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Da Il manifesto
del 19 luglio 2001
Il console dei portuali sulle
"giornate di Genova"
Nell’intervista che segue, che riprendiamo dal manifesto, il
console dei portuali di Genova, Paride Batini, svolge alcune cruciali
riflessioni di bilancio sulla mobilitazione che si svolse a Genova nel
luglio 2001.
Egli rileva, in particolare, che il movimento di lavoratori e di giovani
che scese in piazza mancò dell’organizzazione in grado di
consentirgli di reggere lo scontro con l’apparato repressivo che le
potenze capitalistiche occidentali schierarono in campo.
Siamo completamente d’accordo.
La difficoltà si è riproposta anche nella mobilitazione contro
l’aggressione all’Iraq del 2003, evaporata nel momento in cui (con
l’occupazione di Baghdad da parte delle truppe occidentali) avrebbe dovuto
ampliare e radicalizzare la sua lotta: una delle ragioni del
ritorno a casa del movimento "no war" in Italia (pur in presenza di un
diffuso sentimento di opposizione alla guerra) sta proprio nella carenza o
nell’assenza di organismi stabili incaricati di sorreggere la
continuità della mobilitazione, il dibattito sulle cause profonde della
guerra, l'iniziativa di denuncia e propaganda verso la massa dei
lavoratori.
Il problema, a nostro avviso, è quello di trovare le radici del
limite individuato da Batini. È quello di stabilire il tipo di
organizzazione di cui ci sarebbe stato bisogno. L’analisi di questi punti
non è una sterile discussione sul passato. Il movimento di Genova è, di
fatto, refluito ma le sue istanze sono più che mai sul tappeto e
chiamano con urgenza ad un lavoro per il rilancio, su basi politiche più
avanzate, di un movimento proletario contro gli effetti della dominazione
capitalistica, in Occidente e nel mondo, e contro il capitalismo stesso.
Da questo punto di vista il bilancio abbozzato dal console Batini coglie
un nodo cruciale. L’assenza (quasi totale) o il rigetto da parte dei
manifestanti (soprattutto i più giovani) di organizzare la mobilitazione
di piazza non sono però piovuti dal cielo. Sono il frutto
avvelenato proprio di quella politica riformista che diresse e indirizzò
la mobilitazione dei proletari delle magliette a strisce di Genova-1960 a cui fa riferimento il console dei portuali. Nella nostra stampa ci
siamo soffermati più volte su questa connessione apparentemente così
paradossale perché originante differenti forme di presenza in piazza e di
indirizzo del conflitto di classe.
Il rilancio di un movimento di lotta proletario contro gli effetti del
capitalismo globalizzato (ed innanzitutto contro l’aggressione
imperialista ai popoli e agli sfruttati del mondo islamico) richiama
quindi parallelamente alla costituzione di una spina dorsale organizzata
della mobilitazione e dell’iniziativa di lotta anche, allo stesso tempo,
la conquista di una nuova politica con cui animare e dirigere questa
spina dorsale.
È la politica che la nostra organizzazione portò in piazza nelle “giornate
di Genova”, che illustrammo nei materiali che diffondemmo in quei giorni e
–a caldo– nella settimana successiva. Consigliamo vivamente i lettori di
tornare a questi materiali, nei quali accenniamo anche a come, nel nostro
piccolo, cercammo di rispondere all’esigenza sentita da Batini già nel
corso della manifestazione di sabato 21 luglio 2001.
Da il manifesto
del 19
luglio 2005
«Non siamo farina
per fare ostie»
Con il console dei
camalli Batini e il suo vice Amanzio la memoria corre tra il '60 e il G8
L'organizzazione «Noi
avevamo per guide i partigiani che dicevano: ora vai, ora scappa nei
carrugi. I no global erano 200 mila ma senza comando, di fronte a una
forza repressiva tremenda»
LO. C.,
GENOVA
Domani come ogni 20
luglio da quattro anni, una delegazione di lavoratori portuali si recherà
in piazza Alimonda per salutare Haidi e Giuliano, i genitori di Carlo. «Porteremo
un cuscinetto di fiori bianchi e rossi che sono i colori sociali della
Compagnia», mi dice l'irriducibile console dei camalli genovesi, Paride
Batini. Uno che la sua città la conosce bene, uno con una memoria lunga
fino al 30 giugno del `60, quando la Genova dei ragazzi con le magliette a
strisce insorse contro il governo Tambroni e dopo giorni di scontri nelle
piazze e nei carrugi, riuscì a impedire che nel santuario
dell'antifascismo si tenesse il congresso del Msi. «E' destino che ogni
quarant'anni questa città debba esplodere», racconta Amanzio Pezzolo,
viceconsole della Compagnia da poco in pensione. Con Paride e Amanzio
abbiamo cercato di capire le similitudini e le differenze tra il `61 e il
G8. Se chiedi a chiunque di una certa età un'opinione, un ricordo sui «fatti
di Genova», ottieni in risposta sempre la stessa domanda: «Quali»? Su un
punto Paride e Amanzio sono d'accordo. Più che un punto è una critica,
affettuosa ma ferma come quella che può fare un padre a un figlio, una
generazione a quella successiva: «Hai portato la gente a buscarle. Nel
2001 - dice Paride - è mancata l'organizzazione, o almeno quella che c'era
era insufficiente a reggere il livello dello scontro. Dall'altra parte -
perché io stavo e sto dalla parte dei ragazzi che contestavano il G8 -
c'era un gigantesco accumulo di forza: Genova era stata blindata,
imprigionata, spaccata dalle grate che chiudevano la zona rossa. Cavalli
di frisia, migliaia di militari in assetto di guerra. I ragazzi dicono che
la mentalità del movimento è diversa dalla nostra, che i giovani non sono
incasellabili dentro i servizi d'ordine. D'accordo. Però, se vai allo
scontro devi avere un'organizzazione adeguata, qualcuno che ti dica adesso
vai avanti, ora colpisci, ora scappa e ritirati, adesso si riparte. Mi
spiego?».
«Noi camalli non siamo teneri, non siamo farina da far ostie»,
sintetizza Amanzio, «e quando c'è da scendere in piazza non ci si pensa
due volte. Però in testa abbiamo sempre un obiettivo: riportare tutti a
casa sani e salvi. Prima del G8 ci eravamo trovati di fronte all'ennesima
provocazione. Forza nuova voleva manifestare in città in occasione
dell'anniversario del 30 giugno `61. Noi ci siamo visti, abbiamo fatto
sapere a tutti che eravamo pronti a riprenderci la piazza. Poi, quando i
40-50 fascisti arrivati a Genova sono stati relegati in una pizzeria fuori
mano, abbiamo cercato di contenere i giovani del movimento che giustamente
volevano impedire anche quella provocazione di ripiego, ma dall'altra
parte c'erano centinaia e centinaia di poliziotti. Che senso aveva
andarsele a buscare, soprattutto quando il risultato più importante era
stato raggiunto?».
Il `60, dice Amanzio, era una storia diversa. «Una storia nostra. Il G8
ci è piovuto sulla testa. Anche se in Compagnia avevamo intuito che
sarebbe arrivata tanta gente da fuori e che dall'altra parte, governo e
forze dell'ordine cercavano lo scontro e a questo scopo avevano allestito
dei gran trappoloni». 30 giugno `60, i gipponi che facevano i caroselli, i
ragazzi che assaltavano le camionette, fermavano i gipponi e poi via, giù
per i carrugi e hai voglia a rincorrerli. I `rivoltosi' avevano il
controllo della piazza. «Nel 2001, invece, cosa è stato fatto per
difendere quei 200-300 mila inermi intrappolati da polizia, carabinieri,
guardia di finanza e chi più ne ha più ne metta?».
Diversa l'origine - genovese la prima, «estranea» la seconda - e
diversa la gestione della piazza. «Il 30 giugno è cominciato diversi
giorni prima, con le riunioni quotidiane a piazza Banchi con tutti i
ragazzi. Eravamo organizzati», dice Paride, «già ai primi cortei verso
piazza De Ferrari e ai primi scontri all'altezza del Duomo. Nei giorni era
cresciuta la maturazione del movimento: qui, in una città dove solo 15
anni prima erano stati uccisi dai fascisti tanti compagni, tanti
partigiani, tanta gente comune, i fascisti non dovevano parlare. Noi
ragazzi con le maglie a strisce e le braghe consumate - mica firmate come
quelle di adesso - avevamo delle guide, dei punti di riferimento. Alle
spalle avevamo l'organizzazione del Pci, dell'Anpi, della Cgil. Quando
cominciarono gli scontri, i partigiani - quelli della montagna che tutti
si rispettava - si misero i bracciali e presero il comando impedendo
qualsiasi degenerazione, tenendo a bada le teste calde. Mi capisci? A me
in un certo senso giravano i coglioni, però stavo alle regole. Alla fine
della fiera ci fu un riconoscimento nei nostri confronti e, scampato il
pericolo, impedito il congresso del Msi, fummo tutti tesserati all'Anpi».
«Genova è una città
fiera, capace di far cadere i governi, è una città che ha memoria. Eppure,
sarà perché il G8 ci è caduto addosso, è come se dopo 4 anni la memoria
cominciasse a vacillare. C'è una parte che vive il ricordo di Carlo e di
quei giorni in modo militante - è l'opinione di Amanzio - mentre un pezzo
di città tende a rimuovere. Non c'è quel clima forte del 20 luglio del
2002, quando in maniera assolutamente spontanea e imprevista la città
intera si riversò in piazza, un anno dopo. Genova è una città ferita,
offesa dalla militarizzazione del G8, chi costretto ad andarsene per via
delle grate e delle minacce inverosimili montate dai giornali, chi
costretto a restarsene chiuso in casa. Ferita per gli scontri e le
violenze ingiustificate della polizia. Ferita alla Diaz e a Bolzaneto.
Così c'è chi cerca di pensare ad altro». Però Genova, aggiunge Amanzio, «aprì
le porte ai ragazzi che scappavano e anche le pompe dell'acqua, per
alleviare il caldo di quei giorni».
«Te la dico così:
Genova si è vista catapultare addosso una carica enorme di violenza, di
quei giorni ricorda la militarizzazione della città, i tombini saldati e
le grate davanti alla porta di casa. Ricorda anche le stronzate di qualche
ragazzotto che spaccava tutto. Vedi, si dice che i genovesi sono spilorci,
non è vero ma certo non ci piace veder bruciare le cose a cui teniamo.
Metti che io ho una macchina e ci sto ancora pagando le rate. Se un blac
bloc me la brucia m'incazzo, è naturale. Ma se il giorno dopo vedo dei
ragazzi inseguiti dalla polizia come il topo col gatto, è ovvio che apro
la porta al topo per metterlo in salvo. Ecco, questa è Genova», taglia
corto Paride. Ma prima che io lasci la sua stanza, dalla cui finestra si
domina il porto con i container e i «suoi» camalli al lavoro, Paride vuole
la garanzia di non essere stato frainteso, come successe ai tempi del G8
con un altro giornalista che lo mise in contrapposizione con i giovani no
global: «Sia chiaro che io sto, oggi come sempre, dalla stessa parte della
barricata di chi si batte contro le ingiustizie. Le critiche sulla carenza
di organizzazione non hanno a niente a che vedere con la condivisione
degli obiettivi. Carlo è un ragazzo che ha militato per la libertà, in
difesa degli interessi dei più deboli. Un ragazzo generoso, com'è generosa
la nostra gioventù».
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