L'opposizione alla guerra in Gran Bretagna

dopo gli attentati di Londra

 

Dal manifesto 10 luglio 2005  

«Via le truppe», la rabbia pacifista a Londra resta sola
Volti mesti, bandiere listate a lutto, tremila pacifisti si sono ritrovati ieri a un passo dall'autobus sventrato dalle bombe a Tavistock square. Unici, in una città apparentemente indifferente, a chiedere ancora il ritiro dall'Iraq, a parlare delle responsabilità del governo, a lanciare un ponte col mondo islamico
ANGELO MASTRANDREA, INVIATO A LONDRA
Il look antigiottino e pacifista è quello di sempre. Sì, sono proprio quelli che qualche giorno fa sfilavano sorridenti e incazzati a Edimburgo e Gleneagles. Ma le facce no, quei visi cupi e privi di allegria non sono per niente gli stessi, pare passato un secolo e sono appena pochi giorni. La catena umana da mezzo milione a cingere di bianco il castello di Edimburgo, l'Africa e il debito, la guerra e i cambiamenti climatici, la base militare nucleare di Faslane e il centro di detenzione per immigrati di Dungavel, l'invasione della zona rossa proprio mentre radio e tv festeggiavano Londra 2012, le Olimpiadi vinte e la rivale Parigi superata sul filo di lana. E' cambiato tutto. I volti mesti, gli applausi senza slogan, le bandiere listate a lutto, al braccio una fascia nera. Solo la rabbia rimane uguale, ieri contro i G8 oggi contro Bush e Blair e la loro sporca «guerra al terrorismo». Che è come dire la stessa cosa. Anche la città non è più la stessa, i cartelloni "London 2012" sono spariti e le uniche manifestazioni non cancellate sono quelle per l'anniversario della vittoria sul nazifascismo che inevitabilmente si tireranno indietro un bel po' di paralleli e retorica. I pacifisti si ritrovano alle 17 a Euston road, a un passo da quelle barriere presidiate dalla polizia che somigliano tanto a una «zona rossa» ma che servono solamente a mascherare l'orrore. L'autobus sventrato di Tavistock square è lì a un passo, si rovista ancora tra le lamiere, sarebbe bello portare le bandiere arcobaleno laggiù nella piazza che ospita gli omaggi a Gandhi, Hiroshima e l'Olocausto. Pure King's Cross è a pochi isolati di distanza, sotto i nostri piedi da qualche parte si continua a scavare e potrebbero trovarsi i resti di alcune delle 25 persone ufficialmente «missing», «disperse». Forse Shahara Islam, 20 anni e musulmana, o forse Laura Webb, 29 anni e cristiana, le cui foto compaiono sulle prime pagine dei giornali a testimoniare come le bombe non facciano particolari distinzioni religiose. Alcuni hanno portato dei fiori, e finalmente c'è qualcuno che prova a scuotere una città che continua ostinatamente a fare come se nulla fosse accaduto, istigata ed elogiata da media e governo. Domani si festeggia la fine della seconda guerra mondiale e la stampa ricorda come anche sotto le bombe naziste andò allo stesso modo, business as usual, al lavoro tra le macerie della City.

