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Dal manifesto del 18 marzo 2005
USA/IRAQ
Portuali in lotta
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Sondaggi al limite
del disperante (per George Bush) e tutti i porti della Baia di San
Francisco bloccati da uno sciopero: sono due dei segni che caratterizzano
il secondo anniversario dell'invasione dell'Iraq che ricorre domani. A
promuovere lo sciopero è la quasi leggendaria Ilwu, che sta per
International longhore and warehouse union,
cioè il sindacato dei portuali con una grande storia di lotta, sempre
capace di coniugare la difesa dei diritti dei lavoratori con quella dei
diritti dei cittadini in generale. Nel suo recente passato c'è il rifiuto
di caricare sulle navi gli armamenti destinati al Cile di Pinochet; la
stessa cosa con un carico di armi destinato alla giunta militare
salvadoregna; la lunga lotta contro l'apartheid in Sudafrica culminata nel
boicottaggio del 1984 cui poi lo stesso Nelson Mandela disse di essersi
ispirato; per non parlare della partecipazione di quel sindacato alle
famose proteste di Seattle del 1999, quando per la prima volta si affacciò
sulla scena il movimento dei no global. Il motto della Ilwu, che da sempre
campeggia in un grande striscione sul
waterfront
di Oakland, il quarto porto degli Stati
Uniti, ricorda che «Se non conosci i tuoi diritti non li puoi usare. Se
non li usi, li perdi». E proprio da Oakland, subito a Nord di San
Francisco, viene la concreta indicazione del «rapporto» fra la guerra in
Iraq e le condizioni sociali. Nel corso del 2004, dice la Ilwu, per il
porto di Oakland sono passati due milioni di conteiner per un giro di
denaro di 30 miliardi di dollari. Eppure le scuole della città continuano
ad essere chiuse per mancanza dei fondi federali, che vengono assorbiti
dalla guerra, e di quelli statali che il governatore della California
Schwarzenegger sta tagliando senza misericordia, bollando come «difensore
di interessi particolari» chiunque protesti.
Sabato, dunque, tutti gli attracchi della zona di San
Francisco saranno bloccati e quella sarà probabilmente l'unica «cerimonia
pubblica» che celebrerà l'inizio della sciagurata avventura di Bush. (Lui,
per quanto se ne sapeva fino a ieri, l'unica celebrazione che aveva in
mente era quella di parlare dell'Iraq durante il suo messaggio radiofonico
settimanale). E ne parlerà com'è suo costume «contro la realtà», che
invece gli interpellati nel sondaggio di cui si diceva all'inizio mostrano
di avere imparato a percepire molto meglio di lui. Il 70 per cento di loro
dice per esempio che il livello delle perdite americane (che si prendano
in considerazione quelle irachene è chiedere troppo) è «inaccettabile». Il
53 per cento dice che la guerra «non merita di essere combattuta», e il
paragone è con il 70 per cento che durante i mesi di «attivi combattimenti»
diceva il contrario.
Fra le domande poste dal sondaggio - condotto
dall'emittente televisiva ABC in collaborazione con il Washington Post
- c'era anche quella se questa guerra avesse posto gli Stati Uniti in una
più forte posizione nel mondo, e solo il 28 per cento si è sentito di
rispondere «sì», un vero capitombolo rispetto all'ultima rilevazione,
quando i «sì» erano stati il 53 per cento. Quanto a George Bush in
persona, il suo operato è approvato da meno del 50 per cento (il paragone
è con il 77 per cento dei tempi d'oro) in generale e dal 39 per cento in
particolare sull'Iraq (anche qui i «picchi» del passato mostravano un
favore del 77 per cento).
E per quanto riguarda il futuro che Bush prospetta? I
tre quarti degli interpellati dicono che di un confronto militare con la
Corea del Nord non vogliono neanche sentir parlare e due terzi dicono la
stessa cosa riguardo all'Iran. |
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