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L'opposizione alla
guerra in Gran Bretagna
dopo gli attentati
di Londra
Dal manifesto 10 luglio 2005
«Via le truppe»,
la rabbia pacifista a Londra resta sola
Volti
mesti, bandiere listate a lutto, tremila pacifisti si sono ritrovati ieri
a un passo dall'autobus sventrato dalle bombe a Tavistock square. Unici,
in una città apparentemente indifferente, a chiedere ancora il ritiro
dall'Iraq, a parlare delle responsabilità del governo, a lanciare un ponte
col mondo islamico
ANGELO
MASTRANDREA,
INVIATO A LONDRA
Il look
antigiottino e pacifista è quello di sempre. Sì, sono proprio quelli che
qualche giorno fa sfilavano sorridenti e incazzati a Edimburgo e
Gleneagles. Ma le facce no, quei visi cupi e privi di allegria non sono
per niente gli stessi, pare passato un secolo e sono appena pochi giorni.
La catena umana da mezzo milione a cingere di bianco il castello di
Edimburgo, l'Africa e il debito, la guerra e i cambiamenti climatici, la
base militare nucleare di Faslane e il centro di detenzione per immigrati
di Dungavel, l'invasione della zona rossa proprio mentre radio e tv
festeggiavano Londra 2012, le Olimpiadi vinte e la rivale Parigi superata
sul filo di lana. E' cambiato tutto. I volti mesti, gli applausi senza
slogan, le bandiere listate a lutto, al braccio una fascia nera. Solo la
rabbia rimane uguale, ieri contro i G8 oggi contro Bush e Blair e la loro
sporca «guerra al terrorismo». Che è come dire la stessa cosa. Anche la
città non è più la stessa, i cartelloni "London
2012" sono spariti e le uniche manifestazioni
non cancellate sono quelle per l'anniversario della vittoria sul
nazifascismo che inevitabilmente si tireranno indietro un bel po' di
paralleli e retorica. I pacifisti si ritrovano alle 17 a Euston road, a un
passo da quelle barriere presidiate dalla polizia che somigliano tanto a
una «zona rossa» ma che servono solamente a mascherare l'orrore. L'autobus
sventrato di Tavistock square è lì a un passo, si rovista ancora tra le
lamiere, sarebbe bello portare le bandiere arcobaleno laggiù nella piazza
che ospita gli omaggi a Gandhi, Hiroshima e l'Olocausto. Pure King's Cross
è a pochi isolati di distanza, sotto i nostri piedi da qualche parte si
continua a scavare e potrebbero trovarsi i resti di alcune delle 25
persone ufficialmente «missing», «disperse». Forse Shahara Islam, 20 anni
e musulmana, o forse Laura Webb, 29 anni e cristiana, le cui foto
compaiono sulle prime pagine dei giornali a testimoniare come le bombe non
facciano particolari distinzioni religiose. Alcuni hanno portato dei fiori,
e finalmente c'è qualcuno che prova a scuotere una città che continua
ostinatamente a fare come se nulla fosse accaduto, istigata ed elogiata da
media e governo. Domani si festeggia la fine della seconda guerra mondiale
e la stampa ricorda come anche sotto le bombe naziste andò allo stesso
modo, business as usual,
al lavoro tra le macerie della City.
In piazza
appaiono pochi, troppo pochi se si pensa alla Londra pacifista del 15
febbraio 2003, due o tremila persone a fronte dei due milioni che
chiedevano a Blair di non portarli in Iraq, e anche a qualche giorno fa in
Scozia, la «middle England» che sfila per un mondo senza guerre e contro
gli Otto rinchiusi in campagna. Ma nell'apparente indifferenza di una
città di otto milioni di abitanti appaiono gli unici a gettare un ponte
con il mondo islamico e a parlare delle responsabilità del governo Blair e
non solo degli errori dell'intelligence. Non lo ha fatto la Bbc che
pure aveva creato non pochi problemi all'esecutivo sull'Iraq, e fa
impressione non vedere sull'argomento neppure un articolo politico, fatta
eccezione per il solito Robert Fisk, inviato di guerra controcorrente, e
il solito George Galloway, deputato altrettanto controcorrente e unico
rappresentante in parlamento di Respect. Tanti i musulmani, uomini
e donne con il velo, tra la gente arrivata a rendere omaggio alle vittime.
