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Gli attentati di Londra, i lavoratori, il movimento “no war”
Come hanno detto il deputato inglese Galloway e l’esponente del movimento “no war” internazionale Tariq Ali, non c’è da sorprendersi per gli attentati di Londra: “la causa delle bombe di Londra sta nel supporto –politico e militare– dato dal partito laburista e dal suo primo ministro Blair alle guerre degli Usa in Afghanistan e in Iraq”. A rincalzo di queste dichiarazioni si può ripetere oggi quello che disse il padre cattolico Benjamin all’indomani dell’11 settembre: più che di un’azione aggressiva, dovremmo parlare di una reazione difensiva all’infinito e sistematico terrorismo che da decenni le potenze occidentali esercitano contro interi paesi e popoli, di fatto ri-colonizzati. Dobbiamo forse ricordare oltre all’Iraq e al quotidiano olocausto palestinese la carneficina e l’occupazione della Jugoslavia? O la miseria nella quale sono gettate le popolazioni del Sud del mondo da quella globalizzazione capitalistica che anche qui in Occidente, ai lavoratori occidentali e non solo agli immigrati, regala un futuro sempre più incerto e disumano?
Quale guerra è in atto?Hanno ragione Bush e i giornalisti à la Feltri, è in atto una guerra. Quello che questi signori si guardano però bene dal dire è che essa è stata scatenata dall’Occidente imperialistico contro il popolo iracheno e i popoli arabi, contro gli sfruttati del mondo islamico per saccheggiare il petrolio mediorientale, per gettare nella miseria più nera i lavoratori dell’area e averli a disposizione come manodopera ultra-ricattata in loco o, in veste di immigrati, in Occidente. Una guerra che serve anche a preparare il terreno materiale ed ideologico all’aggressione in grande stile in via di allestimento contro la Cina e gli sfruttati dell’Estremo Oriente. Una guerra che non è cominciata dopo l’11 settembre o nel 1990 bensì secoli addietro, nel “momento” in cui l’Europa capitalistica ha sottomesso e colonizzato con la forza delle cannoniere e della finanza l’Asia, l’Africa e l’America Latina... Dinanzi a guerra il popolo iracheno, il popolo palestinese, gli sfruttati del mondo islamico stanno “semplicemente” cercando di difendersi, per sottrarsi al destino da schiavi che i pretesi liberatori occidentali vorrebbero imporgli e conquistare una vita da esseri umani. Che il cosiddetto “terrorismo” islamico nasca all’interno di questo scontro e sia una delle forme della resistenza dei popoli e degli sfruttati del mondo islamico lo ammettono anche analisti borghesi lontanissimi da noi, come ha scritto ad esempio sul Corriere della Sera del 10 luglio Robert Pape dell’University of Chicago. Ed è questa resistenza che i governi occidentali rappresentano con il termine “terrorismo”. È questa resistenza il bersaglio che essi vogliono colpire e annullare.
Le “loro” e le “nostre” condizioni sono legate a filo doppio Dire questo non significa esultare per le vittime di Londra e nemmeno arruolarsi nella galassia di al Qaida. La strada dei comunisti è diversa. Essa risponde però agli stessi problemi che le popolazioni musulmane stanno tentando di risolvere alzando la bandiera dell’islam radicale: quelli del sottosviluppo, quelli del dominio del capitale occidentale sulla loro vita... Problemi che sono anche i problemi dei proletari occidentali, coinvolgono i “diritti” e le “libertà” di questi ultimi, la loro capacità di difesa dall’attacco portato nei posti di lavoro e nella società occidentali dagli stessi governi e capitalisti che spellano i popoli e i proletari del mondo islamico e del Sud del Mondo. La schiavizzazione delle masse lavoratrici delle periferie non è solo affar loro. Guardiamo ai fatti. Nel 1991, con la prima aggressione all’Iraq, è partito l’ultimo (per ora) capitolo della guerra secolare dell’Occidente capitalistico contro il mondo musulmano. Oggi sono pochi i lavoratori occidentali che possono dire di vivere e lavorare meglio che nel 1991, che possono prevedere un avvenire per i figli più roseo di quello avuto da loro stessi. Gli ultimi quindici anni ci insegnano che la guerra contro il “terrorismo islamico”, cioè contro gli sfruttati del mondo islamico, è allo stesso tempo una guerra contro gli sfruttati di “casa nostra”. La radice di questa doppia guerra non è tanto la cattiveria della famiglia Bush o della lobby dei petrolieri, quanto piuttosto la crisi in cui si sta impantanando il sistema capitalistico mondiale, che sta arrivando a fare i conti con la sua necessità di una nuova apocalittica distruzione delle forze produttive del lavoro umano associato perché non riesce a sottometterle più al cappio del profitto, in breve: con la sua bancarotta storica. Tutto il cancan propagandistico sulla “guerra di civiltà”, sull’esportazione della democrazia e sul “terrorismo islamico” serve solo ad occultare questa verità e a legittimare, in nome degli sbandierati “nobili ideali” (o presunti tali), un tremendo (anche se differenziato) schiacciamento della classe lavoratrice in tutto il mondo. In Medioriente come in Gran Bretagna, in America Latina e in Africa e in Asia come negli Usa, in Italia e in Francia.
Li abbiamo lasciati soli.In questo scontro di classe internazionale, i lavoratori occidentali e le masse lavoratrici del Sud del mondo potranno difendere i loro interessi se si batteranno per costruire un unitario fronte internazionale di lotta contro il capitalismo imperialista. È la via che il comunismo rivoluzionario indicò e provò a seguire a Baku nel settembre 1920 con lo svolgimento sotto la direzione dell’Internazionale Comunista di un incontro tra i proletari rivoluzionari d’Occidente e i rappresentanti rivoluzionari dei popoli dell’Oriente. È la via per cui noi comunisti dell’OCI lavoriamo oggi, in un momento politico internazionale ben diverso da allora. Oggi la ribellione di masse di oppressi contro l’imperialismo si esprime sotto la bandiere di una guerra tra continenti e tra stati, sotto la direzione di prospettive politiche al fondo “impotenti” a vincere l’Occidente capitalistico. Impotenti non perché violente bensì perché incapaci, per il loro programma che punta alla riforma dei rapporti capitalistici internazionali e non al loro rivoluzionamento e alla loro radicale distruzione, di promuovere, unificare e dirigere l’organizzazione dell’unica forza in grado di sconfiggere l’imperialismo: la mobilitazione rivoluzionaria degli sfruttati del mondo islamico in unità fraterna con gli sfruttati del resto del mondo. Ma se accade questo, è innanzitutto perché i lavoratori e il movimento “no-war” occidentali hanno lasciato soli gli sfruttati dell’Iraq, della Palestina, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa nello scontro con i mostri statali e finanziari dell’Occidente. È perché qui in Europa i lavoratori e il movimento “no-war” sono ancora impigliati nella (vana e impotente) speranza di potere ribaltare la piega presa dagli avvenimenti puntando su un programma di umanizzazione del capitalismo. È perché essi sono ancora “ciechi” sul fatto che la lotta per la difesa delle loro condizioni di lavoro e di vita non può essere portata avanti senza che sia congiunta a quella per tagliare la strada alle aggressioni imperialiste, senza che in essa si faccia strada il riconoscimento che la resistenza degli oppressi del Sud del mondo, comunque connotata, è la stessa di quella dei proletari occidentali. A questa divisione e al suo approfondimento lavorano le potenze capitalistiche occidentali.
Trasformare lo scontro tra continenti in scontro di classe internazionaleMa la prospettiva dell’islamismo radicale sarà superata se dalla lotta scatenata nel suo nome, in Medioriente e nelle “nostre” metropoli, i proletari occidentali sapranno imparare il dovere della fratellanza militante, se sapranno mostrare che anche qui in Occidente si lotta sul serio contro l’insieme della catena che opprime i lavoratori occidentali e le masse lavoratrici del mondo islamico. Se sapranno mostrare che il nemico principale è in casa propria, è il proprio governo, sono i propri padroni, le istituzioni internazionali nelle quali sono inseriti, dalla Nato all’Onu. Se sapranno appoggiare la resistenza delle masse lavoratrici musulmane e del Sud del mondo senza alcuna dissociazione preventiva rispetto ai metodi e ai fini che si danno (sono costretti a darsi!) in assenza di una mobilitazione vigorosa dei lavoratori in Occidente. È questo il senso dell’appoggio incondizionato che noi comunisti internazionalisti esprimiamo ai popoli e ai lavoratori dell’Iraq e del Medioriente e che chiamiamo ad esprimere i lavoratori occidentali. È la base per far sì che lo scontro in atto non rimanga più ingabbiato in una lotta “tra continenti e stati” ma si sviluppi per quello che è: scontro di classe internazionale tra sfruttatori e sfruttati. Nei mesi scorsi si sarebbero già fatti dei passi su questa strada dell’affratellamento internazionalistico di lotta se noi lavoratori italiani e occidentali e movimento “no war” avessimo saputo raccogliere gli appelli lanciati da varie organizzazioni della resistenza in Iraq affinché qui in Europa, dopo l’occupazione dell’Iraq, non si fermasse ed, anzi, si rilanciasse con maggiore coerenza e organizzazione la lotta per il ritiro delle truppe occidentali dall’Iraq, dall’Afghanistan, ecc. Questo purtroppo non è accaduto, e se continuerà a non accadere i “dannati della Terra” considereranno anche i lavoratori occidentali –anche quelli in cuor loro contrari all’occupazione dell’Iraq– per forza di cose e a “giusto” titolo dei nemici, che banchettano (anche se da commensali poveri) sulle loro spalle insieme ai pescecani della finanza e ai governanti occidentali.
Per tenere lontana la guerra dalle metropoli, occorre...Questa è la lezione che ci viene dai gruppi di lavoratori e di giovani che hanno manifestato a Londra subito dopo gli attentati. Il padre di un militare morto in Iraq ne ha attribuito la responsabilità a Blair, come stanno facendo da mesi le associazioni dei famigliari dei militari che si sono costituite negli Stati Uniti e che hanno fatto sentire la loro voce di solidarietà anche alla manifestazione di Londra. I manifestanti di Londra hanno chiesto il ritiro delle truppe dall’Iraq, intuendo giustamente che per tenere lontano da “casa propria” la guerra, occorre allontanarla dalla “casa altrui” dove l’ha portata il “proprio” governo. Di questo abbiamo bisogno anche qui in Italia. Di affrontare la paura sentita dai lavoratori per la possibile ripetizione a Roma o Milano di quanto accaduto a New York, Madrid e Londra con l’unica risposta efficace: per tenerla lontana dall’Italia, la guerra occorre innanzitutto allontanarla dall’Iraq, dal mondo arabo-islamico, da tutto il “Terzo Mondo”; occorre fare tutto ciò che sta in noi, lavoratori e “gente semplice” dell’Occidente, per favorire la vittoria della resistenza in Iraq e la sconfitta dei governi e degli stati aggressori, a cominciare dall’Italia; per battere la posizione di equidistanza tra la “guerra infinita” e il “terrorismo” di tanti dirigenti del movimento “no war”, che non è altro, nei fatti, che schieramento dalla parte del lupo imperialista; per rompere i ponti con un’opposizione alla guerra che guarda in Italia ad un ruolo autonomo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti o al recupero di una politica autonoma da parte dell’Italia nell’alleanza con gli Usa. Alcuni dirigenti del centro-sinistra hanno addirittura visto come un passo positivo la mossa “a sorpresa” di Berlusconi circa il ritiro di un primo contingente di 300 soldati italiani a settembre, mossa che va invece denunciata per quella che è: una nuova, astuta manovra per prepararsi al meglio alle tornate future della “guerra infinita”, in Iraq e oltre l’Iraq verso l’Iran. Prepararsi innanzitutto sul fronte interno. Che non si attrezza solo con l’aumento delle spese militari e col potenziamento delle forze dell’ordine, ma anche lavorando per compattare i proletari d’Italia, italiani e immigrati, attorno alla crociata anti-“terrorismo” e alla partecipazione italiana agli utili imperialisti. La tattica è quella di presentare la borghesia italiana come quella che fino all’ultimo ha operato per la mediazione e che, davanti alla precipitazione delle cose, evita di non rimanere “fuori” solo per cercare di dare un indirizzo “umanitario” e “controllato” alle operazioni belliche.
