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La magnifica resistenza degli iracheni

 

I nostri mezzi di disinformazione di massa hanno raccontato per mesi che sarebbe in corso in Iraq una guerra tra bande, tra tribù, tra etnìe, tra confessioni religiose e chi più ne ha più ne metta, che solo la presenza provvidenziale delle nostre truppe “di pace”, o -almeno- di quelle dell’Onu, potrebbe tenere a freno. Giorno dopo giorno questo castello di menzogne sta sfarinandosi sotto i colpi degli insorti iracheni...

 

Una vera guerra popolare

 

Oramai anche gli osservatori di destra più provveduti lo ammettono a denti stretti: in Iraq è in atto una lotta di resistenza, una vera e propria guerra popolare, che oppone la larga maggioranza della popolazione irachena (altro che iracheni soddisfatti dei “liberatori”!) alle forze militari raccolte attorno agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e all’Italia.

Hai voglia a ripetere che i resistenti sono banditi isolati dalla popolazione! Gli attacchi ai convogli e alle basi occidentali (anche a Nassiriya, presidiata dagli “amatissimi” italiani), le azioni contro le forze di polizia irachene, le azioni kamikaze, i rapimenti di mercenari e di tecnici occidentali, il sabotaggio degli oleodotti non sono opera di pochi individui staccati dal resto della popolazione irachena. Sono i diversi momenti di un’articolata lotta di resistenza alla ri-colonizzazione del paese. Basta scorrere qualche immagine delle quotidiane manifestazioni di massa o delle scene di giubilo che accompagnano gli attacchi ai convogli occidentali (presenti pure donne e bambini –questi ultimi ben svezzati, a differenza dei nostri eterni infanti), per rendersi conto di quanto la protesta “pacifica” e la resistenza armata di popolo siano tra loro intrecciate.

I protagonisti della resistenza non solo non sono isolati dal popolo iracheno, ma sono essi stessi il popolo lavoratore e diseredato dell’Iraq in armi. David Martinez, uno dei rapiti occidentali delle scorse settimane, appena rilasciato, ha dichiarato: “La gente che ci ha sequestrati [nella zona di Falluja] non sono lunatici o banditi. È il popolo di Falluja, che combatte per la propria sopravvivenza, è gente civile e cortese”. Un cronista statunitense di origine indiana, Rahul Mahajan,  ha raccontato da Falluja: “Chi sono i combattenti di Falluja? È gente semplice”, sono i contadini della cittadina e di una zona, che, posta sull’orlo del deserto, è stata trasformata mediante l’irrigazione, dall’operosità della gente, in un’area di agricoltura intensiva. Sono poliziotti ribellatisi agli ordini degli occupanti. Sono ragazzi di 11 anni con i kalashnikov in mano, la “generazione delle sanzioni”, quella a cui l’Onu ha regalato la malnutrizione, la scarsità delle cure sanitarie, il diroccamento del sistema scolastico e tonnellate di uranio impoverito incorporate nell’ecosistema mesopotamico. “È gente semplice, come gli shabab palestinesi.” È la stessa “gente semplice”, la stessa generazione delle sanzioni, che costituisce il grosso della milizia Mahdi legata a Moqtada al-Sadr.

Questa lotta ha mostrato fin qui di poter fare tranquillamente a meno dei “contrasti inter-confessionali” o “razziali” tra le varie componenti del popolo iracheno, di quella “guerra civile tra iracheni” che secondo la propaganda occidentale solo gli occupanti riuscirebbero a scongiurare (proprio quegli occupanti che al contrario la fomentano in tutti i modi, come seppero fare purtroppo con successo in Jugoslavia). Quando i gruppi della resistenza hanno colpito degli iracheni, lo hanno fatto solo per il loro ruolo di collaborazionisti. E lo hanno fatto, inoltre, con la preoccupazione di rivolgere a quanti erano stati spinti ad arruolarsi nella polizia dal dramma della disoccupazione un appello a cercare la soluzione alla propria miseria nella comune lotta di liberazione, e non a spese dei propri fratelli. La diserzione di almeno il 50% dei 145 mila poliziotti, il rifiuto di un battaglione di 600 militari del nuovo esercito iracheno di partecipare al fianco dei marines all’assedio di Falluja stanno ad indicare che la doppia sollecitazione non è caduta nel vuoto.