La British muslim association partecipa da sempre alle
manifestazioni pacifiste e ha condannato fin dal primo momento gli
attentati. Un suo portavoce prende la parola, al megafono come nelle
occupazioni scolastiche perché il microfono non va, e conclude con un «troops
out», «via le truppe» dall'Iraq e dall'Afghanistan. Ma è poco più di
un atto di testimonianza: a chiedere il ritiro dei militari oggi sono solo
loro, nel deserto della politica ufficiale, e per tentare di rimettere in
piedi qualche iniziativa bisognerà attendere almeno che passino i giorni
del lutto. Fosse stato come a Madrid un anno fa sarebbe stata tutta
un'altra cosa, ma le bombe non hanno provocato alcuna reazione popolare e
addirittura, almeno stando ai sondaggi, avrebbero fatto crescere i
consensi nei confronti di Blair.Tra l'onnipresente Galloway e il deputato
laburista e pacifista James Corbyn parla anche il padre di un soldato
morto in Iraq, e dall'estero arrivano messaggi di solidarietà. Portano la
firma degli americani di United for peace and justice e
dell'associazione dei familiari delle vittime dell'11 settembre, del
movimento francese e di altri europei. A ricordare loro che non sono soli,
che il movimento contro la guerra va ben oltre i confini della Manica e
che l'alternativa alla guerra e alle bombe forse si può provare a
costruirla insieme.
Dal manifesto
del 16 luglio 2005
Labour, il
congresso degli anti-Blair
Inizia
oggi la riunione della sinistra laburista, che discute il dopo-bomba
ORSOLA
CASAGRANDE
La
sinistra laburista si autoconvoca per discutere delle bombe che hanno
colpito Londra e del futuro del governo. In origine quello di oggi doveva
essere il congresso della sinistra riunita sotto la sigla Lrc (Labour
representation committee) dopo le elezioni politiche. Ma chiaramente gli
eventi hanno modificato l'ordine del giorno e i lavori della conferenza.
John McDonnell, deputato Labour e presidente del Lrc sottolinea che «questo
nostro congresso si svolge in un momento cruciale. Il Labour
representation committee infatti è chiamato a discutere il futuro del
partito laburista e il futuro dei prossimi governi laburisti a partire
dalla politica estera ed interna che decideremo di perseguire. Il
dibattito - continua McDonnell - è oggi ancor più necessario, dopo la
tragedia che ha colpito Londra il 7 luglio». Per il deputato (che è anche
tra i fondatori di Labour against the war, il gruppo di parlamentari
laburisti che si erano schierati contro la guerra in Afghanistan e quindi
contro quella in Iraq) è importante capire che «se vogliamo andare oltre e
soprattutto uscire da questo vicolo cieco di violenza e distruzione
abbiamo bisogno di un'analisi oggettiva dei terribili eventi che ci sono
stati a Londra. Dobbiamo essere in grado di porre questi eventi in un
contesto e analizzare I fattori che hanno portato al loro verificarsi,
compreso il ruolo degli Stati uniti nel Medioriente, la guerra in Iraq e
la sofferenza della comunità islamica britannica». Anche per Jeremy Dear,
segretario nazionale del sindacato dei giornalisti e uno degli speaker
principali al congresso di oggi, è importante «che tutti coloro che hanno
a cuore le libertà civili, la pace, la giustizia sociale si uniscano e si
organizzino per fermare la probabile erosione delle nostre libertà da
parte di un governo Labour, quello di Tony Blair, che continua a minare le
nostre libertà». Per sconfiggere questi tentativi Dear pensa sia «cruciale
che attivisti, sindacalisti, fuori e dentro il Labour, si uniscano per
vincere la battaglia delle idee in atto e impedire che la Gran Bretagna
vada nella direzione che purtroppo sembra aver preso, e cioè quella di un
