Libero del 20 ottobre ci dedica, prima e terza pagina (che onore!), due pezzi, di merda, in cui ci si vorrebbe "reclutati" dal terrorismo islamico, il tutto sotto un titolone che evoca le… BR, di cui, a quanto pare, saremmo sinonimi. Roba da codice penale, se credessimo che questo valesse qualcosa, magari solo a tutelare il nostro "buon nome". Noi lasciamo questa genia fare il proprio sporco mestiere, noi facciamo quello nostro, del tutto pulito. Ma non possiamo lasciare senza risposta una simile provocazione. La additiamo pubblicamente a vergogna di chi se n’è fatto carico cercando di trarne delle lezioni. E la prima lezione è che essa non è tanto rivolta contro di noi, ma contro le ragioni profonde dell’insieme del movimento antiglobal ed antiguerra, ancorché il fatto possa risultare assai poco chiaro a certuni elementi di esso. Se, in prima persona, è noi che si attacca è "solo" perché noi diciamo con chiarezza quali sono le ragioni profonde del movimento in questione, cui esso può rispondere unicamente andando avanti, spezzando le mortifere illusioni di un "dialogo" col nemico a suon di semplici e sempre più spompate petizioni morali o di fiaccolate "pluraliste" in cui amanti della "pace" e della "giustizia" sfilano fraternamente assieme ai boia della guerra e dell’ingiustizia connaturata all’essere stesso del capitalismo imperialista. Dei riformisti di mezza tacca, del tipo Agnoletto, possono benissimo non rendersi conto che il capestro che si vorrebbe stringere attorno al nostro collo è indirizzato anche ad essi, cui la borghesia affida un compito di controllo e deviazione del movimento per predisporne poi la fine, e non per semplice consunzione interna. E’ il vecchio gioco del riformismo socialista dei "patti di pacificazione" col fascismo in nome della "comune" lotta al… terrorismo comunista. Con quali esiti, poi, per lo stesso riformismo lo sappiamo benissimo. I sogni riformisti possono anche essere in buona fede e "nobili", ma restano sogni micidiali e dall’amaro risveglio per gli stessi begli addormentati nel bosco. De te fabula (anche) narratur. Non sarebbe male rendersene conto in anticipo e noi siamo certi che il movimento, nel suo insieme, nella sua dinamica, non è composto tutto da gente in perenne catalessi. Ad essi ci rivolgiamo.
Le nostre posizioni sull’11 dicembre sono suonate per molti, anche (o soprattutto?) all’"estrema sinistra" indigeribili. Ipnotizzati dal richiamo (imperialista) al comune fronte antiterrorista, molti di costoro si sono messi in allarme. Non è che quelli dell’OCI "esagerano"?
Attenti a non farvi feltrizzare, cari compagni! E cerchiamo di capire e capirci.
Cos’è stato l’11 settembre e cosa ne conseguirà?
Per rispondere alla domanda occorre ragionare su tre diversi e connessi piani: quello di una corretta registrazione dei fatti, quello della loro analisi, quello, infine, delle prospettive politiche che ne derivano. Andiamo per ordine.