I resistenti, dunque, sono e si considerano innanzitutto iracheni. Sciiti, sunniti, cristiani, compresa una parte dei curdi, uniti contro gli occupanti. Non era scontato, né lo è a tempo indefinito, poiché, qualora la lotta dovesse subìre dei colpi e arretramenti decisivi, ritornerebbe a galla la fogna della divisione interna tra i sottomessi. Per ora però, e non sembra cosa momentanea, vale il contrario, a dimostrazione che anche l’unità di un popolo non è la precondizione, ma il risultato di una vera lotta che muove assieme soggetti che sono, in partenza, anche discordi, e li unisce e li trasforma.

“Sciiti, sunniti, siamo tutti fratelli e non venderemo il paese agli stranieri!”: la primavera della fraternizzazione tra (in particolare) sciiti e sunniti è cominciata con le grandi dimostrazioni di massa seguite, ai primi di marzo, alle bombe alleate contro le moschee sciite di Baghdad e Kerbala. E si è consolidata con la rivolta degli sfruttati sciiti di Sadr City e di quel sud dell’Iraq in cui le forze di occupazione erano riuscite per un buon tratto, grazie alla collaborazione dello Sciri e alla benevola “neutralità” di Sistani, a contenere la protesta.

L’assassinio per mano israeliana dello sceicco Yassin, la guida di Hamas, l’azione repressiva di Bremer contro l’organizzazione di Moqtada al-Sadr e il contemporaneo attacco contro la roccaforte di Falluja hanno accelerato questo processo. L’8 aprile “da due quartieri di Baghdad sono partiti molti autobus stipati di giovani sciiti per andare a combattere la battaglia di Falluja. (...) Le moschee hanno chiamato la popolazione a donare sangue, viveri, medicinali. Lo sceicco Ahmad Abdel Ghafur al-Samarai, imam della moschea di Um Al-Qora, ci spiega: «Gli abitanti di Baghdad hanno deciso una prima spedizione di novanta automezzi con viveri e medicinali alle famiglie di Falluja.» E mentre musiche patriottiche si sono levate dagli altoparlanti dei minareti di Baghdad, uomini e donne si sono impegnati a donare sangue e soldi. Gli autisti dei camion si sono offerti tutti volontariamente. (...) Ed eccoli, i tremila della spedizione di solidarietà verso Falluja assediata, e verso i paesi della zona dai quali la gente non può fuggire. C’è gente a piedi, ci sono camion e furgoni scoperti carichi di farina, di medicinali, di coperte e materassi [immaginate quanto dev’essere apparso squallido, al confronto, il convoglino di tre mezzi della Croce rossa italiana...]. L’aiuto ai feriti e quello ai combattenti è una cosa sola. (...) Due blindati americani si mettono di traverso sull’autostrada, puntano le mitragliatrici. Il corteo non si ferma. Partono sassi e slogan: «Bush, Bush, faremo di Falluja la tua tomba!» I due blindati ricevono l’ordine di allontanarsi” (La Repubblica, 9 aprile).

Da allora l’unificazione delle organizzazioni di lotta degli sfruttati iracheni è andata ancora avanti. E su questa base il movimento di resistenza popolare iracheno è riuscito a costituire in alcuni centri del paese, soprattutto città, un embrione di potere popolare locale fondato sull’armamento di massa.

 

Una lotta molto avveduta

 

Questa lotta ha dimostrato finora di saper agire con molta avvedutezza politico-militare. Infatti non si è limitata ad attaccare le truppe statunitensi; ha attaccato tutto l’arco degli occupatori, inclusi quelli che cercano tuttora di destreggiarsi dietro presunte “missioni umanitarie”. A cominciare dall’Italia che, come diceva un iracheno intervistato dalla Rai, pur scelto con cura, sarà anche meno brutale del capintesta yankee, ma, al pari di tutto il resto della banda, deve andarsene via dall’Iraq. Una vera lotta di resistenza non distingue tra nemici cattivi e meno cattivi, aggrappandosi a questi ultimi, com’è avvenuto, disgraziatamente, in Jugoslavia, dove si è fatta troppa “diplomazia” verso i presunti “buoni” della gang degli aggressori. Una frazione di questa resistenza ha inoltre attaccato sia l’Onu che le code “umanitarie” degli eserciti occupanti, sul tipo di Croce rossa, Oxfam, etc., un piccolo “particolare” a cui dovrebbero prestare attenzione quanti, qui da noi, continuano a pensare che l’Onu potrebbe essere la soluzione.

