Indice
- "Una stella mai vista prima"
- La modernizzazione dell’Afghanistan non è compatibile con la modernità imperialista.
- La lotta contro l’oppressione della donna è parte integrante e decisiva della lotta contro l’imperialismo.
- L’Onu e l’Europa sono qualcosa di diverso dall’imperialismo?
- Il burqa riservato alla donna in Occidente
- Un comune percorso di liberazione
Il governo degli Stati Uniti, gli altri governi occidentali, i grandi mezzi d’informazione affermano che l’intervento militare in Afghanistan si prefigge anche il nobile scopo di liberare la donna afghana dalla prigione domestica in cui la teneva reclusa il regime patriarcale dei Talebani.
"Se non altro per questo, voi donne occidentali non potete opporvi all’operazione libertà duratura", dicono Bush, Berlusconi e i loro giornalisti. Ed aggiungono: "fate attenzione, donne occidentali, perché se non estirpiamo questo cancro in quelle terre, esso insidierà anche voi e la vostra libertà, visto che sono milioni ormai gli immigrati islamici in Occidente…"
Che colossale menzogna!
Sì, è vero che la donna afghana è relegata in una triste condizione. Ma chi sono i responsabili di tale condizione? Come mai una donna in Afghanistan vive in media solo 43 anni? Cosa l’ha risospinta a vivere completamente tra le mura di casa? Come mai una donna su 17 muore in seguito al parto e un quarto dei neonati muore dopo la nascita?
Colpa dei Talebani? Anche della loro politica, certamente. Ma le potenze occidentali dimenticano di dire che sono state esse stesse ad armare e rendere possibile la nascita a Kabul del regime del mullah Omar: come mai i loro occhi non hanno visto quando nel 1996 e negli anni successivi le poche donne che ancora lavoravano in ospedali e scuole sono state mandate a casa? E come mai non hanno detto nulla negli anni precedenti, quando la donna era attaccata dalle forze sociali e politiche ora raggruppate nell’Alleanza del Nord? Come mai, al contrario, l’Occidente sosteneva queste forze?
Uno strano comportamento per chi si professa l’alleato delle donne afghane…
Si dirà: "Abbiamo fatto degli errori, ce ne siamo accorti, ora vogliamo riparare, tant’è che non ci fidiamo dell’Alleanza del Nord e abbiamo imposto una rappresentanza femminile nell’esecutivo a cui la conferenza di Bonn ha assegnato il compito di gestire la transizione verso un nuovo assetto statale in Afghanistan. Anzi, per controllare che le cose non prendano la vecchia brutta piega, vogliamo stanziare un contingente militare internazionale in diverse città del paese…"
No, signori. Come ieri, anche oggi gli interessi che vi stanno a cuore non sono affatto quelli della donna afghana. Adesso state gettando il discredito sull’Alleanza del Nord perché essa non si sta mostrando totalmente disponibile ai vostri giochi, al vostro piano di prendere possesso del paese per controllare le risorse di gas e di petrolio della regione. A ciò mira l’installazione di vostre basi militari in Afghanistan, e ad altri scopi che non potete confessare alle donne e agli sfruttati occidentali: puntare una pistola alla tempia delle masse lavoratrici del mondo arabo-islamico affinché non si oppongano al dominio delle multinazionali occidentali, tenere sotto controllo la Cina e la manodopera di tutto il continente asiatico. Non potete dire la verità. E cioè, che dall’Afghanistan, e con la copertura dei Talebani, è partito un atto di ribellione a questo vostro dominio che va punito, perché il miliardo e trecento milioni di musulmani deve accettare il suo destino di schiavitù senza dire una parola. È questo il vero motivo per cui avete iniziato una nuova guerra "chirurgica" in Afghanistan. Le donne afghane non c’entrano niente.
Ma, allora, cosa volete voi comunisti, far restare le donne afghane nella loro condizione? Volevate lasciarle prigioniere di un regime patriarcale?
Non diciamo stupidaggini. Fu solo per mano del comunismo rivoluzionario, sotto l’impulso della dittatura bolscevica in Russia, che cominciò a brillare per le donne dell’Asia centrale e dell’Afghanistan la stella della loro liberazione. Fu poi l’Internazionale Comunista, soprattutto col congresso dei popoli d’Oriente a Baku, che incoraggiò e organizzò in modo sistematico la lotta contro la segregazione delle donne in Asia centrale. Lo abbiamo ricordato quando le cancellerie occidentali andavano d’amore e d’accordo con la direzione dei Talebani nel n. 41 del nostro giornale nell’articolo "Donna e Islam" .
Nell’incandescente assise rivoluzionaria di Baku si denunciò il fatto che l’imperialismo faceva leva sulle strutture sociali patriarcali dell’Oriente per affermare il suo dominio sui popoli e sulle donne dell’area. E si proclamò che la lotta per la liberazione delle donne dell’Oriente era parte decisiva della lotta di liberazione dei popoli d’Oriente, che l’una senza l’altra sarebbe stata impotente e che esse avrebbero raggiunto la vittoria attraverso la loro fusione di lotta con il proletariato occidentale nella prospettiva del comunismo internazionale.
