbe a una corsa al ribasso infinita. Non sarebbe ormai tempo di stabilizzare tutti gli operatori che da anni, ininterrottamente, rispondono allo stesso telefono? Garantirebbe anche i clienti, non più costretti a subire meccanismi diabolici quali il «più parli, meno guadagni».

 

Davacom in nero. A Roma call center come funghi
Irregolari e licenziati, sei operatori fanno causa a una piccola azienda che lavora in appalto per la Telecom
AN. SCI.
Porta Portese, il giornale romano degli annunci, è pieno di messaggi per chi cerca lavoro: «Offriamo impiego a consulenti...». Nella capitale i call center fioriscono come funghi, frutto di appalti e subappalti per conto delle grosse compagnie. Tanti giovani (ma non solo loro) telefonano e fanno il colloquio. Il posto è tuo. Oggi parliamo di un piccolo call center nella centralissima zona di Piazza Bologna, la Davacom sas di via D'Arborea 30, dove sei ragazzi ne hanno passate di tutti i colori. Hanno dovuto penare per ottenere un contratto regolare, trasparenza nei pagamenti e il denaro guadagnato in due mesi. Ma non appena hanno chiesto ragione agli «imprenditori» (loro coetanei) della Davacom, sono stati licenziati in tronco. «Il colloquio di assunzione è stato solo formale - racconta un'operatrice - e subito siamo stati inviati a fare un corso di formazione a Pomezia di tre giorni, a nostre spese e non retribuito. La Davacom prendeva commesse dalla Serviti srl, a sua volta collegata alla Ermetel di Pomezia, che appunto teneva le lezioni. Il tutto su commesse Telecom: per conto della compagnia telefonica, e a nome suo, avremmo dovuto fissare gli appuntamenti dei clienti privati con i consulenti».

Finito il corso, i primi dieci giorni di lavoro erano considerati «di prova», pagati a provvigione: ogni appuntamento andato a buon fine (visita effettuata e contratto firmato), sarebbe stato retribuito 5 euro. Chi fosse stato confermato dopo i 10 giorni, avrebbe avuto un contratto a progetto con un fisso orario di 6,25 euro lordi, più le provvigioni. Ebbene, il contratto a progetto non è mai arrivato: l'unico pezzo di carta firmato dai ragazzi, senza data di inizio del lavoro, nè durata, nè fissazione del compenso, è un semplice «contratto di prestazione occasionale».

«E' una tipologia per nulla adatta al lavoro che abbiamo svolto - spiega un altro operatore - Avevamo i turni, stavamo al call center per 4 ore al giorno, e inoltre il rapporto occasionale è valido solo se si lavora per un massimo di 31 giorni all'anno». Dunque il pesce puzza sin dalla testa, senza citare le «furbate» che i capi chiedevano di raccontare ai clienti: «Vuole un telefono Aladino flip? Lo paga in comode rate bimestrali da 10,40 euro». Dizione veloce e ingannevole: in bolletta arrivava un conto di 20,80 euro a bimestre. In altri casi, poiché la Davacom riceveva più denaro quanti più appuntamenti fissava, gli operatori erano invitati a segnare appuntamenti comunque, anche quando i problemi dei clienti non avevano niente a che fare con le competenze dei consulenti.

Ai ragazzi era anche impossibile controllare che i contratti fossero realmente stati firmati o meno. Insomma, c'è chi ha guadagnato solo 10 euro in 10 giorni, i più fortunati 40 euro. Morale della favola: passati i 31 giorni del «contratto occasionale», gli operatori chiedono un incontro per ottenere (almeno) il contratto a progetto e, passati già due mesi di lavoro, i propri compensi. Risultato: ci dispiace, siete licenziati. Giustificazione: la commessa su cui lavorate si è esaurita. Ma non preoccupatevi - conclude la Davacom - se ci sarà nuovo lavoro vi richiameremo. Adesso i 6 giovani hanno deciso di fare causa, e una videoinchiesta sui precari.

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista