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Melfi, ventuno giorni di sciopero...

 

La lotta (vera!) paga.

 

 

“Lotteremo fino a quando sarà necessario.”

Questa, in estrema sintesi, la “filosofia” che ha animato tutto il corso della mobilitazione e che ne ha costituito uno degli elementi di forza. La prima lezione che bisogna trarre da quanto accaduto a Melfi è che ci si può difendere realmente solo scendendo in campo in modo deciso e determinato, e senza perdersi dietro fumosi equilibrismi e tatticismi politico-sindacali. Per farsi valere bisogna procurare un danno al padrone. Va bloccata la produzione, ma va  bloccata per davvero e per tutto il tempo necessario. Al centro della lotta vanno messe le proprie esigenze senza auto-limitarsi per paura di recare danno all’azienda e di colpirne la competitività.

Per fare tutto ciò è indispensabile un coinvolgimento diretto ed un autentico protagonismo della massa dei lavoratori. Alla Sata questo è successo. I presìdi, i picchetti, i blocchi e le assemblee sono stati i mezzi attraverso i quali gli operai  hanno potuto e saputo prendere interamente nelle loro mani la battaglia. Di fronte ai cancelli ci si è iniziati a “conoscere” e si è cominciato a discutere dandosi, nel corso stesso dello scontro, i necessari livelli organizzativi per reggere e rafforzare la mobilitazione. Questo, inoltre, ha permesso di rivolgersi per davvero ai lavoratori delle piccole e medie imprese terziarizzate e dell’indotto, cioè a quei lavoratori che più di tutti subiscono condizioni di precarietà e ricattabilità e che spesso vengono utilizzati come involontaria arma di ricatto contro i dipendenti delle grandi aziende. Per questa via si è tolta un’arma di pressione al padrone e si è rafforzato il proprio fronte.

 

Decide la lotta,

decide chi lotta. 

“La trattativa deve svolgersi qui a Melfi, i nostri delegati di fabbrica devono parteciparvi ed ogni risultato, per essere valido, deve essere discusso ed approvato da tutti noi”. Dietro simili richieste dei lavoratori di Melfi c’è la giusta e concretissima rivendicazione di voler controllare direttamente e costantemente l’andamento delle trattative al fine di poterle meglio condizionare.

Anche la Fiom-Cgil è stata più volte costretta a “correggere la direzione di marcia”.  Se la fine dei “blocchi” non è coincisa con il ritorno al lavoro, ma si è stabilito di proseguire lo sciopero non solo fino all’apertura della trattativa, ma fino al raggiungimento di un accordo soddisfacente, ciò lo si è ottenuto forzando la mano alla stessa Fiom che, in prima battuta, avrebbe optato per una “sospensione” delle aperte ostilità dinanzi all’avvio di un reale negoziato. 

Il “qui decidiamo noi” (che già era risuonato nei mesi scorsi nella vicina Scanzano Ionico durante la mobilitazione contro le scorie radioattive) è stato un fattore determinante anche per acquisire fiducia nelle proprie forze e per iniziare a fare piazza pulita di quella falsa idea secondo cui gli operai non potrebbero e non saprebbero occuparsi di politica visto che il loro compito è solo quello di “avvitare bulloni”. Così come, in uguale modo, questo fattore è stato fondamentale nel determinare il fallimento del tentativo della Fiat di spezzare il fronte di lotta attraverso un accordo separato con Fim, Uilm e Fismic.

 

Il metodo è sostanza. 

A giochi “conclusi” anche i vertici di Cisl e Uil, dopo aver fatto di tutto per boicottare la mobilitazione, si sono espressi favorevolmente sull’esito della trattativa tentando anche di assumersene parte del merito. I vari Pezzotta ed Angeletti, con la faccia di bronzo che li contraddistingue, hanno “spiegato” che la loro contrarietà si riferiva ai metodi di lotta e non certo alla sostanza delle rivendicazioni. A tal proposito Regazzi (segretario nazionale della Uilm, cioè di quella organizzazione che sin da subito aveva definito la mobilitazione  “improvvisata, inopportuna e controproducente”) il giorno dopo la conclusione delle trattative ha dichiarato all’Unità: “Riconosco che si sia trattato di una protesta molto dura, nata spontaneamente, ma resto dell’idea che il sindacato avrebbe dovuto incanalarla verso forme di lotta diverse. Ripeto, nel merito della protesta eravamo pienamente d’accordo sin dall’inizio, noi abbiamo sempre e solo posto una questione di metodo”.