L’Internazionale di Lenin non si limitò a una generica promessa. Chiamò le masse femminili dell’area al protagonismo diretto e cercò di infondere loro quella fiducia nella propria capacità di spezzare le proprie catene che esse non avevano mai conquistato. La risposta fu entusiastica, come si vide dalla stessa tribuna di Baku (vedi gli interventi riportati a pag. 18) e come si vide nello slancio con cui le donne dell’Asia Centrale si buttarono nel fuoco della lotta, pagando non poche volte con la vita la sfida ai vecchi costumi, ai loro quattro padroni, l’emiro, il proprietario terriero, il mullah, il marito o il padre o i fratelli o qualsiasi altro parente maschio.
L’Afghanistan non era interno ai confini delle repubbliche sovietiche e tuttavia anche sui suoi altipiani e le sue vallate giunse la luce della stella "mai vista prima". Vi arrivò come poteva arrivarvi, date le condizioni di arretratezza del paese. Attraverso l’iniziativa di modernizzazione economica, sociale e politica promossa dall’alto dal re Amanullah .
Anche qui, come nelle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale a maggioranza musulmana, si tennero insieme e si animarono l’una con l’altra la lotta contro il dominio coloniale degli inglesi sul sub-continente indiano, l’amicizia con la Russia sovietica (e "cioè" col proletariato rivoluzionario internazionale) e il tentativo di tagliare le radici della prigione in cui era tenuta la donna. "La storia della giovane contadina innamorata, che abitava in una sperduta località della regione montuosa nord-orientale del Hindu Kush, che per essersi rifiutata -in base alla nuova legge- di accettare per sposo l’uomo scelto dalla sua famiglia, venne uccisa dal proprio padre, si ripeté in molti altri villaggi afghani, e non è che uno dei numerosi esempi delle resistenze incontrate dalle riforme di Amanullah" (da J. Romein, Il secolo dell’Asia, Einaudi, Torino, 1969).
Il tentativo fu stroncato nel 1929 da una rivolta contro-rivoluzionaria di latifondisti, ricchi commercianti del bazar e mullah incoraggiata e sostenuta dalle forze armate inglesi…
Quando si dice l’amore dell’Occidente per la donna e per i popoli dell’Afghanistan!
Dovettero passare decenni perché le masse femminili afghane potessero riprendere la loro marcia in avanti. Avvenne nella seconda metà degli anni Settanta. È vero che già negli anni Sessanta, sotto la monarchia del re attualmente esule a Roma, furono compiuti timidi passi modernizzatori, soprattutto nel senso di superare le tradizionali relazioni di potere basate sui capi-tribù a vantaggio di moderni partiti politici. Essi tuttavia rimasero sulla carta oppure morirono ancor prima di essere partoriti. La monarchia subì inetta queste resistenze. Non ebbe la forza di intaccare le strutture agrarie nelle quali esse affondavano le loro radici (il 5% dei proprietari terrieri deteneva il 45% delle terre coltivabili). Negli anni Settanta, inoltre, in politica estera, cominciò a far pendere la tradizionale "equidistanza" tra i due Grandi a favore degli Stati Uniti e del suo alleato locale, il Pakistan.
Ci vollero l’estromissione della famiglia reale e l’instaurazione della repubblica per sbloccare il processo di modernizzazione chiesto dalle masse popolari e dai settori più avanzati della direzione statale e degli affari. Sotto l’impulso, anche questa volta dall’alto, della "rivoluzione" dell’aprile 1978 e "delle più importanti manifestazioni popolari a Kabul della sua storia" (Le monde diplomatique, febbraio 1980) fu avviato in Afghanistan "un ambizioso programma di riforme" al cui interno era inserito il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne: "riforma agraria [connessa all’abolizione di gran parte dei debiti gravanti sui contadini, n.], riforma della regolamentazione dell’uso delle acque, campagna di alfabetizzazione [per entrambi i sessi, n.], industrializzazione, legalizzazione dei sindacati" (Le monde diplomatique, settembre 1983). "Secondo la signora Jammita Nahid, dell’Organizzazione democratica delle donne, la più grande sfida lanciata dalla rivoluzione alle autorità tradizionali risiede nella legge sull’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne. Queste ultime conducevano in precedenza una vita molto dura. Sotto la monarchia esse non beneficiavano di alcuna protezione legale e non avevano alcuna possibilità di esercitare un’attività professionale. In molte regioni, le donne non potevano lavorare fuori casa." (ib.)
Come mai le potenze occidentali, oggi così premurose verso la donna afghana, hanno (grazie anche alle responsabilità dell’Urss tardo-stalinista) tagliato le gambe anche a questo esperimento, benché esso non fosse legato -come negli anni Venti- alla stella del comunismo rivoluzionario, ma a quella della rivoluzione democratica borghese? Come mai hanno spinto in avanti le forze sociali e politiche interne raccolte nell’Alleanza del Nord che vi si opponevano e le hanno incoraggiate a distruggere scuole, linee elettriche, cooperative agricole, ospedali con dipendenti donne?