irrigidimento e di una progressiva erosione delle nostre libertà». Il
tentativo di oggi è quello di «costruire un movimento più ampio dei soli
attivisti o sindacalisti iscritti al Labour. Abbiamo bisogno - dice ancora
Dear - di un movimento forte che sappia sconfiggere una pericolosa idea
che si sta facendo strada e cioè che sia ineluttabile e per la nostra
sicurezza rinunciare ad una parte delle nostre libertà. Questo non può e
non deve accadere. Dobbiamo difendere le nostre libertà con forza». Quanto
al rischio di una nuova reazione contro cittadini musulmani, Jeremy Dear
sottolinea che «bisogna essere consapevoli del senso di delusione ed
emarginazione che deriva spesso dalla povertà, dalla mancanza di
opportunità, che sta rendendo una giovane generazione di musulmani
britannici più radicale di quanto non fosse quella precedente. Senza voler
in alcun modo giustificare l'orrore delle bombe di Londra - aggiunge Dear
- è importante capire che la risposta per battere questa radicalità sta
nella giustizia. Giustizia sociale che deve riguardare la Gran Bretagna,
ma che deve riguardare anche la Palestina, l'Iraq e l'Europa. Solo con la
giustizia - conclude Dear - potremo sconfiggere il terrorismo, perché
andremo a minare e sradicare alcune delle cause che spingono alcuni ad
abbracciare la violenza, considerata l'unica, o l'ultima, possibilità di
ottenere giustizia».
Dal
manifesto 17 luglio 2005
Blair:
sradicare l'ideologia malvagia ovunque
In
Gran Bretagna sarà reato parlare di «martiri». Il Cairo: l'egiziano
arrestato non c'entra con al Qaeda
F. D. P.
Ha usato
toni da scontro finale contro il terrorismo e ha cercato di convincere i
compagni di partito e la Gran Bretagna che la strage di dieci giorni fa a
Londra non è da legare in alcun modo all'occupazione anglo-americana
dell'Iraq. Ma il premier Tony Blair non ha convinto chi, come la laburista
Clare Short, alla guerra in Mesopotamia si è opposto dal primo momento e
non è disposto a farsi incantare ora dalle sirene dell'unità nazionale.
Parlando a Londra ai membri del Labour party, Blair ha definito al
Qaeda «un'ideologia malvagia che noi dobbiamo sradicare». Quando poi ha
aggiunto che «dovremmo combatterla dovunque esista nel mondo», è sembrato
di riascoltare gli stessi toni usati dal presidente Usa, George W. Bush,
all'indomani degli attacchi dell'11 settembre 2001. L'uomo che i pacifisti
britannici hanno ribattezzato Bliar (bugiardo) ha spiegato che la
Palestina, l'Iraq e l'Afghanistan non c'entrano un bel nulla con le azioni
dei terroristi, concludendo così: «L'11 settembre 2001 sarebbe una
rappresaglia per che cosa?». Clare Short gli ha ribattuto che «non c'è
dubbio» che gli attentati siano legati a quanto sta succedendo in Iraq;
d'accordo con lei anche un gruppo nutrito di membri del labour. Ma il
governo sta già preparando le misure da introdurre subito dopo gli
attacchi del 7 luglio. Secondo quanto anticipato ieri dal quotidiano
Guardian, chiamare «martire» un terrorista suicida diventerà reato.
Questa dovrebbe essere una delle norme previste nel nuovo pacchetto di
leggi anti-terrorismo che il governo laburista discuterà con l'opposizione
conservatrice la settimana prossima. Oltre all'«istigazione indiretta a
compiere atti terroristici», in cui rientrerebbe il reato di definire «martire»
un kamikaze, la nuova legge punirà anche chi frequenta campi di
addestramento per terroristi, sia in Gran Bretagna sia all'estero. Il
testo della legge, la cui preparazione è stata affidata al ministro
dell'Interno, Charles Clarke (contestatissimo dalla sinistra e dalle
associazioni di tutela dei diritti umani), prevede anche il reato di «azioni
che preludono ad attacchi terroristici».
