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E noi, movimento "no war" in Occidente, cosa stiamo facendo?

 

Dinanzi alla guerra popolare degli iracheni il movimento “no war” in Occidente sta mettendo in mostra tutte le sue illusioni, debolezze e ritardi.

Certo, esso non è scomparso. Il segnale più interessante viene, ancora una volta, dagli Stati Uniti, dove l’ala più militante del movimento sta preparando per il 5 giugno una marcia sul Pentagono (anche la scelta del luogo-simbolo ha il suo valore...) nel giorno anniversario della guerra del 1967, in cui Israele occupò Gaza e la Cisgiordania, associando la richiesta del ritiro delle proprie truppe dall’Iraq a quella della “fine dell’occupazione coloniale della Palestina”. Seppur tra mille e una contraddizioni, e con contingenti di forze molto limitati, lì almeno si riesce a realizzare che “il nemico è in casa nostra”, anche se lo si identifica fondamentalmente con Bush, e assai meno con la finta “alternativa” Kerry; lì almeno si sentono alcune voci (splendida quella del padre di Nick Berg, il giovane ostaggio decapitato) capaci di rovesciare contro i propri governanti la colpa dei lutti che colpiscono gli stessi “invulnerabili” Usa, ovvero: la “povera gente” comune di essi; lì almeno non si ha il ritegno che impera qui nell’accostare l’Iraq al Vietnam; lì almeno si trova qualche intellettuale (un James Petras, ad esempio) capace di mettere in berlina lo spirito fariseo di molti intellettuali “di sinistra” che quasi temono di sporcarsi le mani a star troppo vicini, e non diciamo poi solidali!, agli arabi e agli “islamici”; lì almeno si continua a fare un grande sforzo per dare un carattere in qualche modo permanente all’azione di contrasto alla guerra.

Altri segnali significativi provengono dalla Gran Bretagna, il solo paese europeo in cui, pur senza troppo “mescolarsi” tra loro, continuano a marciare insieme autoctoni ed immigrati; dal Giappone, dove c’è stata un’immediata reazione non bellicista al sequestro di alcuni giovani ostaggi; o dalla Spagna della spontanea mobilitazione anti-Aznar e anti-guerra avvenuta dopo l’11 marzo.

Ma in complesso è poco, terribilmente poco, in quantità e in qualità, rispetto allo scontro in atto in Iraq (in Afghanistan, in Palestina) e alle manovre militari e diplomatiche con cui la coalizione degli aggressori, l’ONU e le potenze rimaste finora estranee al conflitto cercano di soffocare l’insorgenza irachena.

È un dato di fatto: i milioni di manifestanti iniziali, scesi in campo quando la guerra non era ancora in atto o non ci vedeva direttamente coinvolti, si sono in seguito spompati. Non è che si siano ritirati a vita privata a tempo indeterminato, né che abbiano “tradito”. Continuano a sentire il problema, periodicamente ritornano in piazza, ma con scarsa convinzione, con scarsa tensione, con pochissima determinazione. È come se avvertissero che, sulle basi attuali, non c’è alcuna soluzione, e perciò “arretrano” verso una posizione di attesa, magari dandosi da fare in progetti umanitari di rincalzo. La grande manifestazione del 20 marzo a Roma è stata lo specchio di questa impasse, del contemporaneo esserci e non-esserci di tanti giovanissimi, giovani e meno giovani che intendono sì esprimersi contro questa guerra, ma sono privi di una prospettiva, di un programma di azione che li convinca e li conquisti realmente, e perciò scendono in piazza come singoli “numeri”, non come forza coesa. Tanti, ma senza una reale capacità di incidere sulla situazione.

 

Ancora una volta l’Onu?

 

 Come cambiare questo stato di cose? Anzitutto cominciando con il guardare in faccia la realtà. È in atto una guerra, una guerra vera. Lo riconoscono anche gli editorialisti di Libero o gli ariani alla Fallaci, salvo invertire completamente i ruoli, e dipingere il lupo dell’Occidente capitalista come l’innocente vittima dell’agnello musulmano, quando invece quest’ultimo si limita a difendersi da un saccheggio e un’aggressione permanente che subisce (come il resto delle “periferie” del mondo) da ben prima dell’11 settembre.