Nel giro di qualche anno l’Afghanistan è stato ricondotto in una situazione addirittura più difficile di quella dei decenni precedenti: l’agricoltura e la pastorizia hanno subìto un crollo, la popolazione s’è trovata davanti alla difficoltà di trovare da mangiare persino a un livello di semplice sussistenza come pur riusciva a fare in passato, almeno tre milioni di persone su venti sono state costrette a rifugiarsi in campi profughi (almeno due milioni e mezzo in Pakistan e in Iran). In questa tragedia collettiva, le masse femminili hanno vissuto una tragedia aggiuntiva, per il solo fatto di essere donne, quella che i mezzi d’"informazione" hanno scoperto qualche mese fa a comando e di cui il burqa è solo un elemento...
È poi così sorprendente che la vita media per le donne sia crollata in Afghanistan a 43 anni?
Le vicende storiche dell’Afghanistan mostrano che la donna afghana ha potuto cambiare il suo destino quando ha sostenuto il tentativo del paese di sottrarsi alla morsa dell’arretratezza e del sottosviluppo. E mostrano, nello stesso tempo, che questo tentativo, a sua volta, ha trovato nella lotta per la liberazione della donna e nel coinvolgimento delle donne un fattore vitale per il proprio avanzamento. Le due cose hanno marciato insieme e non potranno che marciare insieme. Ma è proprio l’uscita dal sottosviluppo di questo paese che il capitalismo occidentale non può tollerare. Il motivo di ciò lo ha spiegato più di cent’anni fa il fondatore dell’impero coloniale britannico in India, lord Lytton: "Sono convinto -scrisse nel 1879- che la creazione di uno stato forte e indipendente nell’Afghanistan, stato che poi non saremo assolutamente in grado di controllare, sia, come l’esperienza insegna, un errore. Se, in seguito a una guerra o alla morte dell’attuale emiro… ci venisse offerta l’occasione di disintegrare e di infrangere la potenza di Kabul, spero che non ce la lasceremo sfuggire" (in K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Einaudi, Torino, 1958).
L’Afghanistan, collocato in una posizione strategica per la difesa delle postazioni coloniali inglesi in India e per l’organizzazione dell’attacco al popolo cinese, doveva essere una porta aperta per la Gran Bretagna. E poteva esserlo a misura che al suo interno non si formava un tessuto unitario, neanche sul piano borghese, che prevalesse sulla dispersione della popolazione. A un secolo di distanza non è mutato il ruolo chiave del paese, anzi esso è stato amplificato dalla scoperta nell’adiacente regione caspica della seconda riserva mondiale di idrocarburi. E non è mutata l’esigenza occidentale di tagliare la strada a uno sviluppo economico e sociale autonomo del paese, di relegarlo a un livello d’arretratezza tale da far riemergere le relazioni tribali e da favorire lo scontro fra gruppi locali, manovrati poi dalle "nostre" borse e dalle "nostre" cancellerie in funzione delle necessità dei propri luridi affari secondo l’esperimento già compiuto in Jugoslavia. La propaganda democratica occidentale cerca di attribuire la tragedia afghana agli scontri "etnici" tra le varie fazioni locali, tra i cosiddetti "signori della guerra afghani". Ma chi ha gettato i semi degli odî e chi ha arato il terreno per accoglierli e farli germogliare? I fatti dicono: i grandi signori della guerra dell’Occidente!
Controprova. I Talebani (questo settore di giovani contadini poveri della regione a cavallo tra Pakistan e Afghanistan) sono stati vezzeggiati dalle potenze occidentali fino a che sono stati utili strumenti di questa loro politica. Quando essi non hanno accettato completamente i piani della Unocal per la costruzione del gasdotto dal mar Caspio all’oceano Indiano, quando hanno cominciato a stabilire contatti con la Cina e a tentare di ri-avviare la riunificazione del paese frammentato da anni di guerre, quando hanno cominciato a bloccare la coltivazione del papavero, quando hanno iniziato a dare spazio al messaggio "antimperialista" di bin Laden e a riscontrare, proprio in virtù di questo smarcamento anti-americano, una simpatia nelle masse lavoratrici del Pakistan e dell’area circostante, allora e solo allora sono entrati nel mirino dell’imperialismo. Allora e solo allora quest’ultimo ha scoperto la condizione della donna sotto i Talebani, e per aiutarla a liberarsene ha riversato migliaia di tonnellate di bombe sui villaggi e sulle case rimaste in piedi, sull’unica diga ancora in funzione, sugli ospedali e sui depositi alimentari.
Riconoscendo un simile dato di fatto non ci accodiamo, neanche per un transitorio tratto di strada "comune", alla direzione dei Talebani. La nostra critica tuttavia non s’appunta sul quel tanto (o poco che sia) di resistenza all’imperialismo che essa ha dovuto evocare. Bensì sull’impotenza del suo programma ai fini di una conduzione coerente e vincente di tale resistenza. La direzione dei Talebani non ha messo in campo alcun piano di lotta di massa e ciò si è manifestato anche nel fatto che non ha chiamato le donne a partecipare in prima fila alla battaglia contro l’imperialismo. Questa battaglia, però, risulta essere impotente se non si avvale di questa partecipazione e, affinché essa sia davvero possibile, se non chiama in causa le strutture patriarcali che schiacciano la donna in Afghanistan e nell’area islamica. Le quali, lungi dall’essere qualcosa di indipendente dal dominio imperialista, rappresentano una delle basi su cui l’Occidente fonda e l’imposizione del suo giogo e lo schiacciamento della resistenza della popolazione lavoratrice locale.