Lo stesso leader della Cgil Epifani - pur mantenendo un atteggiamento diverso da quello di autentico crumiraggio della Cisl e della Uil – ha criticato la durezza delle forme di lotta adottate, prendendone di fatto le distanze ed operando pressioni sulla Fiom affinché si mettesse fine ai blocchi e si adottassero metodi meno intransigenti.

Ma proprio questo è il punto. Per raggiungere uno scopo, sono indispensabili degli strumenti adeguati. Dire di  condividere il fine, ma essere contrari ad adottare i mezzi necessari per realizzarlo, non significa assolutamente nulla. O, meglio, significa soltanto rinunciare all’obiettivo che, a parole, si dice di voler ottenere.

La lotta di Melfi dice proprio questo: il merito delle rivendicazioni ed il metodo per conquistarle non possono essere separati. Negli anni precedenti i delegati più attivi della Sata (in quasi totale solitudine rispetto alla stessa Cgil) le avevano provate tutte per ottenere un miglioramento delle condizioni salariali e lavorative. Si era “persino” inviata una petizione al presidente della repubblica, ma non si era schiodato nulla. Un’attività, quella di questi delegati, difficile e apparentemente priva di risultati che però è stata preziosissima per fecondare il terreno dal quale “all’improvviso” è germogliata ed esplosa la lotta.

 

La questione dell’unità 

Un giovane operaio della Sata ha dichiarato: “Per anni le direzioni sindacali ci hanno detto che non si poteva ottenere quasi nulla perché noi lavoratori non eravamo disponibili a batterci. E adesso che finalmente lo stiamo facendo, la Fim e la Uilm ci chiedono di smettere perché altrimenti si rompe l’unità sindacale; ma non ci interessa perché ogni giorno vediamo che invece davanti ai cancelli siamo in tanti e che in fabbrica non entra nessuno”.

Infatti! Già la mobilitazione di Scanzano e quella dei ferrotranvieri milanesi avevano evidenziato come e quanto siano strumentali e false tutte le chiacchiere sulla presunta necessità di moderare le lotte per evitare di restare isolati e per non dividersi. Al contrario, proprio la determinazione con cui si conducono le battaglie è un fattore importantissimo per rinsaldare l’unione dei lavoratori e per far crescere le “simpatie” intorno ad essi. La vera unità da ricercare e da difendere come un bene prezioso è quella tra gli operai dei vari reparti, è quella tra i lavoratori della “casa madre” e dell’indotto, è quella con gli altri stabilimenti, è quella con la popolazione lavoratrice della zona: tutte cose possibili e conquistabili solo attraverso la lotta. Cedere al ricatto “dell’unità dei vertici sindacali innanzitutto”, avrebbe invece significato abbandonare la mobilitazione e rientrare a capo chino al lavoro. Avrebbe significato lasciare mano libera all’azienda nel continuare a mettere in pratica tutti quei comportamenti che servono ad intimidire i lavoratori per  frantumarne ed impedirne proprio ogni possibile unificazione.

 

Contro cosa

ci si è andati a scontrare 

Quella di Melfi è stata molto più di una circoscritta lotta per il miglioramento della propria condizione. Dietro le condizioni lavorative della Sata non vi sono solo e tanto le “scelte” della Fiat. A determinare ed imporre queste condizioni sono l’andamento e le “necessità” di profitto dell’intero sistema capitalistico internazionale. Proprio come previsto dalla teoria di Marx (data un milione di volte per “antiquata” eppure sempre più confermata dalla realtà dello sfruttamento capitalistico) le grandi multinazionali per non finire sopraffatte da una concorrenza reciprocamente sempre più spinta, sono tutte obbligate a darsi battaglia per tentare di mantenere e conquistare sempre nuovi spazi di mercato. Per far ciò esse devono (devono!) abbassare costantemente i costi di produzione e spingere quindi all’estremo lo sfruttamento operaio. La Fiat-Sata è tra i prodotti più “genuini” e d’avanguardia di tutto ciò. I suoi ritmi, i suoi orari, la sua disciplina caporalesca ed i suoi salari sono fatti per competere con le fabbriche giapponesi e coreane, con i ristrutturati ed iper-produttivi stabilimenti statunitensi e con quegli autentici moderni lager che le multinazionali dell’auto impiantano nei paesi del Sud e dell’Est del pianeta delocalizzandovi la produzione. 

A Melfi gli operai si sono ribellati proprio a questi ritmi, a questi orari, a questa disciplina e a questi salari. La loro è stata di fatto una rivolta contro gli assi portanti del moderno schiavismo capitalistico globalizzato. In questo senso (e la cosa non sembri esagerata) dalla “lontana e sperduta” Basilicata è partito un segnale agli operai di tutto il mondo: battersi contro la fabbrica-caserma e contro i diktat del mercato che schiacciano e succhiano la nostra vita non solo è necessario, ma è anche possibile.

