L’organizzazione
del lavoro
“Ci sono due modi per aumentare la produttività. Il primo si fonda sullo sviluppo del volume di produzione, il secondo sulla riduzione dell’organico addetto alla produzione. Il primo metodo è evidentemente il più popolare. Ed è anche il più semplice. Il secondo implica infatti il rielaborare in tutti i suoi dettagli l’organizzazione del lavoro”[66].
Queste parole di Ohno, padre del cosiddetto Toyota Production System, ci svelano con esattezza l’origine delle capacità produttive di Melfi. Le innovazioni tecnologiche e strutturali della Fabbrica integrata, sebbene siano certamente di una certa rilevanza, non sarebbero sufficienti a giustificare un simile aumento della produttività. L’apporto maggiore è piuttosto da ricercare nell’interazione tra l’alta automazione e la componente organica del lavoro. I principali dispositivi innovativi del sistema Toyota (kanban, baka yoke, andon, gestione a vista) si rivelano immediatamente, ad un’analisi non superficiale, dei dispositivi tecnologici-organizzativi.
D’importanza fondamentale è stata anche l’introduzione di una nuova metrica del lavoro. Con l’accordo aziendale dell’11 giugno 1993 si è infatti scalzato il classico sistema di determinazione dei tempi della Fiat, il Tmc (Tempi dei Movimenti Collegati), per sostituirlo con il cosiddetto Tmc/2. Questo nuovo sistema cronotecnico
“rende possibile calcolare i tempi della prestazione lavorativa computando soltanto i tempi attivi di trasformazione del prodotto e comprimendo i fattori di riposo e le pause. I tempi di ogni postazione sulla linea sono quindi la somma dei secondi/minuti necessari per eseguire ogni singola operazione sul particolare”[67].
Al processo produttivo, e ai suoi protagonisti, viene così negato ogni “spreco” temporale. La risultanza concreta dell’introduzione del Tmc/2 è un’intensificazione del lavoro valutata attorno al 20%. A Melfi la saturazione media del tempo individuale degli addetti di linea arriva al 94,3% contro l’86% del vecchio sistema (vedi tab. 1), anche grazie alla possibilità di recuperare la produzione persa per le fermate tecniche o altro, aumentando la cadenza della linea di montaggio. Come vedremo, queste variazioni di velocità, spesso non preannunciate, hanno degli effetti psico-fisici estremamente negativi per i lavoratori.
|
Mirafiori |
% tempo presenza in officina |
Melfi |
% tempo presenza in officina |
Differenze rispetto Mirafiori |
Tempo presenza officina |
450’ |
|
|
435’ |
|
Tempi attivi |
387’ |
86,00 |
410,40’ |
94,35 |
+ 8,30% |
Fattore fisiologico |
18’ |
4,00 |
16,70’ |
3,84 |
- 0,16% |
Fattore riposo |
23’ |
5,11 |
3,41’ |
0,78 |
- 4,33% |
Pausa disagio vincolo |
22’ |
4,88 |
4,48% |
1,03 |
- 3,85% |
Tab. 1 – Saturazione del tempo lavorativo negli stabilimenti di Melfi e di Mirafiori
Fonte: Aa. Vv., Melfi in time, op. cit., p. 142.
La saturazione del tempo di lavoro in vigore a Melfi ha comportato un aumento della produttività rispetto a Mirafiori del 49%. Oggi, i metalmeccanici melfesi detengono una produzione media annua di 79 vetture per addetto contro le 53 per addetto dei loro colleghi di Torino e le 50 di Cassino. La Sata si presenta così come la seconda fabbrica europea dell’auto per produttività, dopo lo stabilimento Opel di Russelsheim, in Germania.