Il ritorno del burqa in Afghanistan, infatti, non è un elemento locale, indipendente dalla cosiddetta globa-lizzazione capitalistica, dalla rapina compiuta dalle democrazie occidentali ai danni del mondo islamico (e di tutto le "periferie"). È il riflesso, sul piano dei rapporti tra i sessi, del regresso sociale richiesto in Afghanistan dall’avanzamento degli scintillanti indici di borsa di New York, Londra e Milano. "Perché l’imperialismo possa procedere in avanti, nel suo processo di rapina mondiale, perché possa riuscire a ‘governare’ in qualche modo la sua crisi, -abbiamo scritto nel numero 41 del nostro giornale- l’Afghanistan (e sempre più paesi del Terzo Mondo, a cominciare da quelli islamici) sono risospinti all’indietro, talora verso un passato pre-borghese da cui hanno fatto e fanno immensi sforzi per uscire". E quando si getta un paese secoli addietro, tornano i costumi di secoli addietro (con l’aggravante dell’assenza della componente "solidaristica" in cui erano inseriti nel passato).
L’imperialismo, quindi, non è un nemico situato solo al di fuori dei confini del paese o rappresentato, all’interno, solo dalle truppe occidentali d’occupazione e qualche traditore al loro servizio. Esso è un mostro che domina la popolazione lavoratrice dell’Afghanistan anche dall’interno, attraverso -ad esempio- le strutture sociali patriarcali di cui le potenze occidentali, negli ultimi vent’anni, hanno favorito la ricostituzione sotto i colpi della loro quarta e quinta guerra di aggressione ai popoli dell’Afghanistan (quella per interposta persona iniziata contro la "rivoluzione di aprile" nel 1978 e quella in corso). La lotta contro il dominio occidentale non può essere isolata dalla lotta contro queste strutture oppressive interne, e tra queste la segregazione delle donne. La lotta contro quest’ultima, dunque, non può essere rimandata a un secondo tempo, dopo che il paese è riuscito a scrollarsi di dosso il giogo dall’Occidente: tale giogo, infatti, non cadrà se non attraverso una lotta capace di affrontare la bestia imperialista in tutti i suoi tentacoli.
Chi, quindi, ha ricondotto nella prigione domestica le donne afghane, per quel poco che esse erano riuscite a forarla, è stato l’imperialismo in combutta con le forze più retrograde della regione. Oggi con le sue truppe va a rinsaldare questo destino, e se le libera dalle loro case è per metterle nei propri bordelli, come è successo in Kosovo e in Bosnia. O per spremerle nelle fabbriche situate nelle zone industriali per l’esportazione dei vari paesi asiatici, insieme alle centinaia di milioni di lavoratrici già sotto la sferza occidentale: e come le si tiene sotto controllo se non anche con il terrore delle armi? Le nuove basi militari stabilite dagli Stati Uniti, dall’Italia, dalla Gran Bretagna in Afghanistan e nei paesi confinanti non servono naturalmente a questo fine, hanno di mira ben altro, la liberazione della donna afghana…
Noi ci opponiamo a questa pretesa "liberazione", che è in realtà una schiavizzazione duratura. Non per conservare l’attuale situazione, ovviamente, ma per cambiarla per davvero. Da questo punto di vista, cosa si muove in Afghanistan? E cosa va fatto qui?
Il 20 novembre c’è stata nella Kabul "liberata" una manifestazione indetta dall’Unione delle donne afghane "davanti alla sede delle Nazioni Unite per rivendicare i diritti delle donne al lavoro, all’istruzione, alla partecipazione alla vita politica, transizione compresa" (dal manifesto, 21 novembre 2001). Almeno questo ritorno in piazza può essere considerato una conseguenza positiva dell’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati? Nient’affatto.
Se una prima mobilitazione delle donne a Kabul ha potuto esprimersi sin dal ritiro dei Talebani, è perché già negli anni precedenti le donne afghane avevano cominciato a sviluppare -sotto la cenere- un’embrionale resistenza all’inferno in cui erano state scaraventate. Nei campi profughi in Pakistan e in Iran o nelle case di Herat, Kabul, Mazar-i-Sharif e Kandahar, e con lo sforzo di stabilire legami di solidarietà vicendevoli, alcuni nuclei di donne si sono opposte, come hanno potuto, alla reclusione femminile imposta dall’Alleanza del Nord prima e dai Talebani poi. Oggi questa opposizione carsica viene alla luce, e viene alla luce contro i piani delle "nuove" autorità, tant’è vero che queste ultime a Kabul hanno tentato più volte di scoraggiare le manifestazioni e le rivendicazioni collettive delle donne.
Noi, comunisti internazionalisti, appoggiamo incondizionatamente queste iniziative, anche se non ci nascondiamo che -per il momento- coinvolgono una minoranza di donne, spesso appartenenti agli strati intermedi della società. E come parte di questo appoggio, non manchiamo di chiamarle a superare quello che nella loro impostazione politica è di ostacolo all’obiettivo sacrosanto che si prefiggono. Giustamente esse non si fanno illusioni sulle forze sociali e politiche legate all’Alleanza del Nord. Sanno che non potranno delegare nulla ai loro uomini, neanche ai più "istruiti e aperti", come ha dichiarato un’attivista dell’Awrc alla giornalista Marina Forti del manifesto. Giustamente hanno imparato che c’è bisogno del loro diretto protagonismo.