Questa guerra si può concludere solo o con la vittoria degli aggressori, dei Bush, dei Blair, dei Berlusconi, e delle rispettive forze armate, o con la loro disfatta e la vittoria del popolo iracheno in armi. Non si può rimanere a mezza strada tra i due fronti in scontro mortale tra loro. Non c’è spazio per una “terza via” alla pace che sia diversa dalla strangolatoria “pace” degli aggressori e dalla pace con la cacciata degli aggressori. O sarà l’una, con un ritorno alla grande del colonialismo e delle sue schifose pratiche (di cui le torture ai prigionieri sono soltanto un aspetto, e neppure tra i più violenti) e dottrine; o sarà l’altra, con un grande incoraggiamento per la lotta degli oppressi e degli sfruttati in tutto il mondo.

Di fronte ad una simile guerra, in cui le ragioni e i torti sono così chiaramente delineati, non c’è disimpegno possibile. Dobbiamo dire da che parte stiamo. Noi lo dichiariamo senza esitazioni: stiamo dalla parte della resistenza irachena, per essa e per noi stessi. Per noi che veniamo oppressi dalle medesime forze, dai medesimi governi che stanno assaltando l’Iraq e la Palestina. Per noi  che pagheremmo a caro prezzo (più di quanto non sia accaduto finora) un anche tiepido sostegno alla “guerra infinita”, come stanno sperimentando i lavoratori degli Stati Uniti e quelli di Israele.

Chiediamo ai manifestanti “no war” di discuterne insieme, a partire da quella che è all’oggi l’“opinione” (assai diversa dalla nostra) maggioritaria nel movimento, che si può così sintetizzare: d’accordo sul ritiro delle truppe alleate, ma bisogna rimpiazzarle con quelle dell’Onu, perché comunque ci deve essere qualcuno che impedisca laggiù la guerra civile tra iracheni.

Ancora una volta l’Onu, dunque. Ma non vi pare sufficiente per metterla nel vostro libro nero, cari amici o cari compagni, ciò che questa istituzione, diretta emanazione delle grandi potenze, degli Usa in primo luogo, ha già fatto all’Iraq con le guerre e l’embargo? Osserviamo, poi, in che tipo di maneggio sta prodigandosi l’inviato dell’Onu Brahimi. Costui sta tentando di mettere in piedi un governo di “iracheni” collaborazionisti che accetti la presenza delle truppe alleate a tempo indefinito e la nostra supremazia economico-politica sull’Iraq riducendo questa nazione ad una sorta di protettorato collettivo dell’Occidente (sul modello dell’“ex”-Jugoslavia di oggi). Sarebbe questa l’agognata “pace con giustizia”? A voi la risposta.

Dal nostro punto di vista, l’affermazione di un Flavio Lotti, “non possiamo lasciarli soli”, con il sottinteso, non troppo sottinteso, “perché altrimenti si sbranano tra loro”, contiene una bella dose di razzismo e di mistificazione. Di razzismo, perché fa pensare che il popolo iracheno non sia capace, per sue organiche tare, di sollevarsi unitariamente in piedi: proprio quello che, invece, ha dimostrato di saper fare tanto nella guerra dei quarantacinque anni (1914-1958) vinta contro gli occupanti britannici, quanto in questa sua seconda guerra di liberazione nazionale contro le nostre civili democrazie. Di mistificazione, perché proprio “noi”-Occidente, i presunti “pacificatori”, stiamo facendo il possibile e l’impossibile per scagliare gli iracheni gli uni contro gli altri, gli ex-baathisti riabilitati contro i loro ex-torturati, gli sciiti contro i sunniti, i curdi contro gli iracheni, come ci riuscì purtroppo con la guerra “per procura” tra Iran e Iraq. E “noi” potenze occidentali, seminatori storici di conflitti tra i popoli medio-orientali, “noi” che abbiamo tracciato i confini di queste nazioni nel più totale dispregio della loro storia, “noi” che abbiamo disperso i curdi in cinque stati diversi, “noi” che da dieci anni teniamo diviso l’Iraq in tre parti, proprio noi-Europa/Occidente, dovremmo ora insegnare loro ad unirsi? Ma fateci il piacere!

È evidente, gli iracheni non vanno lasciati soli. Ma c’è un ben diverso modo di fargli compagnia  come si deve: dando battaglia, battaglia vera!, contro il nostro governo, contro l’imperialismo occidentale tutto, quello europeo non meno del sodale e concorrente statunitense. Una battaglia fatta non di dichiarazioni senza conseguenze, ma data fermando il paese per costringere il governo Berlusconi, a furia di scioperi e di manifestazioni, a ritirare immediatamente le truppe dall’Iraq.