A livello di registrazione dei fatti noi dell’OCI non facciamo che prender nota delle cose così come stanno, non diversamente, in questo, da coloro che ci qualificano per "cripto" (e neppur tanto) terroristi. Le masse arabo-islamiche non si sono stracciate le vesti per le vittime delle Twin Towers: al contrario, hanno salutato questo gesto come un "atto dovuto", un "piccolo risarcimento" delle infinite sofferenze di cui esse si sentono vittime da più di qualche mese a questa parte. Piaccia o non piaccia, così è, e tanto devono registrare anche i Libero ed il Giornale, fatte salve tutte le conclusioni che essi ne possono trarre (in contrasto con noi). Questo dato di fatto deve pur significare qualcosa, e ci verremo subito, ma che esso sia, per l’appunto, un dato di fatto è assodato per tutti, è un preliminare oggettivo da cui è impossibile prescindere, da destra o da sinistra (o da comunisti) che lo si voglia prendere. Chi può negarlo? Per motivi comprensibilissimi, ma non congrui, lo possono negare, ad esempio, certi responsabili delle comunità islamiche in Italia che, sotto la pressione dell’ondata colonial-razzista occidentale, trovano "comodo" sgravarsi di questo peso insopportabile (dato l’ambiente in cui si trovano a "vivere"), e proclamano che "tutti i mussulmani" doc condannano senza remore il "terrorismo" quale "estraneo" all’Islam, illudendosi così di trovare un maggior spazio di "convivenza" e "dialogo" civili qui. Espediente comprensibilissimo, ma di scarsi risultati utili perché ca’ nisciuno è fesso e il fossato tra sentimenti spontanei degli oppressi e dichiarazioni di guerra "anti-terroristica" borghese metropolitana è evidente a tutti: non occorre neppure un Feltri, anche un Santoro sa cosa effettivamente sentano gli "estranei" tra noi. Piaccia o non piaccia. Oliver Stone ha osato dire, tra lo scandalo "generale": le manifestazioni di esultanza di massa tra gli arabo-islamici per l’11 settembre equivalgono a quelle dei giacobini per la testa rotolata del re. Sentimento giusto o sbagliato? Questo è, e cominciamo, intanto, col prenderne atto. Qualche ragione di ciò vi sarà, e l’andiamo subito a vedere.
A livello di analisi noi dell’OCI ci sforziamo di capire e dar da capire il perché di tutto ciò. Ed anche su questo punto siamo tutt’altro che isolati. Perché questo odio contro l’Occidente? L’Occidente c’entra qualcosa con tutto ciò come causa o si tratta di un puro abbaglio di "barbari"? Guarda caso, gli stessi giornali che si profondono contro di noi per il nostro "anti-occidentalismo" marxista sono costretti ad ammettere, qua e là (vedi proprio certi articoli dei due sullodati fogliacci) che il risentimento delle masse arabo-islamiche non è che si basi sul nulla, ma trova una sua radice nell’azione della "nostra superiore Civiltà". El Pais, che pure è in prima fila contro il "terrorismo" arabo-islamico, ha scritto: effettivamente l’Occidente ha molte colpe da farsi perdonare (assoluzione certa, va da sé!), solo che come il freddo (occidentale) può essere invocato come veicolo per il diffondersi dell’influenza ("terroristica"), non si può imputare l’influenza al freddo, ma occorre individuare il "virus" che provoca il contagio, e questo è "indipendente" dalle… condizioni ambientali. La spiegazione "scientifica" è da premio Nobel dell’improntitudine (verrà, verrà anche il premio per essa!). Insomma: noi li torchiamo, li sfruttiamo, li dissanguiamo, ma il virus di reazione è affar loro! Cosa diciamo noi? Quello che dicono anche dei non comunisti, ma persone serie e non vigliacche. Prendi a caso: padre Benjamin, il vescovo di Caserta, l’IAC dell’ex-ministro Ramsey Clark, Oliver Stone o… Nekruz. Questa, ed ogni altra, azione "terroristica" da parte dei popoli oppressi va letta come una reazione, una risposta (infinitesimale: qui parlano i numeri, non un’ideologia!). Per decenni si sono presi questi popoli a sberle confidando che questi rispondessero porgendo l’altra guancia. Oggi essi ribattono colpo su colpo, per quel tanto o poco che possono fare, perché (come diceva Bud Spencer rispondendo con poderose manate a chi lo colpiva aspettandosi una passiva e non violenta reazione alle botte incassate) "le guance sono finite". Può piacere o non piacere, ma così stanno le cose e lo sanno benissimo anche i nostri buttafuori. Su questo punto non siamo per nulla originali, non c’è nulla che, ancora, ci separi dai corifei dell’Occidente. Le differenze vengono subito dopo, quando si tratta di passare dalla registrazione dei fatti e dall’analisi alle prospettive e, qui, veramente, si scava l’abisso, tra noi e… i terroristi del capitale.
