L’ideologia

 

Nel 1990 venne pubblicato un testo fondamentale per la divulgazione del cosiddetto sistema di produzione Toyota. Finanziato dalle maggiori aziende automobilistiche del mondo, dai fornitori delle stesse e da numerosi enti governativi, venne redatto da un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT). In questa ricerca venne presentato al pubblico non accademico dei paesi occidentali il sistema produttivo impiegato nell’industria automobilistica giapponese. L’analisi si concentrò in particolar modo sulla logica e sulle tecniche di tale sistema, trascurando appositamente le specifiche caratteristiche culturali della società nipponica. Differenziandosi così dai precedenti studi culturalisti – e conseguentemente nazionalisti e protezionisti –, questa ricerca volle soprattutto dimostrare come

 

“le idee fondamentali della produzione snella siano universali, applicabili in qualsiasi luogo e da chiunque”[1].

 

Dopo aver svelato efficacemente la superiorità del sistema giapponese, contrapponendolo all’ormai obsoleto, secondo la loro analisi, sistema fordista-taylorista, gli autori concludevano dichiarandosi

 

“convinti che alla fin fine, la produzione snella soppianterà sia la produzione di massa sia le vestigia di produzione artigianale in tutte le iniziative industriali e diventerà il sistema standard di produzione mondiale nel ventunesimo secolo. Quel mondo sarà molto diverso e assai migliore”[2].

 

La medesima contrapposizione netta ed antitetica tra il sistema di produzione di massa propugnato da Henry Ford ed il toyotismo veniva riproposta da Giovanni Agnelli, nell’introduzione all’edizione italiana. Il presidente della maggiore industria automobilistica italiana vi sottolineava, infatti, come dal lavoro del MIT scaturisse

 

“la constatazione di una innegabile obsolescenza dei principi e dei criteri che hanno guidato da Ford a oggi le logiche d’impresa in America e in Europa. Ne emerge la contrapposizione tra l’idea di produzione di massa, centrata su grandi volumi, sulla standardizzazione spinta e sulla indifferenziazione del fattore lavoro, e l’idea di lean production, articolata sulla flessibilità, sulla agilità delle strutture, sull’apporto creativo dei singoli che partecipano al processo produttivo”[3].

 

Questa visione manichea diviene ben presto il principale pilastro ideologico su cui poggiare l’esperienza dello stabilimento di Melfi. Coerentemente, la “qualità totale”, perseguibile proprio grazie all’applicazione dei criteri della “produzione snella”, viene allora dipinta come un improcrastinabile e progressivo superamento della teoria della “quantità totale”. L’inasprimento della concorrenza, scaturito dal protrarsi della crisi economica degli anni ’70, sembra trovare, in questa nuova filosofia produttiva, un elemento di regolazione generale proprio nel confronto basato sul miglioramento qualitativo del prodotto[4]. Si maschera così la necessità strutturale di una maggiore flessibilità del lavoro con la ricerca della “qualità totale”. E, come lo stesso Agnelli ha apertamente dichiarato:

 

“oggi la flessibilità è assolutamente necessaria per poter competere in modo efficace. Occorre flessibilità nell’organizzazione degli orari di lavoro per poter aumentare il tasso di saturazione degli impianti […]. Occorre flessibilità nella distribuzione del lavoro per poter adeguare i volumi produttivi alle oscillazioni della domanda. […] In una competizione di natura internazionale il livello di flessibilità necessaria deriva direttamente da quella dei nostri concorrenti”[5].

 

Il cuore di tutto il meccanismo rimane comunque il profitto, ma elevato ad elemento naturale ed indiscutibile della produzione industriale e, soprattutto, mondato da ogni peccato originale.

La gravità delle condizioni di lavoro sarebbe quindi qualcosa da accettare come necessità, dato che le leggi di mercato non possono essere messe in discussione, né può esserlo l’organizzazione produttiva che esse impongono all’azienda. Con le parole di Cesare Annibaldi, responsabile delle Relazioni Esterne del Gruppo Fiat:

“..ciò che fa l’azienda è necessario che avvenga: se l’azienda ha previsto di mettere in lavorazione su una linea un certo prodotto, oppure di variare a un certo punto i livelli produttivi, lo fa perché è il mercato a imporglielo. Trasformare questo nell’oggetto di un confronto sarebbe velleitario…”[6].