Ma esso non può contare sull’azione dell’Onu o della comunità internazionale o sui paesi europei, come invece sembra emergere dalle prese di posizione di alcune associazioni di donne afghane. L’Onu non ha forse dato il via libera ai bombardamenti contro l’Afghanistan che pure tali associazioni hanno condannato perché rivolti contro una popolazione già allo stremo? O ancora: cosa sta facendo l’Onu con le donne dell’Iraq? Per non parlare poi della civile Europa, che, tanto per dirne una, vorrebbe re-insediare un re che, ad essere buoni, rappresenta l’impotenza fatta persona di fronte alle forze sociali e politiche conservatrici che si sono sempre opposte al cambiamento della condizione femminile in Afghanistan.
Collegato a questo appello alla comunità internazionale, ci sembra inoltre di cogliere nella posizione di alcune associazioni come Rawa un atteggiamento che, se corrispondesse alla realtà, sarebbe esiziale per le donne dell’Afghanistan. Nel comunicato dell’11 ottobre esse si rivolgono anche al governo degli Stati Uniti e sottolineano che non hanno nulla a che fare con Al-Qaeda, che non considerano affatto questo manipolo di "arabi" come "ospiti onorati". Con quale intenzione si fa questa precisazione? Perché si ritiene che la tendenza politica di Osama bin Laden sia incapace di portare avanti per davvero la battaglia contro la dominazione imperialista che pure proclama a parole e solo all’interno della quale può trovare posto (dandole al contempo piena vitalità) la lotta per la liberazione della donna afghana? Oppure perché si nutre la micidiale illusione che con una simile presa di distanza (di fatto dal moto antimperialista in atto nel resto dell’area spesso dietro la bandiera dell’Islam radicale) ci si possa ritagliare una sorta di benevolenza da parte dei padroni della Terra?
La storia recente e passata ha mostrato a sufficienza, crediamo, che l’imperialismo non concede isole felici, neanche a chi si separa dal fronte di lotta che lo combatte. Comprendiamo quanto questo fronte di lotta, spesso oggi raccolto dietro organizzazioni islamiche che teorizzano un ruolo subordinato della donna, non riscuota le simpatie dei nuclei delle donne afghane mobilitate per la difesa dei propri diritti. Ma l’azione a cui questi ultimi sono chiamati è quella di sentirsi parte di tale fronte di lotta secondo la migliore tradizione delle Mamalai di cui è piena la storia dell’Afghanistan, di entrare in rapporto con tale fronte di lotta, di portarvi le esigenze delle donne e di far valere il fatto che non ci potrà essere una vera lotta all’imperialismo senza la partecipazione delle masse femminili e senza che essa metta all’ordine del giorno l’attacco alla loro segregazione dalla vita sociale. Al di fuori di questa battaglia complessiva, al di fuori del più generale moto degli oppressi del mondo islamico contro l’imperialismo, qualunque siano le bandiere momentanee dietro le quali esso si esprime, per la donna afghana non può esserci alcuna speranza di cambiamento.
Regresso economico e sociale, sottomissione neo-coloniale, disse-minazione di odî "etnici e religiosi" tra i gruppi della popolazione afghana (e tra questi e i popoli vicini), schiavitù della donna sono i frutti maledetti di uno stesso albero, l’albero del male dell’imperialismo. Lotta globale contro tali frutti e contro le radici di questo albero, unione al di sopra delle divisioni "tribali", "etniche", religiose e sessuali oggi tragicamente esistenti, resistenza all’occupazione militare del paese e al governo fantoccio installato a Berlino: sono i passi a cui sono chiamate le masse femminili insieme al resto degli oppressi del paese per opporsi al destino infernale che è già riservato loro e che vieppiù lo sarà. Questa lotta avrà inoltre bisogno, come insegna l’esperienza passata, di spezzare l’isolamento internazionale, di intrecciarsi e di fondersi con quella degli oppressi e degli sfruttati del restante mondo islamico e asiatico, a partire dai paesi dell’area circostante.
Non nascondiamo la presenza di molteplici difficoltà alla costituzione di questo fronte di lotta nei due momenti in cui oggi si articola la mobilitazione antimperialista nel paese e nell’area (da un lato le iniziative di alcuni nuclei femminili, dall’altro le mobilitazioni e l’ostilità anti-occidentali). Tali difficoltà però non si originano da fattori locali o da una fantomatica "arretratezza culturale" del mondo islamico. C’è invece da restare ammirati davanti alla capacità della masse lavoratrici dell’Afghanistan e dell’area di non chinare la testa di fronte al terrorismo occidentale. E davanti a quella delle donne non solo di fare altrettanto ma, in una situazione in cui manca il pane, di non rinunciare, giustamente, alle proprie rivendicazioni di genere ("pane e rose" si tengono insieme, o non si conquisterà né l’uno né le altre).
