Tempi di lavoro: Bruxelles mette indietro le lancette
Oggi l'europarlamento al voto sulla controversa proposta di direttiva in materia di orario. A sole tre settimane dai referendum costituzionali in Francia e Olanda un nuovo pericoloso attacco ai diritti sociali
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
Rapporto Unione-Stati, principio di sussidiarietà, nuova Europa contro vecchia e viceversa, strategia di Lisbona, diritti dei lavoratori, rispetto della salute e della sicurezza, delocalizzazioni e dumping sociale: il dibattito sulla direttiva sull'orario di lavoro ha toccato ieri il cuore aperto dell'Europa, con il rischio di mandarlo in tilt. Soprattutto rischia di rendere la vita tutta in salita per milioni di lavoratori europei. A due settimane dal referendum francese l'europarlamento ha così fatto emergere tutte le contraddizioni che ruotano attorno al modello sociale europeo, in questi tempi di vacche magre e di incubi cinesi. Il clima è caldo, come il tema. La commissione Ue, una buona fetta dei governi e parte dell'eurocamera (quella della destra iperliberale, che raccoglie consensi tra i rappresentanti di Regno unito, paesi dell'est, Danimarca, e tra i banchi degli euroscettici) pretendono di sacrificare sull'altare della flessibilità il diritto a un orario di lavoro massimo stabilito e compatibile con il rispetto della salute e della sicurezza, come riconosciuto dalla stessa Costituzione europea. L'obiettivo è quello di avere un armamentario di deroghe per far lievitare il limite di 48 ore settimanali fino a oltre le 60. E per farlo invocano gli obiettivi della Strategia di Lisbona (che nella nuova versione, firmata dai 25 a marzo, dimentica il lavoro), il diritto di ogni stato di porre limiti in sintonia con il proprio sistema produttivo e il diritto dei nuovi paesi membri di sviluppare un modello che gli permetta di competere meglio nel mercato Ue. Il tutto a spese dei lavoratori, ben inteso. Come afferma il popolare britannico Giles Chichester, presidente della commissione Industria del parlamento, «le accuse agli stati membri di dumping e di schiavismo servono solo a nascondere che con questa direttiva stiamo aumentando il potere dell'Europa». Per loro va bene la proposta della Commissione, che permette di estendere a tutto il continente la deroga concessa nel 1993 al solo Regno unito: l'opt out, o rinuncia individuale al limite orario.

Un'altra parte rilevante del parlamento - l'alleanza trasversale che va da una parte dei popolari fino a tutti i verdi - sceglie il compromesso tra flessibilità e diritti per eliminare buona parte, anche se non tutte, le deroghe inserite dalla Commissione. Si tratta della proposta redatta dal socialista spagnolo Alejandro Cercas e benedetta pure dalla Confederazione dei sindacati europea, la Ces, e tantissime organizzazioni per l'uguaglianza tra uomo e donna. «Non è l'Europa che deve adattarsi al modello sociale asiatico, ma viceversa - dice Cercas in aula - e le leggi devono valere per tutta l'Europa: porre eccezioni equivale a contraddire la direttiva sulla salute e la sicurezza sul posto di lavoro, e la Costituzione». Cercas e alleati dicono perciò un chiaro No all'opt out, e sono però disponibili a calcolare in modo elastico le «ore di guardia» (dividendole fra attive e inattive) e a conteggiare l'orario di lavoro sulla media annuale e non quadrimestrale, pur con alcune garanzie, come l necessità di «contratti collettivi» e del rispetto della «salute e della sicurezza».

La proposta vuole tenere conto delle «necessità produttive» delle industrie e mantiene, mascherandolo, il principio dell'orario massimo. Nella pratica però può portare oltre le 60 ore settimanali. I comunisti chiedono di più: abbassare l'orario a 42 ore e cancellare tutte le deroghe. «E' dal 1919 che siamo fermi alle 48 ore», accusa Dimitrios Papadimoulis a nome del gruppo, e poi: «lei, commissario, si farebbe operare da un chirurgo che si è fatto 30 ore di guardia?». No dunque anche al conteggio differenziato per la guardie: «cancella tre sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo, con la bella invenzione di dividere tempo attivo e inattivo». Il commissario al Lavoro Vladimir èpidla ascolta e scuote la testa: alla fine si dice disponibile a trattare sulle guardie e sul conteggio settimanale dell'orario (che però sono già flessibilizzate nel testo del parlamento). Ma il nocciolo della direttiva resta identico: nessun pentimento sull'«opt out».

Oggi si vota, emendamento per emendamento. Cercas avverte che se non si boccia l'opt out ci sarà scontro anche sugli altri punti, e può avere dalla sua una massa critica per alcuni cambiamenti, ma nulla è certo. I comunisti voteranno solo gli emendamenti che ritengono condivisibili, non quelli su guardie e conteggio annuale. Claude Turmes dei Verdi li mette in guardia: «Attenti a non far vincere con il vostro no i peggiori conservatori». Il clima è teso.

 

La direttiva vista da vicino
Tre i punti più controversi: opt out, guardie e calcolo dell'orario
A. D'Arg.
Il conflitto sulla direttiva sull'orario di lavoro si gioca su tre punti: opt out, guardie e conteggio settimanale. L'opt out, o rinuncia volontaria, fu voluto da Londra nel 1993 al momento di definire la prima versione della norma comunitaria. Nella pratica un lavoratore può decidere se intende rinunciare al limite massimo di ore settimanali. Sono 5 milioni i lavoratori britannici che hanno firmato l'opt out, di questi oltre la metà è stato circuito e un'altra buona fetta ha dovuto firmare sotto minaccia di perdere il contratto di lavoro. Adesso la Commissione propone di estendere l'opt out in tutta la Ue mentre la proposta del Parlamento firmata da Alejandro Cercas lo vuole eliminare in tre anni.

Guardie. La Commissione non vuole calcolare le guardie nell'orario di lavoro, come invece indicano ben tre sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo. La questione riguarda assai da vicino personale medico e paramedico ma anche impiegati dei trasporti, pompieri e operatori sociali. Cercas propone una valutazione a metà: tutte le guardie - quelle attive e quelle inattive - devono essere retribuite ma al tempo stesso lascia agli stati libertà nel calcolare, all'interno del tetto delle 48 ore settimanali, una parte o nessuna delle ore inattive (come il sonno sul luogo di lavoro).

4 o 12 mesi. La Commissione vuole calcolare l'orario massimo settimanale sulla media di un anno, favorendo quindi la flessibilità e le necessità del ciclo produttivo. Cercas vuole il calcolo su 4 mesi ma apre al conteggio annuale se è figlio di «contratti collettivi» e rispetta il diritto alla «salute ed alla sicurezza». La prima opzione legalizza le 60 ore ed oltre, la seconda le maschera. Il testo della Commissione piace a tutti i paesi tranne Francia, Svezia, Grecia e Spagna che hanno chiesto l'eliminazione graduale dell'opt out. La direttiva non sostituisce limiti inferiori definiti nelle legislazioni nazionali ma mira a porre un limite massimo che vale per tutta la Ue. Il testo passa oggi in prima lettura al Parlamento e un No con oltre 360 voti, si augura Cercas, aprirebbe la possibilità di una revisione in seconda lettura. L'iter dovrebbe terminare alla fine del prossimo anno.

 

 

 

 


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