Sul fronte delle indagini continua il lavoro degli inquirenti, che ieri
hanno diffuso fotogrammi di tutti e quattro i presunti attentatori,
ripresi pochi minuti prima che le bombe eslodessero a bordo di tre vagoni
della metropolitana londinese e dell'autobus numero 30. Le diverse
fotografie mostrano i quattro terroristi con sulle spalle grossi zaini e,
almeno due di loro, con i testa berretti da baseball. Le immagini sono
state riprese sia dalle telecamere della stazione ferroviaria di Luton,
dove i kamikaze si erano incontrati verso le 07:20, sia da quelle della
metropolitana londinese di King's Cross, dove il gruppo era arrivato prima
delle 08:30.
Intanto secondo le autorità egiziane il giovane catturato due giorni fa al
Cairo perché sospettato di avere partecipato all'organizzazione delle
stragi non intratteneva alcun legame con al Qaeda. Lo ha dichiarato il
ministro dell'interno del Cairo, Habib el-Adli, al giornale al Gomhuria.
Secondo Adli, sui giornali occidentali ed arabi, che hanno ipotizzato
l'affiliazione del giovane all'organizzaziione fondata e capeggiata da
Osama bin Laden, sono state pubblicate conclusioni affrettate su Magdy
Mahmoud el-Nashar, sospettato di essere l'artificiere e la mente degli
attentati di Londra. Altri quattro uomini sono stati arrestati ieri in
Pakistan dalle forze di sicurezza locali, in relazione alle indagini sugli
attentati del luglio scorso a Londra. Lo hanno reso noto fonti
dell'intelligence pakistana, secondo cui tutte le catture sono avvenute
nella provincia orientale del Punjab: nel capoluogo provinciale Lahore
sono stati bloccati due individui sospettati di collegamenti con uno degli
attentatori di Londra.
Dal
manifesto del 19 luglio 2005
A Baghdad le
cause del 7 luglio di Londra
Le
avventure militari britanniche in Iraq e Afghanistan hanno contribuito a
creare un terreno fertile per gli attacchi del 7 luglio a Londra. A
sostenerlo, contraddicendo quanto negli ultimi giorni si affannano a
ripetere il premier Tony Blair e il ministro degli esteri Jack Straw, è il
Royal institute of international affairs che in un rapporto pubblicato
ieri ha concluso che «non c'è dubbio che l'invasione dell'Iraq abbia
rafforzato la rete di al Qaeda». Secondo il prestigioso «pensatoio»
britannico guidato da accademici ed esperti di relazioni internazionali il
problema è che nella cosiddetta «guerra al terrorismo» la Gran bretagna
sta viaggiando assieme agli Stati uniti, ma «sul sellino posteriore». La
capacità di Londra di combattere al Qaeda sarebbe stata indebolita quindi
dalla pretesa americana di decidere autonomamente tutte le mosse contro il
network di bin Laden.
Dal
manifesto del 21 luglio 2005
Tariq Ali: Le
colpe della guerra
L'8
luglio ho scritto che gli attentati di Londra sono stati il risultato
della partecipazione di Blair alla guerra in Iraq. Il giorno successivo
tutti i media erano uniti nel rifiutare l'idea che un collegamento esista:
hanno fedelmente riportato la posizione del Governo. Blair ha detto che il
collegamento non c'era, e ha cercato di dimostrarlo obiettando che «il
presidente Putin si è opposto alla guerra in Iraq, ma il suo paese è stato
colpito dal terrorismo». Deve aver pensato che i cittadini britannici non
avessero mai sentito parlare della Cecenia (Blair ha sostenuto l'offensiva
di Putin contro i ceceni e plaudito alla Russia).
Ma perché questi attacchi sono avvenuti? Questa è la domanda chiave che
tutti i media, e l'intera classe politica di questo paese, hanno cercato
di ignorare. Lo hanno fatto perché il governo e il principale partito di
opposizione sanno perfettamente il motivo per cui si è verificato
l'attacco. Hanno la coscienza sporca. Ammettere il collegamento avrebbe
significato che i politici e i direttori di giornale favorevoli alla
guerra, quantomeno, ne sono parzialmente responsabili.