Le prospettive, per l’appunto. Il padrone coloniale che trova comodo pagare il petrolio a prezzo inferiore dell’acqua minerale (inquinata) e la forza-lavoro dei suoi schiavi a quattro lire, per la maggior gloria dei nostri crescenti standard consumistici (ed anche come buon mezzo per deprimere il prezzo della forza-lavoro e tutto il resto dei nostri "indigeni" proletari), può, deve, derivarne la conclusione che l’ordine deve essere mantenuto, o ristabilito, costi quel che costi, contro l’insorgenza dei "barbari". Noi, comunisti internazionalisti, diciamo: la reazione degli oppressi è un dato di fatto legittimo e necessario che si ricollega alla lotta degli sfruttati di qui, come un anello (ahinoi!, quanto dispari!) di una stessa catena antagonista e che si tratta di mettere assieme, collegare, indirizzare, ai fini di un unico e solo scopo di emancipazione degli sfruttati dalle proprie catene, socialismo contro capitalismo. "C’è libertà d’opinione in Italia. E chi la tocca?", scrive Libero. Bene. Ma lo sfruttamento capitalistico globalizzato non è solo un’opinione e la risposta ad esso non lo è del pari. Pensieri e parole sono pietre, visto che lo sono i fatti su cui si ragiona e si parla, su cui si agisce. Ci lasciate "opinare" che c’è un mondo di sfruttati antagonista a quello dello sfruttamento? Bene, ci prendiamo il lusso di agire contro di esso. Come? Ve lo diremo subito.
Libero dice del nostro volantino in arabo che "chiama gli stranieri alla guerra contro l’Occidente, Bush e Berlusconi" (di nostro mettiamoci pure D’Alema e Rutelli). Prima osservazione: per noi non ci sono stranieri tra gli oppressi; estranei e nemici ci sono soltanto i paladini dell’attuale ordine costituito. Noi chiamiamo tutti i nostri ad una sola ed unica battaglia, dai contorni ben definiti, quelli che ci caratterizzano e non spartiamo con nessuno. Non è assolutamente vero che prima miriamo ad un’"alleanza" strumentale (visto che "il nemico è lo stesso") e "poi vedremo". Noi giochiamo le nostre carte e vediamo subito. Ciò che noi diciamo è che ci tocca prendere atto che, allo stato attuale dei fatti, i popoli oppressi del Terzo Mondo fanno quel che possono e devono, e come possono e devono. Noi siamo incondizionatamente solidali con essi, nel senso che non poniamo ad essi la precondizione che prima si debbano allineare con noi, coi nostri fini ed i nostri metodi, e poi li appoggiamo. Quale che sia il modo e la direzione della loro risposta noi siamo con essa solidali nel senso che essa deriva da condizioni date di oppressione che noi riconosciamo come un fatto oggettivo comune. Questo non significa affatto che stiamo sulla loro lunghezza d’onda, né quanto ai fini né quanto ai metodi, ma che per invertire gli uni e gli altri nel nostro senso occorre che ad essi arrivi il segno tangibile del nostro riconoscimento nei fatti che la loro causa è storicamente la nostra. Nell’ultimo numero del nostro giornale queste cose vengono chiaramente dette nell’articolo sul nostro anti-imperialismo ed il loro. Tra i due termini non c’è né identità né "alleanza strumentale", ma radicale opposizione, anche e soprattutto perché noi pensiamo che il "loro" (sotto le proprie attuali bandiere) è un anti-imperialismo tanto duro quanto impotente e, nel senso marxista del termine, "reazionario" (cioè di reazione -legittima e vitale- agli effetti dell’imperialismo e non di aggressione alla radice delle cause di esso e persino con una petizione micidiale di "anti-occidentalismo" che mette nel mucchio, per ben spiegabili motivi, oppressori dell’Occidente cui ribellarsi ed oppressi dell’Occidente cui non si sa parlare, o chiaramente confusi in un tutt’uno reazionario senza virgolette). Solo che l’inversione che noi proponiamo può prender forza unicamente dalla più completa ed incondizionata sussunzione delle ragioni vere, storiche per l’appunto, delle loro sofferenze, della loro rivolta. Questo è il senso del nostro incondizionato appoggio ad essi, che è… condizionato ad un fattore soltanto, la nostra capacità di agire secondo il nostro programma, proletario ed internazionalista e non interclassista e panislamico. L’abbiamo detto chiaramente: la prospettiva nostra non è quella della "liberazione nazionale" (o dell’umma islamica) sotto bandiere borghesi -pura utopia reazionaria!-, ma quella dell’emancipazione proletaria mondiale, fraterna tra proletari metropolitani e masse oppresse islamiche contro l’ordito capitalista mondiale di cui le borghesie arabo-islamiche sono una semplice appendice "dipendente" e che mai potrebbe diventare di per sé qualcosa di diverso. Non ci arruoliamo nelle truppe dei Bin Laden o di chicchessia né stringiamo con esse patti di alleanza, ma chiamiamo i nostri fratelli arabo-islamici a demarcarsi da esse, a trovare la propria via comunista internazionalista al di fuori e contro di esse facendosi carico in prima persona e per sé dei propri motivi profondi di lotta. Come? Dando ad esse la dimostrazione che qui si lotta sul serio e conseguentemente contro l’insieme della catena reale che li opprime per spezzarla utilmente; che noi, innanzitutto, riconosciamo che il nemico principale è qui, in casa nostra, e contro di esso facciamo integralmente il nostro dovere.
Questa è la sola strada che concepiamo per far uscire la lotta di resistenza all’imperialismo degli oppressi "stranieri", cui noi integralmente aderiamo, dalle secche attuali. Si potrebbe notare che proprio i signori alla Libero si frappongono a tutto ciò e pertanto obbligano gli oppressi del Terzo Mondo ad agire in un dato senso, "terroristico", che sarebbe superato da una ritrovata unità comunista internazionalista tra gli sfruttati. La cosa andrebbe segnalata alle… procure della repubblica quale concreto incitamento al… terrorismo. Ma osiamo avanzare il sospetto che una reale unità internazionalista del nostro campo, quand’anche liberata dalle incombenze che oggi toccano a kamikaze e borghesi "rivoluzionari" che li comandano, non sarebbe salutata come un grande "progresso civile". Già, perché la nostra prospettiva suonerebbe più pericolosa per il padrone cui essi offrono i propri servigi da cani da guardia.
E cosa significa tutto questo nel concreto, qui, e nella nostra azione? Muoverci, ad esempio, contro le operazioni di guerra dell’imperialismo contro i popoli (altro che "operazioni chirurgiche"!), scendere in piazza contro il nostro coinvolgimento in una guerra che non ha di mira terroristi veri o presunti tali, ma i popoli cui noi succhiamo il sangue (petrolifero, putacaso) su cui esercitiamo un "diritto divino" di "proprietà". Muoverci per difendere tutti gli spazi possibili di auto-organizzazione degli immigrati a difesa delle proprie insopprimibili ragioni di lotta contro la chiusura di essi a colpi di diktat razzistici (sono degli "ospiti" venuti qui non si sa bene per quali motivi -ovvero: la "nostra" necessità di spremerli qui e là e di spremere, con essi, i proletari indigeni, e "quindi" non hanno diritto né di parola né di azione). Muoverci per fermare le fabbriche e tutti i luoghi di lavoro "nostri" contro questa guerra infame. Ce lo riconosce il "diritto" costituzionale? Bene, noi pretendiamo di usarlo fino in fondo per mostrare come l’esercizio pieno di esso venga a collidere coi principi materiali su cui esso si fonda. Non ce lo riconosce? Ne prenderemo atto qualora lo si ammetta francamente, senza con ciò ritirarci dall’arena di battaglia. Su questa strada non siamo soli ed abbiamo, anzi, dei compagni di strada eccellenti, molto difformi tra noi, compresi certi ambienti cattolici o senza etichetta esclusivistica (se, come leggiamo dal Corriere, un quarto della popolazione italiana, non solo di sinistra, ma persino di centro-destra popolare, sente che persino i nostri più fieri nemici, alla Bin Laden, hanno delle ragioni da vendere dalla propria parte). Se le procure repubblicane volessero seriamente esercitarsi nella caccia ai "cripto-terroristi" crediamo che occorrerebbe predisporre un piano straordinario di cattura e reclusione dei reprobi: dove li mettiamo quindici milioni di italiani?
L’ineffabile Renato Farina di Libero dice di noi che eravamo a Genova tranquillamente (per quel tanto di tranquillità che potevano lasciarci le cariche "indiscriminate" della polizia), nella parte "innocente e perfetta" del corteo e che "il giorno dopo (quelli dell’OCI) non hanno rovesciato le camionette. Erano parte della grande pancia incolpevole". Già, della pancia incolpevole perché ordinata e tranquilla alla luce del sole, senza bisogno di "atti dimostrativi" estetici e inconseguenti, com’è nel nostro stile, da quando, perlomeno, i nostri vecchi Marx ed Engels ci hanno raccomandato di evitare atti inconsulti a titolo "dimostrativo", eccitativo, inutilmente barricadero, per concentrarci sull’azione nella massa e verso la massa per organizzarla e dirigerla a dovere. Ma il senso della notazione del Farina è chiaro: noi borghesi non temiamo tanto gli "insurrezionalisti", ma questi soggetti che lavorano organicamente alla luce del sole per un’azione disciplinata di massa. Temiamo costoro perché capaci, in prospettiva, di catalizzare organicamente tutte le ragioni latenti di un antagonismo che non dipende dall’invenzione di chicchessia, ma sta nei fatti, nella materialità di uno scontro a livello planetario. Costoro non rovesciano le camionette, ma rischiano di rovesciare il sistema e per questo è necessario non solo e non tanto prevenire e reprimere gli "esagitati", ma eliminare ogni spazio di "incolpevole" dissenso di massa. Capita la lezione, Social Forum?
A Genova si è invocato il pretesto dei black bloc scassatutto per dare addosso al movimento di massa, non per quello che gli Agnoletto intendevano fosse (una democratica sfilata di impotenti), ma per quello che esso minaccia di poter essere. Dopo l’11 settembre si fa lo stesso gioco contro i "terroristi" veri e presunti per gli stessi motivi. Vi piacerebbero di più delle "ordinate" manifestazioni di massa forti di una coscienza, di una direzione comuniste? Preferireste all’integralismo islamico un integralismo comunista a scala mondiale? Via, non diciamo baggianate, ed infatti Renato Farina lo scrive papale papale: al primo si può mettere la mordacchia, a suon di bombe ed "operazioni chirurgiche di polizia"; il secondo riuscirebbe assai meno controllabile. Ci corre il sospetto che per costoro le azioni "terroristiche" siano le benvenute, a misura che riflettono e fissano il divario "morale" tra proletariato metropolitano ed oppressi del Terzo Mondo e permettono di lanciare campagne di union sacrée imperialista coi primi a rimorchio delle proprie borghesie ed i secondi a quello di borghesi locali privi di prospettive. Ma che direbbero (dicono) dello spettro di un’unione internazionale tra i due "pulcini spaiati di una stessa chioccia" del mondo degli sfruttati? Questo è il pericolo vero. Quello per cui noi lavoriamo.