Sempre in base all’accordo del giugno 1993, un accordo che ha comportato numerosi e radicali cambiamenti nei metodi di produzione, nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni industriali[68], l’orario di lavoro giornaliero è stato suddiviso in tre turni di sette ore e quarantacinque minuti, per sei giorni alla settimana. Il settimo giorno, la domenica, è riservato alle operazioni di manutenzione e approvvigionamento. Questo schema rende praticamente ininterrotto il processo produttivo. I turni di lavoro iniziano infatti la domenica notte per finire al sabato pomeriggio. Il sistema sottoscritto dal sindacato nel ‘93 prevede l’impiego della forza-lavoro per sei giorni lavorativi per due settimane consecutive con un recupero di tre giorni di riposo alla terza settimana[69]. Questo tipo di turnazione, articolato su cicli di tre settimane, secondo lo schema A-C-B B-A-C C-B-A[70] comporta il cosiddetto problema della “doppia battuta”. Accade, in pratica, che ogni due settimane si verifichino due turni di notte consecutivi (C-B-A A-C-B) con pesanti conseguenze per i lavoratori. Sempre grazie all’accordo del 1993, che ha introdotto tra l’altro anche un nuovo sistema di remunerazione dei lavoratori e il lavoro notturno per le donne, l’orario di lavoro può essere ridefinito ogni tre anni. Rispetto agli stabilimenti tradizionali, l’organigramma dell’unità operativa della Sata (vedi fig. 4) si presenta più compatto con una riduzione dei livelli gerarchici da sette a cinque. Ogni unità operativa si divide, al suo interno, in “produzione” ed “ingegneria di produzione”.
“La prima comprende oltre all’attività di fabbricazione in senso stretto anche l’attività di pianificazione della produzione (planning) e di programmazione del rifornimento dei materiali (Programmazione e Gestione Materiali) e attività operative che riguardano la realizzazione dei programmi produttivi, il bilanciamento delle risorse umane e dei servizi tecnici di supporto alla produzione (Gestione Operativa). La seconda, l’Ingegneria di Produzione, riguarda invece il funzionamento tecnico-produttivo della struttura e comprende la Manutenzione, che svolge attività di presidio degli impianti, e i Servizi Tecnici (Tecnologia di linea, Tecnologia di prodotto/processo e Analisi Fattori), con funzioni relative al miglioramento dei cicli di lavorazione e alla prevenzione di anomalie impiantistiche e di prodotto”[71].
Per quanto riguarda l’inquadramento del personale l’organico di base della fabbrica integrata non si presenta più organizzato in “squadre” o “gruppi di lavoro”. Lungo le quattro unità produttive sono infatti disposte 35 unità tecnologiche elementari, comunemente definite Ute, secondo la seguente ripartizione: 2 allo stampaggio, 7 in lastratura, 9 in verniciatura e 17 al montaggio. Questa disomogeneità, che si ripropone anche nell’organico delle differenti Ute[72], è dovuta al diverso grado di automazione e di specializzazione del lavoro nelle differenti fasi produttive. Le Ute sono a ragione considerate le unità di base della fabbrica integrata. Collegate tra loro e disposte lungo tutto il processo produttivo, non si dedicano solamente all’esecuzione di attività standardizzate, come avveniva nella tradizionale squadra operaia, bensì sono interamente responsabili di un determinato segmento della produzione. A loro carico è infatti il controllo della qualità, la risoluzione dei problemi intervenuti alla linea, la
Fig. 4 – La struttura dell’unità produttiva. Fonte: Fiat
gestione delle forniture e, possibilmente, la partecipazione al miglioramento dei processi e dei prodotti. Le principali figure professionali della Ute sono:
· L’addetto di linea ovvero l’operaio. Questa figura, pur essendo la reale protagonista del processo di produzione e di valorizzazione, non subisce nella fabbrica integrata delle trasformazioni realmente innovative. Certo, la si arricchisce di nuove responsabilità, quali la qualità, l’autocertificazione, la segnalazione dei malfunzionamenti, ma solo per alleggerire di queste funzioni l’apparato gerarchico dell’azienda e per saturare ulteriormente il lavoro operaio.
“Qualità e quantità si fondono ancora una volta. È alta qualità la più alta densità del tempo di lavoro, la più estrema quantità di giorni, di ore, di minuti, di secondi, di centesimi di secondo pieni di valore. È alta qualità la massima quantità di profitti che l’azienda riesce a incamerare o il massimo (quantificabile) abbassamento possibile dei costi di produzione, o ancora la massima riduzione dei tempi ‘morti’”[73].