Viaggiando in diverse zone di Londra e in altre zone della Gran Bretagna,
sono stato stupito da quante persone mi hanno detto, senza esitazione, che
stavamo pagando il prezzo della guerra in Iraq. Alcune sono andate oltre,
sostenendo che i politici britannici pensavano di poter fare la guerra nel
mondo arabo premendo un pulsante e restando al sicuro. Ora hanno avuto una
risposta. Il 18 luglio, un think-tank del Foreign Office, il Royal
Institute of International Affairs, ha pubblicato un rapporto in cui si
sostiene che le guerre in Afghanistan e Iraq hanno prodotto un aumento del
terrorismo, e che Blair ha reso vulnerabile il Regno Unito. In altre
parole (le mie) è successo senza alcun dubbio perché Tony Blair ha deciso
di rinchiudersi in un abbraccio mortale con il presidente degli Stati
uniti, dal quale non potesse facilmente essere sloggiato. Tony Blair e i
suoi burocrati hanno censurato il rapporto.
Il 19 luglio, un sondaggio commissionato da The Guardian/ICM ha
reso pubblica quest'opinione. Il 66% del pubblico britannico ritiene che
il legame con l'Iraq ci sia stato. Il Guardian, imbarazzato dalle
sue stesse scoperte, non le ha pubblicate in copertina. Il messaggio è
chiaro: nonostante il peso della propaganda ufficiale, la gente si rifiuta
di credere a Blair. L'élite politica e mediatica britannica è isolata
dall'opinione pubblica tanto quanto i suoi omologhi francesi e olandesi.
Senza dubbio i giornalisti addomesticati di Blair accuseranno il pubblico
di essere spaventato e ignorante. La realtà è diversa.
A meno che non si offra alla popolazione una spiegazione politica di ciò
che è successo, l'unica altra spiegazione è quella che chiama in causa la
«civiltà», cioè quella fornita dal primo ministro: i barbari versus
la civiltà. Blair dice questo, i suoi disgraziati membri del governo lo
hanno ripetuto, e persino Bush ha fatto proprie alcune frasi.
Dobbiamo essere chiari. Se l'uccisione di civili innocenti a Londra è una
barbarie - e lo è - come dobbiamo definire l'uccisione di oltre 100.000
civili iracheni? Una barbarie ancora peggiore.
Nella cultura dominante dell'Occidente c'è la convinzione radicata che la
vita dei civili occidentali abbia, in qualche modo, più valore della vita
di chi vive in altre zone del mondo - specialmente le zone bombardate e
occupate dall'Occidente. Se questi atteggiamenti si consolideranno,
altrettanto farà il terrorismo.
Nel frattempo, in Gran Bretagna, anche i più servili parlamentari del New
Labour (una larga maggioranza) dovrebbero capire che è tempo per Blair di
prendersi una lunga vacanza (Berlusconi potrebbe rendersi utile da questo
punto di vista) e poi dare le dimissioni.
Tariq
Ali
Dal manifesto
del 24 luglio 2005
Le bombe
di Tony Blair, premier inadatto,
di JOHN PILGER
Gli
ultimi attentati di Londra hanno evidenziato una verità fondamentale che
lotta per emergere. Qui e là qualcuno ha rotto il silenzio, come un
abitante dell'est londinese che è andato davanti a una troupe della Cnn
mentre il corrispondente ripeteva le sue banalità. «L'Iraq!» ha detto. «Abbiamo
invaso l'Iraq e cosa ci aspettavamo? Avanti, lo dica.» Il parlamentare
scozzese Alex Salmond ha cercato di dirlo alla Bbc radio. Gli è stato
risposto che le sue parole erano «di cattivo gusto... prima ancora che i
corpi siano inumati». Il parlamentare George Galloway del Respect Party si
è sentito dire dal presentatore della Bbc television di essere stato «grossolano».
Il sindaco di Londra, Ken Livingstone, ha dichiarato l'esatto contrario di
quanto aveva detto in precedenza, cioè che l'invasione dell'Iraq sarebbe
arrivata nelle nostre strade. Con l'eccezione di Galloway, non un solo
parlamentare cosiddetto «contro la guerra» ha preso posizione in un
inglese chiaro e inequivoco. È stato consentito ai guerrafondai di fissare
i confini del dibattito pubblico; uno dei più idioti, sul Guardian,
ha definito Blair «il più importante statista del mondo».