In secondo luogo essa ha saputo fare un discorso molto chiaro e diretto (lo stesso Gino Strada ne sa qualcosa...) anche ai crocerossini autentici, quelli andati in Iraq per curare le ferite o “gettare ponti”: non sappiamo che farcene dei vostri aiuti “umanitari”; se volete davvero fare qualcosa di positivo, fatelo a casa vostra contro l’occupazione messa in atto dai vostri stati, dai vostri governi, dai vostri eserciti. Date forza lì alla nostra lotta, non venite qui a mediare e a chiederci moderazione, poiché non c’è nulla da mediare, e di moderazione ne abbiamo avuta fin troppa.

In terzo luogo è stata solo e soltanto questa -si può dirlo senza retorica- eroica resistenza degli iracheni a svelare ciò che prima nessun giornalista, anche di estrema sinistra, aveva saputo neppur intravvedere: e cioè la massa di mercenari non presenti su nessun rendiconto ufficiale e di affaristi che gravitano intorno all’occupazione militare (russi e cinesi compresi, all’insegna del “capitalisti di tutti i paesi, unitevi!” per spolpare il pollo). Già in Jugoslavia si era manifestata con tutta evidenza questa tendenza dei paesi occidentali a ricorrere al mercenariato. D’altronde lo stesso esercito Usa arruola, preferibilmente, dei “poveracci” (a prezzi ben inferiori ai mille dollari al giorno versati ai contractors) sul tipo dei latinos a cui si promette la cittadinanza a stelle e strisce in cambio di un “certo” impegno militare che lasci liberi da esso i figlioletti dell’America d.o.c.; e se questo non basta, mercenarizza a forza i coscritti dei “paesi amici”, cioè soggetti, dal Centro America alla “post-comunista” Polonia (senza tante lamentele da parte del papa, ieri così provvido di ammonimenti per il proprio diletto paese). Noi siamo dell’idea che una ipertrofia di truppe mercenarie potrà, a suo tempo, rivelarsi un boomerang come lo fu, ad esempio, per l’impero romano. Ma un buon aiuto al conseguimento di questo risultato è dato proprio dall’attacco frontale ai lanzichenecchi di ogni tipo di cui la resistenza irachena sta facendosi carico.

Grande merito di questa resistenza, infine, e non certo per ordine di importanza, è di aver osato lanciare un appello ai fratelli del resto del mondo arabo e ai “popoli dell’Occidente”. Agli uni ha chiesto di sollevarsi per cacciare le basi statunitensi dai loro paesi e di marciare “mano nella mano per rimuovere dall’Iraq il grande Satana”, e continua a chiedere di sollevarsi per detronizzare i regimi arabi (e sono tanti!) che collaborano con gli occupanti. Agli altri sta riuscendo a mostrare la vera natura della guerra in corso e ha chiesto di mobilitarsi per costringere i governi occidentali a far rientrare le proprie truppe, portando a casa un importante risultato con la Spagna. Alla quale, dopo il massacro compiuto dai suoi soldati il 4 aprile (28 manifestanti iracheni uccisi) era stato rivolto un altro appello minaccioso se non avesse fatto immediata retromarcia. Piacerebbe ai bellicisti di casa nostra, e non solo a loro, che i resistenti iracheni si limitassero ad una jihad contro l’Occidente in quanto tale, mettendo tutti gli occidentali nello stesso mazzo; essi, al contrario, lanciano un appello alla gente sana dell’Occidente affinché si separi con nettezza e con forza dai propri padroni: “americani, italiani e chi altri... potete essere nostri fratelli, a patto che sappiate sul serio combattere contro il nemico nostro che è, in fin dei conti, anche vostro”.

Che risposta stiamo dando loro?

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