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Ricostruzione dell’Iraq o...

ricostruzione del colonialismo?

 

Ricostruzione e benessere (invece che devastazioni e miseria), libertà e democrazia (invece che dittatura): queste le solenni promesse che la “coalizione dei volonterosi” fece al popolo iracheno.

“Siamo lì al lavoro per questo”, non si stancano di ripetere i Berlusconi, i Ciampi, i Fini, sulla scia dei Bush-Rumsfeld.

Bene: ad un anno dall’inizio di questo “splendido lavoro”, cosa ne è dell’Iraq? e quale futuro si prospetta per il popolo iracheno?

 

Tanto per cominciare, almeno il 50% degli iracheni ha perso il lavoro. Chi ha avuto la fortuna di conservarlo, ha perso però i sussidi per la sanità, per la casa e per i pasti riconosciuti in precedenza, e si ritrova in mano salari fermi al palo, mentre i prezzi si sono impennati, con aumenti settimanali. Alla fine dello scorso anno, un pollo costava 2 dollari, un filone di pane 0,16 dollari, un paio di scarpe 12 dollari... e i salari medi non arrivavano ai 50 dollari.

E le famiglie di coloro che sono diventati disoccupati? Come fanno a sopravvivere in questa situazione? Per loro sono diventate incerte persino le razioni (da fame e povere di principi nutritivi) distribuite nell’ambito del programma onuista “oil-for-food”, chiuso a novembre 2003, dopo che aveva svolto a dovere il suo ruolo di logoramento delle condizioni di esistenza del popolo iracheno. Al suo posto sta per entrare in funzione un sistema più adeguato alla nuova condizione coloniale del paese: la distribuzione di un assegno monetario da usare in un mercato a prezzi liberalizzati...

Il 50% della popolazione, soprattutto nelle città, non dispone di acqua potabile, con conseguenti malattie e morti soprattutto tra i bambini. La corrente elettrica, e tutto quello che vi è collegato nella vita domestica e industriale di un paese moderno qual era l’Iraq, funziona a singhiozzi...

 

Monocultura del petrolio

 

Eppure nelle casse del governo provvisorio nominato dal viceré Bremer non è che manchino i soldi. Tutt’altro. Costui ha incamerato i 4,5 miliardi rimasti sul conto “oil-for-food”, ha incassato e incassa i proventi legati all’esportazione di almeno un milione e mezzo di barili di petrolio al giorno. Ma con questi soldi c’è ben altro da fare che far fronte alle esigenze di sopravvivenza della popolazione (1); che ricostruire le centrali idro-elettriche, gli impianti di potabilizzazione dell’acqua, le strutture sanitarie e l’industria farmaceutica del paese; che rifornire il settore agricolo delle sementi e delle attrezzature (distrutte) di cui ha bisogno per produrre (come è nelle sue potenzialità) gli alimenti per il paese; che riavvare i lavori di irrigazione; che bonificare l’ambiente dall’uranio e dalle cluster bomb con cui lo hanno fertilizzato le armate occidentali... C’è ben altro da fare!

L’unico settore da rimettere in piedi, e alla svelta, è quello petrolifero e con esso le infrastrutture richieste per l’esportazione dell’oro nero, trasporti e telecomunicazioni in primo luogo. I lavori sono già stati appaltati alle grandi multinazionali statunitensi, con la Halliburton e la Bechtel a far la parte del leone nella prima tranche di 18 miliardi di dollari assegnata nei mesi scorsi. È qui che vanno spesi i soldi. E nelle attività di supporto richieste. Come quelle di vigilanza svolte dallo stuolo di mercenari (almeno 20mila) alle dipendenze del viceré Bremer al modico compenso di 1000 dollari al giorno. O come quelle necessarie per ungere tutto l’apparato e corrompere gli “sciacalli delle nozze” iracheni disposti a partecipare al banchetto (da parenti poveri) sulla pelle dei loro compatrioti.

I soldi al momento disponibili non sono sufficienti a pagare le merci e gli appalti connessi a questa “ricostruzione selettiva”? Fa niente. Istituzioni finanziarie come la Sace italiana o la statunitense JP Morgan Chase hanno già provveduto a trovare la soluzione, offrendo generosamente la propria garanzia per conto del governo iracheno. E il pegno? Oh, una banale ipoteca sulle vendite future del petrolio...

Si torna, quindi, alla monocoltura del petrolio dei “bei tempi” del vecchio colonialismo. Tutto il resto va importato in Iraq, e per comprarlo gli iracheni dovranno vendersi come schiavi ai loro “liberatori” oppure emigrare in Occidente, come hanno fatto gli sfruttati di altre parti del mondo arabo, ben inclusi i curdi del Kurdistan iracheno nelle mani delle bande di Barzani e Talebani. Oppure potranno essere anche munificati, se accetteranno in silenzio il loro destino, dell’arrivo di qualche multinazionale del settore tessile o dell’elettronica visto che, come ha riconosciuto il ministro del commercio Usa in una riunione su “come fare affari in Iraq”, le imprese troveranno in Iraq, oltre a condizioni di favore nella riesportazione dei profitti, anche una manodopera altamente qualificata (Dow Jones Newswire, 9 febbraio).

 

A chi il potere reale?

A noi!

 

Questo quanto al benessere e alla ricostruzione osannati da Berlusconi. Per quel che riguarda la democrazia, basta qualche episodio per vedere di che si tratta in concreto.