In piazza appaiono pochi, troppo pochi se si pensa alla Londra pacifista del 15 febbraio 2003, due o tremila persone a fronte dei due milioni che chiedevano a Blair di non portarli in Iraq, e anche a qualche giorno fa in Scozia, la «middle England» che sfila per un mondo senza guerre e contro gli Otto rinchiusi in campagna. Ma nell'apparente indifferenza di una città di otto milioni di abitanti appaiono gli unici a gettare un ponte con il mondo islamico e a parlare delle responsabilità del governo Blair e non solo degli errori dell'intelligence. Non lo ha fatto la Bbc che pure aveva creato non pochi problemi all'esecutivo sull'Iraq, e fa impressione non vedere sull'argomento neppure un articolo politico, fatta eccezione per il solito Robert Fisk, inviato di guerra controcorrente, e il solito George Galloway, deputato altrettanto controcorrente e unico rappresentante in parlamento di Respect. Tanti i musulmani, uomini e donne con il velo, tra la gente arrivata a rendere omaggio alle vittime. La British muslim association partecipa da sempre alle manifestazioni pacifiste e ha condannato fin dal primo momento gli attentati. Un suo portavoce prende la parola, al megafono come nelle occupazioni scolastiche perché il microfono non va, e conclude con un «troops out», «via le truppe» dall'Iraq e dall'Afghanistan. Ma è poco più di un atto di testimonianza: a chiedere il ritiro dei militari oggi sono solo loro, nel deserto della politica ufficiale, e per tentare di rimettere in piedi qualche iniziativa bisognerà attendere almeno che passino i giorni del lutto. Fosse stato come a Madrid un anno fa sarebbe stata tutta un'altra cosa, ma le bombe non hanno provocato alcuna reazione popolare e addirittura, almeno stando ai sondaggi, avrebbero fatto crescere i consensi nei confronti di Blair.Tra l'onnipresente Galloway e il deputato laburista e pacifista James Corbyn parla anche il padre di un soldato morto in Iraq, e dall'estero arrivano messaggi di solidarietà. Portano la firma degli americani di United for peace and justice e dell'associazione dei familiari delle vittime dell'11 settembre, del movimento francese e di altri europei. A ricordare loro che non sono soli, che il movimento contro la guerra va ben oltre i confini della Manica e che l'alternativa alla guerra e alle bombe forse si può provare a costruirla insieme.

 

Dal manifesto del 16 luglio 2005

Labour, il congresso degli anti-Blair
Inizia oggi la riunione della sinistra laburista, che discute il dopo-bomba
ORSOLA CASAGRANDE
La sinistra laburista si autoconvoca per discutere delle bombe che hanno colpito Londra e del futuro del governo. In origine quello di oggi doveva essere il congresso della sinistra riunita sotto la sigla Lrc (Labour representation committee) dopo le elezioni politiche. Ma chiaramente gli eventi hanno modificato l'ordine del giorno e i lavori della conferenza. John McDonnell, deputato Labour e presidente del Lrc sottolinea che «questo nostro congresso si svolge in un momento cruciale. Il Labour representation committee infatti è chiamato a discutere il futuro del partito laburista e il futuro dei prossimi governi laburisti a partire dalla politica estera ed interna che decideremo di perseguire. Il dibattito - continua McDonnell - è oggi ancor più necessario, dopo la tragedia che ha colpito Londra il 7 luglio». Per il deputato (che è anche tra i fondatori di Labour against the war, il gruppo di parlamentari laburisti che si erano schierati contro la guerra in Afghanistan e quindi contro quella in Iraq) è importante capire che «se vogliamo andare oltre e soprattutto uscire da questo vicolo cieco di violenza e distruzione abbiamo bisogno di un'analisi oggettiva dei terribili eventi che ci sono stati a Londra. Dobbiamo essere in grado di porre questi eventi in un contesto e analizzare I fattori che hanno portato al loro verificarsi, compreso il ruolo degli Stati uniti nel Medioriente, la guerra in Iraq e la sofferenza della comunità islamica britannica». Anche per Jeremy Dear, segretario nazionale del sindacato dei giornalisti e uno degli speaker principali al congresso di oggi, è importante «che tutti coloro che hanno a cuore le libertà civili, la pace, la giustizia sociale si uniscano e si organizzino per fermare la probabile erosione delle nostre libertà da parte di un governo Labour, quello di Tony Blair, che continua a minare le nostre libertà». Per sconfiggere questi tentativi Dear pensa sia «cruciale che attivisti, sindacalisti, fuori e dentro il Labour, si uniscano per vincere la battaglia delle idee in atto e impedire che la Gran Bretagna vada nella direzione che purtroppo sembra aver preso, e cioè quella di un irrigidimento e di una progressiva erosione delle nostre libertà». Il tentativo di oggi è quello di «costruire un movimento più ampio dei soli attivisti o sindacalisti iscritti al Labour. Abbiamo bisogno - dice ancora Dear - di un movimento forte che sappia sconfiggere una pericolosa idea che si sta facendo strada e cioè che sia ineluttabile e per la nostra sicurezza rinunciare ad una parte delle nostre libertà. Questo non può e non deve accadere. Dobbiamo difendere le nostre libertà con forza». Quanto al rischio di una nuova reazione contro cittadini musulmani, Jeremy Dear sottolinea che «bisogna essere consapevoli del senso di delusione ed emarginazione che deriva spesso dalla povertà, dalla mancanza di opportunità, che sta rendendo una giovane generazione di musulmani britannici più radicale di quanto non fosse quella precedente. Senza voler in alcun modo giustificare l'orrore delle bombe di Londra - aggiunge Dear - è importante capire che la risposta per battere questa radicalità sta nella giustizia. Giustizia sociale che deve riguardare la Gran Bretagna, ma che deve riguardare anche la Palestina, l'Iraq e l'Europa. Solo con la giustizia - conclude Dear - potremo sconfiggere il terrorismo, perché andremo a minare e sradicare alcune delle cause che spingono alcuni ad abbracciare la violenza, considerata l'unica, o l'ultima, possibilità di ottenere giustizia».
 