E tuttavia, come il passante che ha interrotto la Cnn, le persone
capiscono e sanno il perché. Proprio come la maggioranza della popolazione
inglese, che è contraria alla guerra e considera Blair un bugiardo. Questo
spaventa l'élite politica britannica. A un grande party per la stampa cui
ho partecipato, molti degli importanti ospiti pronunciavano le parole
«Iraq» e «Blair» come una sorta di catarsi per ciò che non osavano dire
professionalmente e pubblicamente.
Le bombe del 7 luglio sono state le bombe di Blair. Blair ha portato in
questo paese l'avventura illegale sua e di Bush in Medio Oriente,
un'avventura senza senso e intrisa di sangue. Se non fosse stato per la
sua epica irresponsabilità, i londinesi morti nella metropolitana e sul
bus numero 30 quasi certamente oggi sarebbero vivi. Questo è ciò che
Livingston avrebbe dovuto dire. Per parafrasare forse l'unica domanda
stringente rivolta a Blair alla vigilia dell'invasione, ora è sicuro che
quest'uomo non è adatto ad essere primo ministro. Quante altre prove
servono? Prima dell'invasione, Blair era stato messo in guardia dal Joint
Intelligence Committee (Commissione congiunta per l'intelligence), secondo
cui «la minaccia terroristica in assoluto più grande» nei confronti di
questo paese sarebbe stata «aumentata da un'azione militare contro l'Iraq».
Era stato messo in guardia dal 79% di londinesi che, secondo una ricerca
di YouGov del febbraio 2003, ritenevano che un attacco britannico all'Iraq
«avrebbe reso più probabile un atto terroristico su Londra ».
Un mese fa è stato fatto trapelare un rapporto riservato della Cia che
rivela come l'invasione abbia trasformato l'Iraq in un punto focale del
terrorismo. Prima dell'invasione, secondo la Cia, l'Iraq «non aveva
esportato alcuna minaccia terroristica», perché Saddam Hussein era «implacabilmente
ostile ad al-Qaeda». Adesso, un rapporto del 18 luglio dell'organizzazione
Chatham House, un «think tank» addentro all'establishment britannico,
potrebbe dare a Blair il colpo di grazia. Esso sostiene che l'invasione
dell'Iraq «senza alcun dubbio» ha «alimentato la rete di al-Qaeda» nella
«propaganda, nel reclutamento e nella ricerca di finanziamenti», fornendo
allo stesso tempo una zona ideale per individuare ed addestrare i
terroristi. «Viaggiare insieme a un alleato potente» è costato vite
irachene, americane e britanniche. Tra le righe, il rapporto dice che il
premier è ora seriamente esposto. Coloro che governano questo paese sanno
che Blair ha commesso un grande crimine; il «collegamento» è stato fatto.
Il ritornello di Blair è che il terrorismo c'è da molto prima
dell'invasione, in particolare dall'11 settembre. Chiunque conosca la
dolorosa storia del Medioriente non è stato sorpreso dall'11 settembre o
dagli attentati di Madrid e Londra, ma solo dal fatto che non fossero
accaduti prima.
Ho fatto il corrispondente dalla regione per 35 anni, e se dovessi
descrivere con una parola come si sentivano milioni di arabi e musulmani,
direi «umiliati». Quando sembrò che l'Egitto avesse riconquistato il suo
territorio nella guerra con Israele del 1973, sono passato attraverso
folle giubilanti al Cairo: era come se si fossero liberati del peso
dell'umiliazione storica. Con un'espressione tipicamente egiziana, un uomo
mi disse: «Una volta raccattavamo le palle da cricket al club britannico.
Ora siamo liberi».
Non erano liberi, naturalmente. Gli americani hanno equipaggiato
l'esercito israeliano e loro hanno perso quasi tutto di nuovo.