Se "là" è così difficile lo sviluppo di un movimento antimperialista che veda protagonisti tutti i settori oppressi dei popoli islamici e in grado di aggredire il dominio occidentale in tutti i suoi inestricabili piani, è perché "qui" in Occidente stenta a svilupparsi una solidarietà militante e incondizionata con questa resistenza, sia nel campo delle donne che in quello più generale degli sfruttati. Ben diverse sarebbero le cose se fosse in campo un movimento di donne (e di sfruttati tutti) contro la guerra d’aggressione imperialista all’Islam, se esso appoggiasse incondizionatamente la resistenza delle sorelle e dei fratelli islamici, se facesse vedere che "qui" si lotta per davvero contro l’intera catena imperialista che opprime "là" e "qua" (su tutti i piani, anche quello della donna).
Allo sviluppo di una simile mobilitazione è impegnato il nostro lavoro e ad esso chiamiamo le donne, le lavoratrici, le compagne che stanno partecipando alla ripresa delle iniziative contro l’oppressione femminile in atto da qualche anno in tutto l’Occidente e soprattutto nell’America del nord.
In varie occasioni abbiamo constatato che esse non hanno abboccato all’affermazione ufficiale secondo cui i bombardamenti sull’Afghanistan (e quelli che si preparano nei paesi dell’area) hanno tra le loro finalità quella di liberare le donne afghane. Di questo siamo ben contenti, e lo consideriamo un punto di partenza vitale, in avanti rispetto a quanto accadde, purtroppo, durante i bombardamenti contro la Jugoslavia. Ma solo un punto di partenza. Che è chiamato, se non vuol negare se stesso, a reagire alla tesi di fondo che anima la propaganda imperialista e che agisce come un laccio non solo contro le donne del mondo islamico ma anche contro le stesse donne occidentali. Di quale tesi parliamo? L’ha bene espressa Sofri: voi donne occidentali potete disporre liberamente del vostro corpo, scegliere per la vostra vita, loro non hanno questa possibilità di scelta, se derogano dall’uniforme prescritta, rischiano la vita. Quindi… tenetevi ben stretta la vostra vita occidentale e non pensiate di solidarizzare con le donne e gli oppressi del mondo islamico, se non quando invocano la nostra laica "liberazione" democratica.
Che in Occidente la donna si trovi in una situazione migliore, di maggiore libertà rispetto ai vari paesi islamici sembra un’ovvietà, confermata da un’infinità di dati empirici. Le cose stanno davvero così? Non parliamo naturalmente delle immigrate, a cui la nostra civiltà regala il destino delle schiave domestiche o delle prostitute, e per le quali la parola libertà ha il sapore di una bestemmia. Parliamo delle donne "comuni", giovani, meno giovani, proletarie, impiegate, studentesse, con figli o senza…
Sappiamo bene che tra mangiare e mangiare a stento (o morire di fame) c’è una bella differenza, così come c’è una bella differenza tra il poter lavorare (oltre che in casa) anche in un ufficio o in una fabbrica e il dover svolgere solo faccende domestiche, tra il poter votare e partecipare alla vita sindacale e l’aver preclusi entrambi i diritti, tra il poter andare a scuola e l’esserne private. La vita di una donna a Roma è certamente molto diversa da quella di una donna di Kabul. Ma è forse più umana, meno oppressiva? Chi ci legge, sicuramente, non ha dubbi sul fatto che anche in Occidente la liberazione della donna è ben lungi dall’essere realizzata: tuttavia, è probabilmente convinta che, "qui da noi", la condizione femminile è migliore...
"Non ne sono convinta", ha affermato qualche settimana fa l’ex-modella cinquantottenne Benedetta Barzini. E noi dell’Oci la vediamo in maniera analoga.
"Qui" in Occidente e "là" nel mondo islamico, ha dichiarato la Barzini, burqa o minigonna, velo o tanga, la donna è schiava dell’immagine che il maschio ha di noi. Il che non è un aspetto secondario, relativo al costume. Anche le tecniche del vestiario, infatti, rivelano la sostanza dei rapporti sociali esistenti, in questo caso della condizione della donna. La quale in Occidente può sì scegliere come abbigliarsi e disporre del suo corpo (e utilizzare all’uopo anche un reddito che sarebbe considerato da principessa dalla gran parte delle donne dell’Afghanistan), ma la scelta è ristretta -se ci si riflette bene- al come diventare merce essa stessa, al come entrare nella socializzazione subordinata e inumana che le offre la società capitalistica avanzata, al come offrirsi per i servizi di serva domestica e di trastullo sessuale della "comunità maschile". Se "là" in Afghanistan il corpo è proprietà del singolo maschio, "qui" è diventato una proprietà collettiva, è la "comunità maschile" nella sua interezza che ne fruisce nei suoi molteplici bisogni, tutti mercificati e funzionali al mantenimento dello sfruttamento capitalistico.
Richiesto in misura massiccia anche nel lavoro extra-domestico? Certamente, ma in veste subordinata e a condizione che non alzi la testa. E a tal fine quanto è efficace mantenere la donna nel suo ruolo di gingillo di piacere! Quanto è utile rinsaldarla in questo ruolo, e ricordarle che -dagli e dagli- comunque il suo posto è sempre quello di una volta! E che quindi è inutile che si metta tanti grilli per la testa alla ricerca di una dignità umana… "Tu resti un oggetto, puoi valere qualcosa solo in quanto accetti di esserlo…", le dice la pubblicità, il capo, il direttore d’impresa. A disposizione della stessa componente maschile della classe lavoratrice, incoraggiata a rifarsi sulla donna, sulla compagna di lavoro delle frustrazioni (anche sessuali) che riserva il lavoro e la vita sotto la dittatura del capitale.