 

Secondo un altro importante dirigente della Fiat Auto, Maurizio Magnabosco,

 

“con il nuovo modello, in pratica, ogni attività è vista come parte di un processo più ampio che deve soddisfare un determinato ‘cliente’: l’acquirente finale o l’ente più a valle”[7].

 

In tal modo il comando sul lavoro non viene più esercitato dal capitale, bensì dall’agente ultimo del mercato (o supposto tale), il cliente. L’applicazione concreta di questa presunta “sovranità del consumatore” sulla fabbrica viene allora descritta come una sorta di rovesciamento del tradizionale processo produttivo dove i lavoratori si vedono sottoposti ad una sorta di rivoluzione copernicana, sintetizzata da Ohno nel precetto “pensare all’inverso[8]. Non sarebbe più, quindi, la produzione, e l’ossessione per la produzione, a dettare ritmi e modalità. Un’inversione ben più reale viene invece concretamente realizzata tramite una serie di dispositivi tecnici (kanban) ed organizzativi (just in time ed autoattivazione) che, parallelamente allo scorrere del flusso reale della produzione, costituiscono un flusso inverso di informazioni e, soprattutto, di comandi. Da queste processo scaturisce inevitabilmente anche una duplicazione del controllo sul lavoro. Il nuovo sistema rende così possibile l’eliminazione di ogni “spreco” presente nel processo lavorativo e non ancora soppresso dall’organizzazione scientifica di Taylor. Questo tentativo di ottimizzazione assoluta dei costi e dei tempi di produzione si avvale, è bene notarlo, delle tecniche di analisi tayloristiche, ovvero dello stesso sistema produttivo che si vorrebbe fosse drasticamente superato.  L’individuazione di questi fattori di perdita, individuati da Ohno in: 1) sovrapproduzione, 2) tempi morti, 3) trasporti e manutenzioni inutili, 4) processi lavorativi inutili o inopportuni, 5) stoccaggio eccessivo, 6) movimenti inutili, 7) produzione di pezzi difettosi, si traduce, in ultima analisi, in una totale saturazione del tempo di lavoro. Che lo spreco sia spaziale o temporale, il suo abbattimento non può infatti che tradursi in una aumentata intensità e costrittività del lavoro. Accade allora che la presunta antiteticità tra il “vecchio” e il “nuovo” sistema produttivo finisca inevitabilmente con lo scontrarsi con la realtà della linea produttiva. Le dirigenze d’altronde non lo nascondono, o almeno, non lo nascondono del tutto. L’”asservimento del fattore lavoro alle necessità critiche del sistema”[9],come è stato correttamente definito dall’azienda, comporta un’inevitabile aggravamento delle condizioni generali di lavoro. In primis in termini di orari e ritmi di produzione, ma senza dimenticare come il lavoro alla linea di montaggio continui ad essere ripetitivo, standardizzato, dominato da brevi cicli operativi. Lo stesso Romiti, amministratore delegato della Fiat Auto ed ideologo del “Piano della qualità totale”[10], dichiara candidamente:

 

“non si può certo entrare nella vita delle fabbriche o in quella dei cittadini con il modello giapponese, perché per noi occidentali quel modello è inammissibile”[11].

 

 Occorre allora, per traghettare l’azienda torinese verso il nuovo sistema, piegare assolutamente ogni resistenza, spianare ogni ostacolo, ma soprattutto, raggiungere una totale partecipazione operaia. A questo obbiettivo occorre adeguare anche la filosofia aziendale.

L’”integrazione” dei lavoratori agli obbiettivi aziendali diventa parte integrante del piano Fiat per la qualità totale. L’appiattimento della soggettività operaia ad una accondiscendenza neocorporativista, per quanto mascherata ed abbellita da termini come “partecipazione” o “coinvolgimento attivo”, è infatti un presupposto vitale per la realizzazione del nuovo sistema di organizzazione della produzione. Lo stesso Romiti sottolinea come la

“necessità di perseguire l’obbiettivo della qualità totale ripropone oggi, con decisione, il tema della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa”[12].