 

Dal manifesto 17 luglio 2005

Blair: sradicare l'ideologia malvagia ovunque
In Gran Bretagna sarà reato parlare di «martiri». Il Cairo: l'egiziano arrestato non c'entra con al Qaeda
F. D. P.
Ha usato toni da scontro finale contro il terrorismo e ha cercato di convincere i compagni di partito e la Gran Bretagna che la strage di dieci giorni fa a Londra non è da legare in alcun modo all'occupazione anglo-americana dell'Iraq. Ma il premier Tony Blair non ha convinto chi, come la laburista Clare Short, alla guerra in Mesopotamia si è opposto dal primo momento e non è disposto a farsi incantare ora dalle sirene dell'unità nazionale. Parlando a Londra ai membri del Labour party, Blair ha definito al Qaeda «un'ideologia malvagia che noi dobbiamo sradicare». Quando poi ha aggiunto che «dovremmo combatterla dovunque esista nel mondo», è sembrato di riascoltare gli stessi toni usati dal presidente Usa, George W. Bush, all'indomani degli attacchi dell'11 settembre 2001. L'uomo che i pacifisti britannici hanno ribattezzato Bliar (bugiardo) ha spiegato che la Palestina, l'Iraq e l'Afghanistan non c'entrano un bel nulla con le azioni dei terroristi, concludendo così: «L'11 settembre 2001 sarebbe una rappresaglia per che cosa?». Clare Short gli ha ribattuto che «non c'è dubbio» che gli attentati siano legati a quanto sta succedendo in Iraq; d'accordo con lei anche un gruppo nutrito di membri del labour. Ma il governo sta già preparando le misure da introdurre subito dopo gli attacchi del 7 luglio. Secondo quanto anticipato ieri dal quotidiano Guardian, chiamare «martire» un terrorista suicida diventerà reato. Questa dovrebbe essere una delle norme previste nel nuovo pacchetto di leggi anti-terrorismo che il governo laburista discuterà con l'opposizione conservatrice la settimana prossima. Oltre all'«istigazione indiretta a compiere atti terroristici», in cui rientrerebbe il reato di definire «martire» un kamikaze, la nuova legge punirà anche chi frequenta campi di addestramento per terroristi, sia in Gran Bretagna sia all'estero. Il testo della legge, la cui preparazione è stata affidata al ministro dell'Interno, Charles Clarke (contestatissimo dalla sinistra e dalle associazioni di tutela dei diritti umani), prevede anche il reato di «azioni che preludono ad attacchi terroristici».