 

Il bastone dello stato 

I lavoratori lucani hanno iniziato a sperimentare sul campo come nella battaglia per i propri diritti non si impatti “solo” con la forza delle aziende, ma anche con quella delle istituzioni statali.

Il giorno delle cariche una lavoratrice ha detto: “Ci hanno pestato e trattato come dei neri, mentre noi manifestavamo pacificamente solo per i nostri diritti”.  È vero, fino ad ora le “premure” quotidiane della polizia sono state riservate quasi esclusivamente ai lavoratori immigrati e alle loro associazioni. Ma adesso è giunto il momento in cui pure all’operaio italiano ed occidentale si vuole e si deve iniziare a far comprendere che in fondo anche lui è un “nero”, un moderno schiavo che deve stare al suo posto e non alzare troppo la testa.

L’intervento della polizia non è stato frutto di un atto “improvvisato” di qualche sprovveduto  funzionario. Da giorni, e in perfetta sintonia con la Fiat, il governo (berlusconiano)  e la magistratura (“anti-berlusconiana”) stavano preparando il terreno all’uso dei manganelli. Tutte le litanie sul “garantire l’accesso alla fabbrica a chi non voleva scioperare” servivano a questo.

Se poi il governo, dopo un primo “assaggio”, ha deciso di desistere dall’impiego delle maniere forti, ciò è stato il risultato di tre fattori.

Primo: la fermezza e la capacità di non farsi intimidire dimostrata dai lavoratori di Melfi. Secondo: la discreta riuscita (soprattutto in alcune importanti realtà del Nord) dello sciopero metalmeccanico indetto dalla Fiom  dopo le cariche, nonché la solidarietà espressa da più parti verso i lavoratori Sata anche attraverso collette effettuate in vari posti di lavoro e confluite nella cassa di resistenza. Questi due elementi hanno preoccupato la stessa Confindustria spingendola a premere per un, almeno transitorio, accantonamento della “linea dura”. Terzo: il governo ha avuto il timore che un attacco troppo frontale agli operai lucani generasse tensioni che avrebbero potuto intrecciarsi con il malumore che inizia a diffondersi tra la “gente” contro la partecipazione italiana alla guerra all’Iraq e che quindi avrebbero “rischiato” di incentivare lo scollamento tra una quota crescente di “opinione pubblica” e la politica governativa.

 

La partita è

tutt’altro che chiusa. 

La Fiat è stata costretta a fare un passo indietro, ma lo scontro è tutt’altro che chiuso. Per l’azienda torinese e per tutto il capitalismo italiano, infatti, generalizzare il modello Melfi è irrinunciabile.

Cresceranno (stanno già crescendo) le spinte per mettere in competizione reciproca i lavoratori dei vari stabilimenti Fiat. Continueranno e si accentueranno le minacce e le pratiche di delocalizzazione delle attività produttive all’estero. Questo è vero per la Fiat, per le fabbriche dell’indotto (proprio quelle di Melfi hanno da tempo spostato alcune attività nel Nord Africa) e per l’insieme del settore industriale.

Come difendersi da tutto ciò? A Melfi è stato fatto un passo (e che passo!). Adesso è necessario raccogliere gli insegnamenti che vengono da questa lotta e svilupparli in avanti. Questo significa anche iniziare a riflettere collettivamente su come e quanto sia ormai necessario porsi per davvero l’esigenza di costruire veri e stabili “contatti” tra lavoratori di diverse aziende e di diversi settori senza necessariamente passare per la mediazione dei vertici sindacali. Significa lavorare con continuità per la costruzione di un unico fronte di lotta tra lavoratori delle grandi aziende e dell’indotto, tra lavoratori “garantiti” dal contratto nazionale e precari. Significa prendere a battersi anche “qui” contro le condizioni di mostruoso super-sfruttamento che le “nostre” aziende esportano ed impongono in quell’immenso “indotto” che sono i paesi “poveri” e che poi utilizzano anche contro di noi. Significa cominciare a proiettarsi esplicitamente sul terreno della lotta politica, come accenniamo nell’articolo a fianco.

Difficile? Sì! Impossibile? No!

Del resto, il 16 aprile non sembrava impossibile pensare che il giorno dopo i “prigionieri del lavoro” di Melfi avrebbero cominciato la lotta che li ha visti protagonisti?

 

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