Che libertà! Il capitalismo occidentale ha "liberato" la donna da una serie di ceppi, di tradizioni, ma solo per immetterla in una socializzazione che continua a schiavizzarla, anche se in forma più raffinata e con l’apparenza della libera decisione di sé.
Se questa situazione, finora, non ha suscitato una battaglia campale delle masse femminili è perché il capitalismo è riuscito a smussare e ad "addomesticare" le lotte e le rivendicazioni messe in campo dalle donne dall’Ottocento ai decenni scorsi. Vi è riuscito grazie alle risorse economiche saccheggiate sulla pelle dei popoli e delle masse femminili di colore. Una rapina resa possibile anche grazie alla distruzione occidentale dei tentativi compiuti da questi ultimi di uscire dall’arretratezza e dalle strutture sessiste collegate ad essa.
Una misera parte di un simile bottino di guerra è stata (malvolentieri) ceduta dalle borghesie occidentali alle "loro" donne comuni, con l’effetto di sedimentare in loro l’illusione di poter gradualmente migliorare la propria condizione entro il quadro del capitalismo internazionale, con l’effetto di mettere un freno alla loro possibilità di scoprire (nella lotta e nell’organizzazione) che si è ancora schiave, e che la propria schiavitù raffinata, democratica, moderna è l’altra faccia della medaglia che schiaccia in modo brutale e violento le donne dell’Afghanistan (e del Sud del Mondo).
Arriviamo così al punto che ci sta a cuore sottolineare. Non si tratta di fare una graduatoria di quale sia il modello femminile meno oppressivo, quello dominante in Occidente per le donne bianche o quello imperante in Afghanistan (o nel resto del mondo islamico, pur con le differenze che esistono da paese a paese). Non si può fare una simile graduatoria perché in entrambi i casi la donna è un essere oppresso e umiliato, la cui servitù deturpa e opprime anche la vita e la lotta dei corrispondenti sfruttati di sesso maschile (che pure partecipano al godimento -da schiavi- dei privilegi connessi al dominio sul sesso femminile). E non si può fare una simile graduatoria perché l’uno e l’altro modello sono gli effetti diseguali e combinati di uno stesso sistema di dominazione internazionale di classe, di razza e di sesso: perché l’uno sostiene l’altro, e l’uno e l’altro possono cadere solo se vengono combattuti insieme con un fronte internazionale di lotta contro l’imperialismo e il capitalismo che stringa in unità le donne occidentali con quelle di colore, e le une e le altre con i rispettivi sfruttati maschi.
Già una volta nella storia le donne e i proletari dell’Occidente insieme ai popoli delle "periferie" del mondo riuscirono a costruire questo fronte di lotta. Accadde nel fuoco dello scontro rivoluzionario del primo dopo-guerra. Allora il capitale imperialista riuscì a sconfiggerlo, soprattutto perché riuscì a spezzare la nascente unità tra le masse lavoratrici, femminili e maschili, dell’Occidente con quelle dell’Oriente.
Da qualche anno, però, il muro di separazione eretto da allora ha cominciato oggettivamente a sgretolarsi. La crisi sistemica che va disgregando il capitalismo internazionale sta, infatti, costringendo i governi e i padroni occidentali a rimettere in discussione le posizioni acquisite dalle donne delle metropoli, dal (triste) diritto a non morire d’aborto ai servizi pubblici che le avevano sgravate da una parte del lavoro domestico. Quest’attacco ha sospinto la parte più avanzata delle masse femminili occidentali a rimettersi in moto, soprattutto laddove, in America del Nord, l’affondo del capitale è stato più pesante.
La Marcia Mondiale contro la povertà e la violenza delle donne ha rappresentato un primo momento di coagulo di questa ripresa di mobilitazione. L’iniziativa ha visto la partecipazione nell’ottobre del 2000 di decine di migliaia di donne a Washington, a New York e a Bruxelles. E soprattutto le ha viste scendere in campo insieme a nuclei di donne dei paesi del Sud del Mondo, le ha viste denunciare anche l’attacco riservato a queste ultime dagli stessi poteri forti contro cui è rivolta la propria mobilitazione: il Fmi, la Bm, le borse e i governi dei paesi occidentali.
L’ipocrita coro borghese sul burqa serve a mettere il bastone tra le ruote a questo percorso di unificazione di lotta a scala mondiale appena avviato. La propaganda ufficiale mette in risalto la differenza negli abbigliamenti, tra il burqa e la minigonna, per celare la comunanza di interessi di fondo tra le donne occidentali e quelle afghane (e del mondo islamico tutto), per ostacolare la fraternizzazione di lotta di cui cominciano a ricrearsi le condizioni. Col pretesto del burqa si mira a far dimenticare alle donne occidentali la propria oppressione, a coinvolgerle in un protagonismo falso e deviato, al servizio dell’opera terroristica dell’imperialismo ai danni delle proprie sorelle afghane.