Sul fronte delle indagini continua il lavoro degli inquirenti, che ieri hanno diffuso fotogrammi di tutti e quattro i presunti attentatori, ripresi pochi minuti prima che le bombe eslodessero a bordo di tre vagoni della metropolitana londinese e dell'autobus numero 30. Le diverse fotografie mostrano i quattro terroristi con sulle spalle grossi zaini e, almeno due di loro, con i testa berretti da baseball. Le immagini sono state riprese sia dalle telecamere della stazione ferroviaria di Luton, dove i kamikaze si erano incontrati verso le 07:20, sia da quelle della metropolitana londinese di King's Cross, dove il gruppo era arrivato prima delle 08:30.

Intanto secondo le autorità egiziane il giovane catturato due giorni fa al Cairo perché sospettato di avere partecipato all'organizzazione delle stragi non intratteneva alcun legame con al Qaeda. Lo ha dichiarato il ministro dell'interno del Cairo, Habib el-Adli, al giornale al Gomhuria. Secondo Adli, sui giornali occidentali ed arabi, che hanno ipotizzato l'affiliazione del giovane all'organizzaziione fondata e capeggiata da Osama bin Laden, sono state pubblicate conclusioni affrettate su Magdy Mahmoud el-Nashar, sospettato di essere l'artificiere e la mente degli attentati di Londra. Altri quattro uomini sono stati arrestati ieri in Pakistan dalle forze di sicurezza locali, in relazione alle indagini sugli attentati del luglio scorso a Londra. Lo hanno reso noto fonti dell'intelligence pakistana, secondo cui tutte le catture sono avvenute nella provincia orientale del Punjab: nel capoluogo provinciale Lahore sono stati bloccati due individui sospettati di collegamenti con uno degli attentatori di Londra.
 

 

Dal manifesto del 19 luglio 2005

A Baghdad le cause del 7 luglio di Londra
Le avventure militari britanniche in Iraq e Afghanistan hanno contribuito a creare un terreno fertile per gli attacchi del 7 luglio a Londra. A sostenerlo, contraddicendo quanto negli ultimi giorni si affannano a ripetere il premier Tony Blair e il ministro degli esteri Jack Straw, è il Royal institute of international affairs che in un rapporto pubblicato ieri ha concluso che «non c'è dubbio che l'invasione dell'Iraq abbia rafforzato la rete di al Qaeda». Secondo il prestigioso «pensatoio» britannico guidato da accademici ed esperti di relazioni internazionali il problema è che nella cosiddetta «guerra al terrorismo» la Gran bretagna sta viaggiando assieme agli Stati uniti, ma «sul sellino posteriore». La capacità di Londra di combattere al Qaeda sarebbe stata indebolita quindi dalla pretesa americana di decidere autonomamente tutte le mosse contro il network di bin Laden.

 

Dal manifesto del 21 luglio 2005

Tariq Ali: Le colpe della guerra
L'8 luglio ho scritto che gli attentati di Londra sono stati il risultato della partecipazione di Blair alla guerra in Iraq. Il giorno successivo tutti i media erano uniti nel rifiutare l'idea che un collegamento esista: hanno fedelmente riportato la posizione del Governo. Blair ha detto che il collegamento non c'era, e ha cercato di dimostrarlo obiettando che «il presidente Putin si è opposto alla guerra in Iraq, ma il suo paese è stato colpito dal terrorismo». Deve aver pensato che i cittadini britannici non avessero mai sentito parlare della Cecenia (Blair ha sostenuto l'offensiva di Putin contro i ceceni e plaudito alla Russia).