 

La “partecipazione” dovrebbe, inoltre, servire ad allentare quello che l’ideologia aziendale definisce il legame tra le relazioni industriali e la politica. Il sorgere di una conflittualità aperta tra lavoratori ed azienda mal si accorderebbe con la fragile struttura della fabbrica “snella”. Ogni elemento di conflittualità si deve pertanto ridurre alla dimensione del singolo lavoratore, adeguandosi alla nuova dimensione di operaio-individuo della forza lavoro. Ogni elemento di conflittualità deve essere risolto all’interno dell’azienda stessa. Al sindacato, ed ai suoi delegati interni, non spetta altro che un mero ruolo consultivo e di regolazione della microconflittualità. Non a caso, nei documenti aziendali sul nuovo sistema produttivo, il sindacato è praticamente assente. La battuta di Cesare Romiti «dopo quella del sindacato contro la Fiat e della Fiat contro il sindacato, è arrivata la fase della Fiat d’accordo con il sindacato» simboleggia abbastanza chiaramente a quale tipo di relazioni industriali si stesse aspirando. Che sia benvenuta quindi la “democrazia industriale”, benché rimanga ben salda ai canoni della “concertazione”. Detto questo, tutto l’apparato ideologico della Fiat rimane, però, ancora sguarnito di fondamenta stabili. Su cosa costruire infatti questa indispensabile “partecipazione” operaia? Come ricompensare il peggioramento delle condizioni complessive del lavoro? Poiché fino ad ora, all’analisi dei fatti, il toyotismo si è rivelato, non come una nuova organizzazione del lavoro, bensì come lo sviluppo dell’organizzazione scientifica di Taylor in una determinata fase della crisi capitalistica. Il suo obbiettivo evidente è la realizzazione di una fabbrica sempre più fluida e flessibile, capace di velocizzare al massimo i processi di creazione e di realizzazione del plusvalore, mettendo il capitale, al contempo, al riparo dalle fluttuazioni del mercato ed alle congiunture economiche più generali. Ecco allora la risposta di Annibaldi:

 

“ai lavoratori si chiede di più e dunque bisogna dare loro di più. Ma ciò che si può dare loro non si misura, oltre un certo limite, in termini retributivi, a causa dei vincoli economici connessi alle prospettive di crescita, e neppure in garanzie occupazionali superiori a quelle consentite dalle condizioni di mercato. Non può consistere allora che in un’attenzione, in un riconoscimento della loro attività, consentendo loro di esplicare le potenzialità aperte dalla nuova organizzazione del lavoro”[13].

 

Ed inoltre:

 

“la motivazione alla qualità totale dipende prevalentemente da fattori non materiali: dalla valorizzazione della professionalità, dal suo arricchimento attraverso le attività di formazione, dalla saldatura tra il momento dell’azione e quello del controllo che si erano venuti divaricando nella logica organizzativa tipica dell’impresa tayloristica”[14].

 

Certamente ben poca cosa rispetto alle contropartite concesse ai lavoratori giapponesi fin dagli anni ’60. In particolar modo se confrontato all’istituzione di un vero e proprio welfare aziendale, incentrato soprattutto sui sistemi dell’”impiego a vita” e del “salario per anzianità”[15]. Una concessione, inoltre, rilasciata anche in seguito (ma non solo) allo smantellamento storico di un sindacalismo estremamente combattivo ed alla costituzione, al suo posto, di ben 80.000 sindacati aziendali. Un processo segnato profondamente dalla pesante sconfitta operaia del 1952, dopo ben 55 giorni di lotta per la rivendicazione salariale e contro la razionalizzazione produttiva[16]. Lotte ancor più significative se considerate all’interno del quadro delle politiche antioperaie, e più in generale antidemocratiche, condotte fin dal primo dopoguerra dalla classe dirigente giapponese con il sostegno (e spesso la guida attiva) del generale statunitense Douglas MacArthur[17]. La controparte offerta dalla Fiat appare, invece, inconsistente, assai meno ragionevole delle solide e materiali garanzie che il sistema di relazioni industriali giapponese ha assicurato agli operai (garantiti) fino agli inizi degli anni novanta[18]. Soprattutto quando, davanti alla realtà di un lavoro ancora, ed inevitabilmente, eterodiretto, gerarchizzato, standardizzato e dai ritmi “massacranti”, cadono le ultime illusioni sulla “lean production”. Il tentativo sistemico di superare questa impasse strutturale si traduce così in vasta campagna propagandistica. Occorre necessariamente, infatti, rendere i lavoratori partecipi dell’ideologia falsificante della “fabbrica integrata”.