Le donne occidentali hanno, dunque, interesse ad opporsi all’operazione "libertà duratura" non solo perché essa va ad imporre una duratura schiavitù alle donne e ai popoli islamici, ma anche perché essa è rivolta contro se stesse. Ed è per questo stesso motivo che hanno interesse a sostenere incondizionatamente la resistenza delle masse lavoratrici e femminili dell’Afghanistan. La lotta di queste ultime è un "anello" della lotta delle donne occidentali contro il comune nemico, il quale in tanto può continuare a far impantanare e deviare la ripresa di lotta delle donne in Occidente, in quanto può aver mano libera nella riserva di caccia afghana e asiatica.
Non si dica che questa solidarietà incondizionata non può essere lanciata perché la resistenza delle donne e degli oppressi dell’Afghanistan è oggi diretta da programmi e da metodi inconcludenti. Non ci si copra con un simile alibi, perché siamo noi, noi donne e proletari occidentali, a tenerli in piedi, quei programmi e quei metodi, con la nostra arretratezza politica, con la nostra insufficiente separazione e contrapposizione ai nostri sfruttatori, ai nostri governanti, che poi sono i veri terroristi che insanguinano la Terra. Appoggio incondizionato, dunque. Che non dovrà venire meno neanche se la lotta delle donne afghane dovesse cominciare ad esprimersi nel rifiuto di essere svestite del burqa dalla mano dell’imperialismo.
Già oggi masse sterminate di donne e di uomini del mondo islamico percepiscono la sostanza anti-sociale dei "nostri" modelli femminili e la funzione di chiavistello svolta da essi nelle mani dei signori della guerra occidentali per la sottomissione delle periferie del mondo. Il rigetto dell’una e dell’altra finalità si esprime spesso nella rivendicazione del velo. La cosa potrebbe ripetersi anche in Afghanistan, dove le potenze imperialiste presentano la loro occupazione del paese all’insegna dell’eliminazione del burqa, essi che ne sono i primi responsabili.
Tale reazione sarebbe comunque un modo per continuare la lotta di resistenza e non è detto che ciò voglia dire abbandonare la battaglia per le esigenze delle donne (lo insegna l’esperienza della rivoluzione anti-coloniale in Algeria negli anni Cinquanta e Sessanta). Al contrario, la loro "uscita" dalla prigione domestica per partecipare alla battaglia antimperialista e per cercare in essa di far valere il proprio diritto ad andare a scuola, a lavorare in uffici, campi e fabbriche, e a una vera dignità umana, anche se all’inizio velata, metterebbe in crisi uno dei pilastri della loro sottomissione, e cioè la loro esclusione dalla vita politica, il loro isolamento sociale.
Sarebbe ancora una volta una lotta diretta da un programma incapace di guidare in modo coerente la battaglia contro l’operazione di schiavizzazione occidentale? È vero, ma se la loro resistenza verrà ad esprimersi in un simile modo è solo perché, lo ripetiamo, "qui" si stenta a riconoscere questa resistenza come un anello della nostra lotta, si fa fatica a denunciare la sostanza che si cela dietro la cosiddetta libertà della donna in Occidente, si è titubanti nel dire che essa è una barbarie non meno soffocante di quella vigente in Afghanistan, che l’una e l’altra sono pilastri della dominazione imperialistica a scala mondiale. Che possono essere affossati se vengono combattuti insieme, se anche "qui" si ricostituisce un movimento di lotta di massa contro l’imperialismo, contro quello che il terrorismo occidentale riserva nel mondo islamico e contro quello che riserva nelle metropoli (due politiche diseguali, è vero, ma combinate in una inscindibile unità). Se da "qui", in poche parole, tornerà a brillare la stella che fece la sua apparizione a Baku.
Mentre i Sofri e gli interessi capitalistici di cui si fanno alfieri cercano di seminare un sentimento di distacco verso le donne e i popoli dell’Afghanistan e del mondo islamico, gli interessi della liberazione delle donne di tutto il mondo esigono che "qui" si faccia strada un’altra consapevolezza:
"Ci riconosciamo come oppresse dalla stessa mano, anche se in forme diverse, anche se con storie diverse, e riconosciamo che queste storie sono un’unica storia, che può cambiare solo se ci uniamo. E se ci uniamo e costruiamo insieme un movimento di sfruttati nel quale far ritornare l’ideale rivoluzionario comunista, con la consapevolezza che l’oppressione (brutale e raffinata allo stesso tempo) della donna è lo strumento più robusto della struttura oppressiva di classe, serve anche per tenere gli sfruttati maschi lontani dal prendere coscienza dei propri interessi di classe."
La costruzione di questo movimento passa per la lotta contro l’operazione "libertà duratura" e per il ritiro delle truppe d’occupazione italiane e occidentali, per la solidarietà militante con le immigrate e gli immigrati, per il rigetto delle nuove catene imposte nel nome della recessione e del terrorismo anche qui in Occidente e anche contro la donna.
Se sapremo fare la nostra parte, le donne dell’Afghanistan sapranno portare avanti la loro battaglia, e quando si toglieranno di nuovo il velo, non sarà certo per concedersi da vinte ai padroni occidentali (come i "liberatori" agognano inutilmente da sempre) ma per saldare il conto colla dominazione imperialista e coll’oppressione patriarcale, e le loro odiose derivazioni. Per costruire insieme, donne bianche occidentali e donne di colore unite tra loro e con i fratelli di classe maschi, una nuova società, liberata da ogni sfruttamento di classe, di razza e di sesso: la società comunista.