Ma perché questi attacchi sono avvenuti? Questa è la domanda chiave che tutti i media, e l'intera classe politica di questo paese, hanno cercato di ignorare. Lo hanno fatto perché il governo e il principale partito di opposizione sanno perfettamente il motivo per cui si è verificato l'attacco. Hanno la coscienza sporca. Ammettere il collegamento avrebbe significato che i politici e i direttori di giornale favorevoli alla guerra, quantomeno, ne sono parzialmente responsabili.
Viaggiando in diverse zone di Londra e in altre zone della Gran Bretagna, sono stato stupito da quante persone mi hanno detto, senza esitazione, che stavamo pagando il prezzo della guerra in Iraq. Alcune sono andate oltre, sostenendo che i politici britannici pensavano di poter fare la guerra nel mondo arabo premendo un pulsante e restando al sicuro. Ora hanno avuto una risposta. Il 18 luglio, un think-tank del Foreign Office, il Royal Institute of International Affairs, ha pubblicato un rapporto in cui si sostiene che le guerre in Afghanistan e Iraq hanno prodotto un aumento del terrorismo, e che Blair ha reso vulnerabile il Regno Unito. In altre parole (le mie) è successo senza alcun dubbio perché Tony Blair ha deciso di rinchiudersi in un abbraccio mortale con il presidente degli Stati uniti, dal quale non potesse facilmente essere sloggiato. Tony Blair e i suoi burocrati hanno censurato il rapporto.

Il 19 luglio, un sondaggio commissionato da The Guardian/ICM ha reso pubblica quest'opinione. Il 66% del pubblico britannico ritiene che il legame con l'Iraq ci sia stato. Il Guardian, imbarazzato dalle sue stesse scoperte, non le ha pubblicate in copertina. Il messaggio è chiaro: nonostante il peso della propaganda ufficiale, la gente si rifiuta di credere a Blair. L'élite politica e mediatica britannica è isolata dall'opinione pubblica tanto quanto i suoi omologhi francesi e olandesi. Senza dubbio i giornalisti addomesticati di Blair accuseranno il pubblico di essere spaventato e ignorante. La realtà è diversa.

A meno che non si offra alla popolazione una spiegazione politica di ciò che è successo, l'unica altra spiegazione è quella che chiama in causa la «civiltà», cioè quella fornita dal primo ministro: i barbari versus la civiltà. Blair dice questo, i suoi disgraziati membri del governo lo hanno ripetuto, e persino Bush ha fatto proprie alcune frasi.

Dobbiamo essere chiari. Se l'uccisione di civili innocenti a Londra è una barbarie - e lo è - come dobbiamo definire l'uccisione di oltre 100.000 civili iracheni? Una barbarie ancora peggiore.

Nella cultura dominante dell'Occidente c'è la convinzione radicata che la vita dei civili occidentali abbia, in qualche modo, più valore della vita di chi vive in altre zone del mondo - specialmente le zone bombardate e occupate dall'Occidente. Se questi atteggiamenti si consolideranno, altrettanto farà il terrorismo.

Nel frattempo, in Gran Bretagna, anche i più servili parlamentari del New Labour (una larga maggioranza) dovrebbero capire che è tempo per Blair di prendersi una lunga vacanza (Berlusconi potrebbe rendersi utile da questo punto di vista) e poi dare le dimissioni.

Tariq Ali

 

Dal manifesto del 24 luglio 2005

Le bombe di Tony Blair, premier inadatto, di JOHN PILGER


Gli ultimi attentati di Londra hanno evidenziato una verità fondamentale che lotta per emergere. Qui e là qualcuno ha rotto il silenzio, come un abitante dell'est londinese che è andato davanti a una troupe della Cnn mentre il corrispondente ripeteva le sue banalità. «L'Iraq!» ha detto. «Abbiamo invaso l'Iraq e cosa ci aspettavamo? Avanti, lo dica.» Il parlamentare scozzese Alex Salmond ha cercato di dirlo alla Bbc radio. Gli è stato risposto che le sue parole erano «di cattivo gusto... prima ancora che i corpi siano inumati». Il parlamentare George Galloway del Respect Party si è sentito dire dal presentatore della Bbc television di essere stato «grossolano». Il sindaco di Londra, Ken Livingstone, ha dichiarato l'esatto contrario di quanto aveva detto in precedenza, cioè che l'invasione dell'Iraq sarebbe arrivata nelle nostre strade. Con l'eccezione di Galloway, non un solo parlamentare cosiddetto «contro la guerra» ha preso posizione in un inglese chiaro e inequivoco. È stato consentito ai guerrafondai di fissare i confini del dibattito pubblico; uno dei più idioti, sul Guardian, ha definito Blair «il più importante statista del mondo».