La gravità degli attentati di Londra, ha detto un commentatore della Bbc,
«può essere misurata dal fatto che segnano il primo attentato suicida in
Gran Bretagna». E l'Iraq? Non c'erano kamikaze in Iraq prima che Blair e
Bush l'invadessero. E la Palestina? Non c'erano kamikaze in Palestina
prima che Ariel Sharon, un noto criminale di guerra sponsorizzato da Bush
e Blair, andasse al potere. Secondo l'Onu, nella «guerra» del Golfo del
1991 le forze americane e britanniche hanno lasciato sul terreno più di
200.000 iracheni morti e feriti, e l'infrastruttura del paese in «uno
stato apocalittico». Il successivo embargo, studiato e promosso da
fanatici a Washington e a Whitehall, non è stato diverso da un assedio
medievale. Denis Halliday, il funzionario Onu incaricato di amministrare
le dotazioni alimentari da fame, lo ha definito «genocida». Ho visto le
conseguenze con i miei occhi: tratti del sud dell'Iraq contaminati
dall'uranio impoverito e cluster bombs pronte a esplodere. Ho visto i
bambini morire, alcuni del mezzo milione di bambini la cui morte l'Unicef
ha attribuito all'embargo - tutte morti che secondo il segretario di stato
Usa Madeleine Albright «valevano la pena». In occidente di questo si è
parlato pochissimo. In tutto il mondo musulmano, il rancore era come una
presenza, che contagiava molti giovani musulmani britannici.
Nel 2001, per vendicare l'uccisione di 3.000 persone nelle Twin Towers,
più di 20.000 musulmani sono morti nell'invasione anglo-americana
dell'Afghanistan. Questo è stato rivelato da Jonathan Steele sul
Guardian e non è mai diventato notizia, per quanto ne so. L'attacco
all'Iraq è stato il Rubicone, ha reso la ritorsione contro Madrid e gli
attentati di Londra del tutto prevedibili.
Dal dibattito pubblico è cancellato il fatto che il terrore di stato di
Bush e Blair, al confronto, fa apparire al-Qaeda una bazzecola. Immaginate,
per un momento, di trovarvi nella città irachena di Fallujah. È uno stato
di polizia americano, come un grande ghetto recintato. Dall'aprile dello
scorso anno gli ospedali della città sono stati sottoposti a una politica
americana di punizioni collettive. I marines Usa hanno attaccato il
personale ospedaliero, hanno sparato ai medici, hanno bloccato i farmaci
di pronto soccorso. Ci sono stati casi di bambini ammazzati davanti alle
loro famiglie.
Ora immaginate tutto questo imposto agli ospedali londinesi in cui sono
affluite le vittime degli attentati. Quand'è che qualcuno traccerà questo
parallelo a una delle «conferenze stampa» in cui Blair può emozionarsi a
beneficio delle telecamere affermando che «i nostri valori prevarranno sui
loro»? Il silenzio non è giornalismo. A Fallujah «i nostri valori» li
conoscono fin troppo bene. E quand'è che qualcuno inviterà l'ossequioso
Bob Geldoff a spiegare perché il fumo negli occhi della «cancellazione del
debito» ammonta a meno della cifra che il governo Blair spende in una
settimana per brutalizzare l'Iraq?
Torcersi le mani su «dove va l'anima dell'Islam» è un altro diversivo. La
cristianità uccide l'Islam come un killer su scala industriale. La causa
dell'attuale terrorismo non è né la religione, né l'odio per «il nostro
stile di vita». È politica, e richiede una soluzione politica. Sono
l'ingiustizia, i due pesi e le due misure, a radicare i più profondi
risentimenti. Questo, la colpevolezza dei nostri leader, «le telecamere
che si girano dall'altra parte», ne sono il cuore.
Blair sta usando le bombe di Londra per ridurre ulteriormente i nostri
diritti e quelli degli altri, come Bush ha fatto in America. Il loro
obiettivo non è la sicurezza, ma aumentare la repressione.
La memoria delle loro vittime in Iraq, Afghanistan, Palestina e altrove
richiede che la nostra rabbia si rinnovi. Le truppe devono tornare a casa.
Niente di meno è dovuto a coloro che sono morti e hanno sofferto a Londra
il 7 luglio, senza necessità. Niente di meno è dovuto a coloro le cui vite
sono segnate se questa farsa continuerà.
(Traduzione Marina
Impallomeni)
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