Mentre la letteratura aziendale e propagandistica nei confronti della Fabbrica integrata descrive un passaggio dall’oppressione dell’esecuzione alla scoperta di una “produttività intellettuale” dell’operaio, le inchieste operaie e l’analisi oggettiva delle condizioni di lavoro mettono a nudo la natura di un coinvolgimento forzato non solo fisico, ma anche psichico, nella nuova logica produttiva. Questa richiesta di partecipazione, di “professionalità”, di fedeltà nei confronti dell’azienda è dovuta alla necessità che ha la “nuova” impresa di rendere la forza lavoro maggiormente flessibile per gestire al meglio la propria fragilità strutturale. Non a caso chi ha descritto la Fabbrica Integrata come un lucente “tubo di cristallo” non ha potuto, in seguito, fare a meno di descrivere la partecipazione operaia alla produzione snella come “l’asservimento del fattore lavoro alle necessità critiche del sistema”.
· Il responsabile di Ute o capo Ute. Svolge il ruolo di team-leader e la sua principale responsabilità è quella di gestire e coordinare “le risorse tecniche e umane”. Sebbene i documenti aziendali parlino di un ruolo imprenditoriale e non gerarchico, la figura del capo Ute è invece saldamente incastonata nella struttura di comando della fabbrica integrata. Infatti, se per la risoluzione dei problemi tecnici intervenuti nella produzione, il capo Ute è affiancato da una serie di figure specialistiche, per la gestione del personale è responsabile, in prima persona, dell’utilizzo di tutta una serie di tecniche di controllo sociale. Questa particolare posizione comporta una duplice pressione nei suoi confronti: dal vertice aziendale per il conseguimento degli obbiettivi produttivi e dalla base operaia dell’Ute che, riconoscendo la funzione gerarchica di questa figura, vi si rapporta spesso conflittualmente. Le inchieste operaie coordinate da Rieser hanno infatti messo in luce una certa continuità di questa figura con il ruolo di capo intermedio degli stabilimenti più tradizionali. Il forte turnover dei capi conferma, infine, l’esistenza di un malessere radicato, dovuto alla pressione conflittuale, propria ed inscindibile dal sistema di produzione capitalistico, che l’azienda ha in parte concentrato su di essi.
· Il conduttore di processi integrati (Cpi) e l’operatore di processi integrati. Il Cpi/Opi è il principale collaboratore del capo Ute ed ha, in parte, sostituito la tradizionale figura del capo reparto. Nonostante questo, è una figura formalmente operaia ed anche le sue funzioni principali, ovvero la formazione degli operai generici e il controllo sull’andamento della qualità, devono essere spesso sacrificate alle esigenze strettamente produttive della linea. A detta di un conduttore stesso:
“…il nostro ruolo ormai non ha più una sua precisa collocazione, sembra più simile a quello del ‘tappabuchi’ Con il sistema di riposo che c’è a Melfi, il capo Ute un giorno alla settimana è assente, allora quel ruolo lo copre il Cpi, e se manca il cartellista fa anche questo, insomma fa quello che vuole e decide l’azienda…”[74].
· Il tecnologo di Ute fa capo all’ingegneria di produzione, e non alla produzione come il resto del personale di Ute, ma risponde al responsabile di questa. Si tratta di una figura specialistica, il cui compito è quello di assicurare l’efficienza tecnica degli impianti.
Vi sono infine altre due figure che pur non appartenendo direttamente alla Produzione, intervengono ampliamente nell’attività della Ute.
· Il manutentore che viene impiegato nella prevenzione e nella risoluzione delle anomalie di funzionamento degli impianti.
· Il rifornitore di Ute, ovvero il vecchio carrellista inquadrato ora nella logica just in time.
La focalizzazione delle funzioni e della struttura dell’Unità Tecnologica Elementare, e la loro decontestualizzazione, ha fatto sì che molti autori abbiano parlato di una sua “autonomia decisionale ed operativa”, “funzione micro-imprenditoriale” e, contemporaneamente, di una “alfabetizzazione della catena”. In realtà rimane la produzione, con i suoi ritmi e le sue costrizioni strutturali, a governare la fabbrica.
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