E tuttavia, come il passante che ha interrotto la Cnn, le persone capiscono e sanno il perché. Proprio come la maggioranza della popolazione inglese, che è contraria alla guerra e considera Blair un bugiardo. Questo spaventa l'élite politica britannica. A un grande party per la stampa cui ho partecipato, molti degli importanti ospiti pronunciavano le parole «Iraq» e «Blair» come una sorta di catarsi per ciò che non osavano dire professionalmente e pubblicamente.

Le bombe del 7 luglio sono state le bombe di Blair. Blair ha portato in questo paese l'avventura illegale sua e di Bush in Medio Oriente, un'avventura senza senso e intrisa di sangue. Se non fosse stato per la sua epica irresponsabilità, i londinesi morti nella metropolitana e sul bus numero 30 quasi certamente oggi sarebbero vivi. Questo è ciò che Livingston avrebbe dovuto dire. Per parafrasare forse l'unica domanda stringente rivolta a Blair alla vigilia dell'invasione, ora è sicuro che quest'uomo non è adatto ad essere primo ministro. Quante altre prove servono? Prima dell'invasione, Blair era stato messo in guardia dal Joint Intelligence Committee (Commissione congiunta per l'intelligence), secondo cui «la minaccia terroristica in assoluto più grande» nei confronti di questo paese sarebbe stata «aumentata da un'azione militare contro l'Iraq». Era stato messo in guardia dal 79% di londinesi che, secondo una ricerca di YouGov del febbraio 2003, ritenevano che un attacco britannico all'Iraq «avrebbe reso più probabile un atto terroristico su Londra ».

Un mese fa è stato fatto trapelare un rapporto riservato della Cia che rivela come l'invasione abbia trasformato l'Iraq in un punto focale del terrorismo. Prima dell'invasione, secondo la Cia, l'Iraq «non aveva esportato alcuna minaccia terroristica», perché Saddam Hussein era «implacabilmente ostile ad al-Qaeda». Adesso, un rapporto del 18 luglio dell'organizzazione Chatham House, un «think tank» addentro all'establishment britannico, potrebbe dare a Blair il colpo di grazia. Esso sostiene che l'invasione dell'Iraq «senza alcun dubbio» ha «alimentato la rete di al-Qaeda» nella «propaganda, nel reclutamento e nella ricerca di finanziamenti», fornendo allo stesso tempo una zona ideale per individuare ed addestrare i terroristi. «Viaggiare insieme a un alleato potente» è costato vite irachene, americane e britanniche. Tra le righe, il rapporto dice che il premier è ora seriamente esposto. Coloro che governano questo paese sanno che Blair ha commesso un grande crimine; il «collegamento» è stato fatto.

Il ritornello di Blair è che il terrorismo c'è da molto prima dell'invasione, in particolare dall'11 settembre. Chiunque conosca la dolorosa storia del Medioriente non è stato sorpreso dall'11 settembre o dagli attentati di Madrid e Londra, ma solo dal fatto che non fossero accaduti prima.

Ho fatto il corrispondente dalla regione per 35 anni, e se dovessi descrivere con una parola come si sentivano milioni di arabi e musulmani, direi «umiliati». Quando sembrò che l'Egitto avesse riconquistato il suo territorio nella guerra con Israele del 1973, sono passato attraverso folle giubilanti al Cairo: era come se si fossero liberati del peso dell'umiliazione storica. Con un'espressione tipicamente egiziana, un uomo mi disse: «Una volta raccattavamo le palle da cricket al club britannico. Ora siamo liberi».

Non erano liberi, naturalmente. Gli americani hanno equipaggiato l'esercito israeliano e loro hanno perso quasi tutto di nuovo.

