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Io marine killer di civili, da il manifesto del 3 marzo 2005
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«Anch'io
ho ucciso civili innocenti, anch'io sono diventato un killer». Parla Jimmy
Massey, rientrato negli Usa dal «fronte» iracheno dopo che i primi quattro mesi
di guerra lo avevano reso inabile e portato alle soglie della follia. Ora
racconta (in un diario che uscirà quest'estate) gli orrori di cui è stato
testimone e protagonista in prima persona. «La nostra missione in Iraq non era
di uccidere dei terroristi, ma di massacrare civili innocenti».
PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK
«Ho visto l'orrore di quanto stiamo facendo ogni giorno in Iraq, vi ho preso
parte. Siamo solo killer. Uccidiamo, continuamente, innocenti civili iracheni:
niente di più. Penso che tutti i contingenti militari stranieri in Iraq debbano
essere immediatamente ritirati. E lo dico agli altri soldati, che per evitare
punizioni e rappresaglie dell'esercito non vogliono parlare e ammettere che la
nostra missione non è di uccidere terroristi ma civili innocenti». E' così,
nell'intervista a il manifesto, che Jimmy Massey di Waynesville, piccola
comunità del North Carolina, ha deciso di strappare il velo di silenzio che
avvolge
la «nobile missione» in Iraq. Dimesso dal corpo dei marines per ragioni mediche,
ha scritto un diario, «Cowboys from Hell», che verrà pubblicato a fine estate.
Qual era la sua posizione in Iraq?
Ero sergente nel 3° battaglione dei marines durante l'invasione, nella primavera
2003.
Quanto tempo ci è rimasto?
Dal 22 marzo al 15 maggio. Quattro mesi d'inferno. Mi hanno dovuto rispedire
negli Usa per stressed disorder. E' il termine usato nel gergo militare per dire
che a causa dell'orrore vissuto in guerra sono uscito di senno.
E' stato nei marines per molti anni?
Per dodici anni.
Era mai stato in guerra, prima?
Mai.
Lei ora è membro del gruppo «Veterani dell'Iraq contro la guerra».
Sì. Mi sono recato in Iraq, inizialmente, con la convinzione di dover eliminare
le armi di sterminio di massa. Presto però la mia esperienza di marine mi ha
fatto capire che la realtà era tutt'altra. Eravamo dei «killer cowboy».
Uccidevamo civili innocenti.
Lei ammette di aver ucciso civili innocenti?
Sì. E parecchi.
Come è avvenuto?
Vicino alla nostra base a sud di Baghdad abbiamo dato l'assalto, con tutto il
mio plotone, a un gruppo di civili che stava svolgendo una manifestazione
pacifica. Perché? Perché avevamo udito dei colpi d'arma da fuoco. E' stato un
bagno di sangue. Non c'era neppure l'alibi che quei civili potessero essere
ingaggiati in «attività terroristiche», come la nostra intelligence voleva farci
credere. Abbiamo ucciso più di trenta persone. Quella è stata la prima volta che
ho dovuto affrontare l'orrore di avere le mani sporche del sangue di civili.
Bombardata anche con cluster bombs, la gente fuggiva e quando arrivava ai posti
di blocco dove stavamo con i convogli armati, le indicazioni che ci dava
l'intelligence era di colpire quelli che potevano presumibilmente appartenere a
«gruppi terroristici».
E voi cosa facevate?
Finivamo per massacrare civili innocenti - uomini, donne e bambini. Quando col
nostro plotone abbiamo preso il controllo di una stazione radio non facevamo che
inviare messaggi propagandistici diretti alla popolazione, invitandola a
continuare la sua routine quotidiana, a tenere aperte le scuole. Noi sapevamo
invece che gli ordini da eseguire erano di search and destroy, irruzioni armate
nelle scuole, negli ospedali, dove potevano nascondersi i «terroristi».
Erano in realtà trappole tese dalla nostra intelligence, ma noi non dovevamo
tener conto delle vite dei civili che avremmo ucciso durante queste missioni.
Lei ammette che durante la sua missione ha compiuto esecuzioni di civili
innocenti?
Sì. Anche il mio plotone ha aperto il fuoco contro civili, anch'io ho ucciso
innocenti. Sono anch'io un killer.
Come ha reagito, dopo queste operazioni, pensando agli innocenti che aveva
ucciso?
Per un po' sono andato avanti negando a me stesso la realtà - cioè che ero un
killer e non un soldato che sa distinguere il giusto dallo sbagliato - poi un
giorno, svegliandomi al mattino mi è venuto in mente un giovane, miracolosamente
scampato al massacro dei passeggeri della sua auto, che urlando mi chiedeva: «Ma
perché hai ucciso mio fratello?». Divenne un'ossessione. Persi il controllo del
mio equilibrio psichico. Ero incapace di muovermi e parlare, restavo con lo
sguardo atterrito, fisso al muro.
Che provvedimenti hanno preso i suoi superiori?
Per tre settimane, in Iraq, sono stato imbottito di antidepressivi, farmaci
psicotropi. E' il loro pronto intervento per questi casi di «stress traumatico»,
quando i soldati cadono in preda a questo rifiuto di uccidere.
Il vostro addestramento, negli Usa, non vi rende l'unità più violenta ed
aggressiva utilizzata dal Pentagono?
Sì. Nel programma denominato boot camp ognuno di noi viene sottoposto a tecniche
di «disumanizzazione» e di «desensibilizzazione alla violenza». Ma a me non
hanno mai detto che questo voleva dire uccidere civili innocenti.
Tre settimane immobilizzato da antidepressivi in Iraq. E poi?
Non sapendo più cosa fare mi hanno fatto rientrare. Ora sono disabile, dimesso
dall'esercito con honorable discharge.
Altri sono nelle sue condizioni?
Molti. E sono ancora al fronte. Li imbottiscono di antidepressivi e poi li
rispediscono a combattere. E' un problema che ha assunto dimensioni
preoccupanti, ma non se ne deve parlare negli ambienti militari. Nel 2004, 31
marines si sono tolti la vita, 85 hanno tentato il suicidio. La maggioranza di
coloro che hanno preferito togliersi la vita piuttosto che continuare ad
uccidere è sotto i 25 anni, il 16 per cento non ha più di 20 anni.