Contro ogni prospettiva europeistaÈ difficile che dal ritiro parziale annunciato per settembre e dagli inciuci bipartizan che si annunciano in vista della votazione parlamentare per il rifinanziamento della missione Babilonia, la borghesia italiana prenda il via per un impegno europeista coerente, come pure hanno chiesto alcuni organi di stampa del grande capitale, dal Corriere della Sera al Sole 24ore. In ogni caso, la prospettiva europeista sarebbe un’altra via contro la classe proletaria. Come scrive Renzo Foa sul Giornale, tale prospettiva non implicherebbe un rimanere fuori dallo scontro tra gli Stati Uniti e il “fondamentalismo islamico”, bensì un prepararsi a parteciparvi come Europa per strappare ai concorrenti a stelle e strisce una maggiore fetta del bottino neo-coloniale. Questo progetto richiede che i lavoratori in Europa si lascino irreggimentare a dovere nella caserma dello sfruttamento capitalistico. Al di là delle forme esteriori, esso è la riproposizione della politica portata avanti da Mussolini e Hitler, spinta oggi all’ennesima potenza, data l’acutezza dello scontro e la forza dei concorrenti. La possibilità che una simile illusoria e suicida prospettiva possa far breccia tra i lavoratori europei non va sottovalutata. Il fatto che anche le altre borghesie europee, prima di tutto quella francese e quella tedesca, siano al momento incapaci di “battere un colpo” in concorrenza con gli Usa, come chiede Bertinotti dalle colonne di La Repubblica, potrebbe anche portare al rilancio “dal basso”, da parte di strati popolari, del ruolo imperialistico autonomo dell’Europa. È quello per cui stanno lavorando alcuni gruppi di estrema destra in varie città italiane e in altri paesi europei attraverso un’attività politica tesa a collegare la prospettiva europeista alla illusoria promessa di una soluzione dei problemi sentiti dal proletariato europeo, come quello della disoccupazione e della precarietà o della casa o della decomposizione morale della società occidentale.
Rilanciamo la mobilitazione contro la “guerra infinita”! Quanti vogliono davvero opporsi alla continuazione della “guerra infinita” sono chiamati a schierarsi in modo inequivoco contro la politica che verso l’Iraq e i popoli dominati stanno conducendo sia gli Stati Uniti che i paesi europei. Sono chiamati a respingere sia la politica pro-Usa (fino ad un certo punto) di Berlusconi che quella pro-europea (fino ad un certo punto) del centro-sinistra, entrambe contrarie ai bisogni dei proletari d’Italia e dei popoli e dei lavoratori mediorientali. Sono chiamati a portare avanti un percorso di organizzazione e di lotta, finora in gran parte mancato, in grado di contrapporre al programma, multiforme, di guerra dell’imperialismo un programma volto ad individuare ed estirpare le cause della guerra e dell’oppressione imperialista sui popoli e sugli sfruttati del Medioriente nell’unico modo possibile: “uscendo” dal capitalismo! In questo percorso, di cui come OCI ci sentiamo parte integrante, è lo stesso scontro in corso ad imporci i compiti di lotta a cui far immediatamente fronte e a cui chiamare la massa dei lavoratori:
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Organizzazione Comunista Internazionalista |
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