La gravità degli attentati di Londra, ha detto un commentatore della Bbc, «può essere misurata dal fatto che segnano il primo attentato suicida in Gran Bretagna». E l'Iraq? Non c'erano kamikaze in Iraq prima che Blair e Bush l'invadessero. E la Palestina? Non c'erano kamikaze in Palestina prima che Ariel Sharon, un noto criminale di guerra sponsorizzato da Bush e Blair, andasse al potere. Secondo l'Onu, nella «guerra» del Golfo del 1991 le forze americane e britanniche hanno lasciato sul terreno più di 200.000 iracheni morti e feriti, e l'infrastruttura del paese in «uno stato apocalittico». Il successivo embargo, studiato e promosso da fanatici a Washington e a Whitehall, non è stato diverso da un assedio medievale. Denis Halliday, il funzionario Onu incaricato di amministrare le dotazioni alimentari da fame, lo ha definito «genocida». Ho visto le conseguenze con i miei occhi: tratti del sud dell'Iraq contaminati dall'uranio impoverito e cluster bombs pronte a esplodere. Ho visto i bambini morire, alcuni del mezzo milione di bambini la cui morte l'Unicef ha attribuito all'embargo - tutte morti che secondo il segretario di stato Usa Madeleine Albright «valevano la pena». In occidente di questo si è parlato pochissimo. In tutto il mondo musulmano, il rancore era come una presenza, che contagiava molti giovani musulmani britannici.

Nel 2001, per vendicare l'uccisione di 3.000 persone nelle Twin Towers, più di 20.000 musulmani sono morti nell'invasione anglo-americana dell'Afghanistan. Questo è stato rivelato da Jonathan Steele sul Guardian e non è mai diventato notizia, per quanto ne so. L'attacco all'Iraq è stato il Rubicone, ha reso la ritorsione contro Madrid e gli attentati di Londra del tutto prevedibili.

Dal dibattito pubblico è cancellato il fatto che il terrore di stato di Bush e Blair, al confronto, fa apparire al-Qaeda una bazzecola. Immaginate, per un momento, di trovarvi nella città irachena di Fallujah. È uno stato di polizia americano, come un grande ghetto recintato. Dall'aprile dello scorso anno gli ospedali della città sono stati sottoposti a una politica americana di punizioni collettive. I marines Usa hanno attaccato il personale ospedaliero, hanno sparato ai medici, hanno bloccato i farmaci di pronto soccorso. Ci sono stati casi di bambini ammazzati davanti alle loro famiglie.

Ora immaginate tutto questo imposto agli ospedali londinesi in cui sono affluite le vittime degli attentati. Quand'è che qualcuno traccerà questo parallelo a una delle «conferenze stampa» in cui Blair può emozionarsi a beneficio delle telecamere affermando che «i nostri valori prevarranno sui loro»? Il silenzio non è giornalismo. A Fallujah «i nostri valori» li conoscono fin troppo bene. E quand'è che qualcuno inviterà l'ossequioso Bob Geldoff a spiegare perché il fumo negli occhi della «cancellazione del debito» ammonta a meno della cifra che il governo Blair spende in una settimana per brutalizzare l'Iraq?

Torcersi le mani su «dove va l'anima dell'Islam» è un altro diversivo. La cristianità uccide l'Islam come un killer su scala industriale. La causa dell'attuale terrorismo non è né la religione, né l'odio per «il nostro stile di vita». È politica, e richiede una soluzione politica. Sono l'ingiustizia, i due pesi e le due misure, a radicare i più profondi risentimenti. Questo, la colpevolezza dei nostri leader, «le telecamere che si girano dall'altra parte», ne sono il cuore.

Blair sta usando le bombe di Londra per ridurre ulteriormente i nostri diritti e quelli degli altri, come Bush ha fatto in America. Il loro obiettivo non è la sicurezza, ma aumentare la repressione.

La memoria delle loro vittime in Iraq, Afghanistan, Palestina e altrove richiede che la nostra rabbia si rinnovi. Le truppe devono tornare a casa. Niente di meno è dovuto a coloro che sono morti e hanno sofferto a Londra il 7 luglio, senza necessità. Niente di meno è dovuto a coloro le cui vite sono segnate se questa farsa continuerà.

(Traduzione Marina Impallomeni)


 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista