Qui in Occidente il modo di abbigliare e (s)vestire le donne viene più o meno comunemente accettato come espressione di costumi liberi, di libera scelta individuale, di un “emancipato” modello di vita femminile. Come donne possiamo scegliere di vestirci come ci pare, di seguire la moda e le sue immagini più trasgressive. Pubblicità e televisione (all’insegna del “non ce ne frega niente se pensi e cosa pensi, mostraci solo quello che la natura ti ha regalato”) suggeriscono modelli allucinanti di siliconate semi-nude. Un modello per cui la donna solo se si spoglia può sperare di avere un po’ di “potere” verso il maschio e verso la società.

L’edicola del giornalaio è diventata da tempo un immondezzaio di immagini umilianti per le donne. Sempre più spesso le riviste, anche quelle per intellettuali colti, mostrano culi e tette in copertina. Per non parlare poi dei calendari in cui si spogliano tutti … e dei quali le donne da un po’ di tempo hanno anche il “privilegio” di  essere sia  protagoniste che consumatrici della corrispondente immagine maschile alienata. Già da qualche anno alcuni locali e discoteche hanno preso l’abitudine di festeggiare la giornata mondiale della donna dell’otto marzo con streep tease ed esibizioni di nerboruti maschietti e più di un locale offre questo genere di esibizioni per un pubblico di donne. Anche dietro “mode” di questo tipo la nostra società avvalora la raggiunta “partecipazione” della donna al … privilegio maschile e consolida il luogo comune che le donne sono proprio libere, talmente libere che addirittura i ruoli tra i sessi appaiono invertiti.

Quante volte come donne ci sentiamo prese in giro da questa barzelletta! Il modello dominante in Occidente non solo vuole portarci a questa conclusione. Vuole anche arruolarci nella campagna sciovinista e razzista che accompagna la guerra ai popoli del Sud del mondo, per contrapporci alle donne e ai popoli musulmani che resistono all’azione criminale del nostro imperialismo. La campagna di arruolamento batte su due falsità ossessivamente ripetute. La prima è che la nostra civiltà è superiore, la seconda che le donne islamiche sono schiave e noi donne occidentali siamo libere. Il battage propagandistico che accompagna l’aggressione all’Iraq (secondo un copione già visto nella storia del colonialismo e dell’imperialismo occidentale) prende di mira la donna islamica, la sua cultura e i suoi costumi per attribuire un valore “progressista” alle guerre di distruzione di massa dei  nostri governi. Solo negli ultimi due mesi abbiamo visto in tal senso un continuo tambureggiare della propaganda a partire dalle proteste delle comunità musulmane in Europa che rivendicano l’uso del velo per le donne. Torneremo sul tema con una riflessione articolata. Nel frattempo, mentre rimandiamo agli articoli già pubblicati sul nostro giornale e all'opuscolo sul "burqa", ci limitiamo ad alcune rapide considerazioni.

Come i mass media esemplificano lo scontro in atto tra Occidente e popoli musulmani è sintetizzato dalla vignetta dell’Express dell'8 gennaio 2004 che riproduciamo per documentazione e col vomito nello stomaco.  Una donna festeggia, l’altra piange. Questo è il buon 2004? Si vuole far vedere il conflitto (rappresentato come conflitto tra culture) e dietro questo la diversità delle donne occidentali e musulmane nell’abbigliamento e nell’atteggiamento trasgressivo e divertito della prima e in quello sofferente e chiuso della seconda.

Ma questo non è solo un augurio sciovinistico in tempi di guerra. È anche una rappresentazione razzista e sessista della donna. La donna ancora una volta presa a prestito per le campagne sciovinistiche come razza schiava e  oppressa. Non solo è un invito a che le sfruttate donne non entrino in rapporto tra loro e non solidarizzino (una che ride mostrando il sedere che solidarietà può esprimere verso l’altra che piange?), ma è un mostrare le donne occidentali e musulmane come soggetti passivi, che non trovano niente da fare che darsi all’ebbrezza dello spumante o piangere.

Chi ha disegnato questa vignetta evidentemente non ritiene le donne capaci, nello “scontro tra culture”, di far qualcosa che non sia il  rinserrare le catene della loro oppressione di sesso. Eppure basterebbe che l’autore di questa vignetta, senza andare a spremersi il cervello che gli manca, si scorresse le cronache di questi ultimi due anni di guerra per scoprire che le donne in Occidente e nel Sud del mondo (e qualche volta anche insieme come è successo a Londra contro il congresso di "Miss Mondo" già cacciato dalla furia popolare in Nigeria)  possono essere e sono protagoniste attive della lotta contro l’imperialismo e come in questo percorso di lotta possono conquistare le reciproche condizioni per darsi una politica e un’organizzazione adeguate a sconfiggere la cultura patriarcale, sessista e di classe che le opprime. 

 

Kabul,  novembre 2001

Nell’Afghanistan “liberato” manifestazione di donne davanti alla sede delle Nazioni Unite per rivendicare il diritto al lavoro, all’istruzione e alla partecipazione alla vita politica

 

Londra, dicembre 2002

Manifestazione congiunta di donne occidentali e musulmane contro il concorso di "Miss Mondo" cacciato dalla Nigeria. 

 

Rafah, marzo 2003

Una giovane militante "no global" statunitense, Rachel Corrie, partecipa ad una azione di solidarietà con il popolo palestinese e viene uccisa dall’esercito israeliano. 

 

Baghdad, gennaio 2004

Manifestazione di donne contro l’abolizione del codice della famiglia disposta dal governo installato dall’occupante americano e dai suoi soci.

 

Erez, gennaio 2004:

Una giovane madre palestinese partecipa ad un attacco suicida “morendo per il suo popolo” come lei stessa aveva dichiarato.         

 

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