Il 6 dicembre 2003 le forze d’occupazione statunitensi, usando dieci veicoli armati e decine di soldati, hanno attaccato la sede temporanea dei sindacati a Baghdad, arrestato e portato via per destinazione sconosciuta (Abu Ghreib?) otto membri del sindacato, distrutto gli arredi, imbrattato la bandiera sindacale, rotto i vetri. Due delegazioni sindacali occidentali, quella ufficiale dell’Icftu e quella della coalizione statunitense Us labor against the war, avevano registrato, nelle loro visite in Iraq nei mesi precedenti, un vivace fermento sindacale, tanto tra i disoccupati quanto tra i lavoratori del settore nevralgico del petrolio, protagonisti nei mesi scorsi, specie nel Sud dell’Iraq, di intense lotte per strappare aumenti salariali...

Evidentemente, una “vivace vita sindacale” non fa rima con democrazia. Come non fa rima con democrazia un giornale che denuncia i misfatti dell’occupazione e chiama la gente alla mobilitazione. È questa la colpa di cui si è macchiato il giornale al-Hawza del raggruppamento di Moqtada al-Sadr, diffuso in qualche migliaio di copie a Baghdad e altri centri: il 28 aprile il democratico Bremer lo ha chiuso per “istigazione alla violenza”. La “libertà di parola” degli alleati non comprende la libertà di critica...

Per non parlare poi dei bombardamenti, dei rastrellamenti, dei campi di concentramento “donati” ai gruppi resistenti che vogliono impedire la ricolonizzazione del paese e alla popolazione che simpatizza in massa per loro.

Ecco la democrazia per cui hanno sparato i “nostri” militari a Nassiriya. Quella mattina sui ponti di Nassiriya c’è stata una gigantesca Genova-2001, con almeno quindici Carlo Giuliani rimasti a terra (ma che diciamo: quindici? l’Unità del 21 aprile, senza che nessuno se ne sia scandalizzato, ha avanzato il dubbio che i morti siano stati duecento, per la gran parte non guerriglieri, e più volte si è letto di 30.000 proiettili sparati dai militari italiani) e uso, da parte dei militari italiani, di ben altre armi che lacrimogeni e qualche pallottola vagante! Eppure non ci sembra che la strage di Nassiriya (ma che diciamo: le stragi di Nassiriya, poiché mentre chiudiamo il giornale si apprende che, solo per “difendersi”, i soldati italiani avrebbero fatto a metà maggio altre dozzine di morti...) abbiano suscitato tra i lavoratori e i giovani del movimento “no-global” l’indignazione e la risposta di piazza che si ebbe dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Perché? Quegli iracheni non stavano forse lottando contro la versione locale della “globalizzazione capitalistica” che impone loro costi umani ben più terribili che a noi? Forse che non sono esseri umani come noi? Forse che non è “lecito” per loro battersi per i propri bisogni e le proprie aspettative?

È vero, sotto la pressione delle manifestazioni di piazza di febbraio, Bremer ha accettato di tenere elezioni dirette in Iraq (e non indirette, come all’inizio era previsto) entro il 2005. Ma l’amministrazione coloniale sta preparando il terreno affinché esse eleggano un governo addomesticato. Prima di tutto sta cercando di impedire che durante la cosiddetta “transizione” ci sia un protagonismo diretto e organizzato degli sfruttati, soprattutto se in armi, e che essi mettano il naso nelle spese del “loro” governo, negli accordi economici e militari che in gran segreto ad esso gli alleati stanno imponendo ... preventivamente.

I fogli di Wall Street lo hanno detto senza peli sulla lingua. Il futuro governo dovrà ratificare la serie di provvedimenti economici che ha varato e sta varando l’amministrazione Bremer: la terapia-shock di privatizzazione a prezzi stracciati delle 125 compagnie statali denunciata da Stiglitz (ex-dirigente del Fmi), la liberalizzazione degli investimenti esteri e delle operazioni bancarie, il piano per la ripresa del pagamento del debito estero interrotto alla fine degli anni ottanta (v. riquadro), il permesso per le quattro basi militari stabilite dagli Usa sul territorio iracheno per dominare tutta la regione, anche in vista dei “disordini” che si annunciano in Siria, in Arabia Saudita e in Iran.

Se, malgrado tutte le precauzioni, le urne dovessero eleggere un governo non totalmente allineato alle centrali capitalistiche dell’Occidente, queste hanno pronta la via d’uscita, già sperimentata nel 1992 in Algeria o, meglio ancora, la sua combinazione con quella applicata nella “ex”-Jugoslavia. Una via d’uscita che i neo-cons della Casa Bianca hanno imparato dai “pacifisti” europei Prodi e D’Alema...

Davanti a questa realtà, alcuni membri del governo di Bremer si sono dimessi, denunciando il tradimento delle promesse. Se davvero sono rimasti sorpresi, sono di un’ingenuità incredibile. I “volonterosi” occupanti sono lì solo ed esclusivamente per depredare l’Iraq e la regione, e per schiacciare quel popolo fierissimo. Ne prenda atto quella parte della popolazione irachena che, stanca dell’oppressione del regime di Saddam e stretta nell’isolamento in cui l’aveva lasciata il proletariato occidentale, ha creduto che i marines e i bersaglieri potessero davvero venire, liberarli e andarsene. Non dimentichi questa esperienza. Perché dietro le quinte è pronta ad entrare in scena, accanto alla gang di Bush, una compagnia di attori che si accinge a recitare un copione analogo: quella diretta da Chirac, Schroeder, Zapatero e l’Europa di Prodi.

 

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