Ed invece ci stiamo avvicinando alle manifestazioni di inizio giugno in tutt’altro clima. “Via il torturatore Bush”, così le prime strisce di propaganda “antagonista” comparse sui muri. Diamine! E l’Italia? e Berlusconi? non torturatori per definizione? e la denunzia delle azioni di guerra delle “nostre” truppe? degli interessi di sfruttamento delle “nostre” imprese? degli intrighi della “nostra” diplomazia per perpetuare l’occupazione dell’Iraq sotto altra forma? degli sporchi servigi resi dai mercenari tricolori? Ciò che i leaders del movimento stanno sponsorizzando non è il potenziamento della lotta contro la guerra nelle piazze e nei posti di lavoro, i soli luoghi in cui essa può davvero mordere, bensì il contrario: l’adozione della “linea Zapatero” anche in Italia. Puntare sul trionfo elettorale del blocco anti-Berlusconi, con tutti i distinguo del caso da Rutelli-Prodi e Fassino sullo specifico iracheno, ma comunque e pur sempre attraverso la via obbligata dell’Ulivo. Agnoletto, Giulietto Chiesa, Cento, D’Erme eccetera eccetera fianco a fianco con quanti approvarono la prima guerra all’Iraq e guidarono in prima persona la distruzione, via bombe, della Jugoslavia (i D’Alema, i Fassino, i Rutelli, ieri imputati di bellicismo, oggi assolti). Tutti insieme appassionatamente, con molto spirito unitario –unitario non con la lotta vera degli iracheni e la nostra saldatura ad essa, ma con gli zapateri nostrani e, possibilmente, pan-europei. Dal momento che tira brutta aria per i nostri peace-keeping e i vantaggi per l’Italia rischiano di essere più magri dei costi, “ritiriamoci” oggi dall’Iraq onde potervi, via Onu, ritornare in maniera più indolore e maggiormente profittevole domani. Il movimento “no war” ridotto a serbatoio di voti per una seggiola a Strasburgo o a Montecitorio luoghi in cui, è noto, si sono condotte e si conducono le più epiche battaglie contro le multinazionali e le guerre di rapina...

Se la massa del movimento dovesse lasciarsi condurre lungo questa traiettoria, si infilerebbe in una via scivolosa che dal pacifismo conduce al nazionalismo patriottardo. Se ne è avuta una piccola avvisaglia con la manifestazione anti-imperialista richiestaci dal fronte iracheno come elemento di scambio per liberare quei tre bei tomi di italianucci tenuti prigionieri in Iraq. La seconda super-potenza di cui parlò il New York Times avrebbe avuto l’occasione, qui, di mostrarsi in forze. Lo avrebbe potuto fare qualora fosse stata in grado di accogliere sul serio la richiesta vera e giusta pervenutaci dagli islamici e dai non islamici dell’Iraq (che, se portata avanti con determinazione e coerenza, cambierebbe tutto il quadro dello scontro mondiale  in atto). Niente di tutto questo. Anzi! Una paura bestiale, quasi un orrore a mostrare di voler anche soltanto rispondere ai “terroristi”, cioè ai resistenti iracheni. A ranghi ridottissimi ci si è... ridotti, i soliti noti con qualche frangia più o meno disobbediente al seguito, a manifestare dietro le bandiere “umanitarie”, senza abdicare formalmente alle ragioni “no war”, ma in chiave molto, ma molto, italiana. I nostri cari connazionali vanno strappati al “terrorismo islamico”, a prescindere dal fatto che noi-movimento non si voglia o non si riesca a stoppare il nostro imperialismo, poiché la loro vita è un valore in sé. Meritatissima la benedizione papalina per una simile sarabanda pro-Italia, pro-Europa, pro-Onu, pro-Prodi e, al fondo di tutto, anti-irachena.

 

 

Prendiamo nelle nostre mani la lotta contro la guerra!

 

Nulla, si capisce, è già deciso.

Siamo più che mai convinti che la strada apertasi con Seattle e i fatti seguiti all’11 settembre è quella di un conflitto permanente e in crescendo che, lo vogliano o no, costringe gli oppressi, e i non oppressori per definizione, cioè quella stragrande parte della popolazione mondiale che non ha da spezzare che le proprie catene (pur dorate qui e acuminate altrove), a battersi contro il sistema capitalistico, a partire dal rifiuto degli effetti più sgraditi e odiosi della dominazione del capitale. Per questo la sezione più genuina del movimento è perfettamente in tempo a stoppare e ribaltare la linea di scivolamento di cui si è detto; ma deve darsi una mossa assai più decisa, di azione e di indirizzi. Deve decidersi a prendere la lotta nelle proprie mani, senza subìre ulteriormente una direzione del movimento (poiché, è evidente, tale direzione esiste) che più lo scontro si radicalizza, più si avvicina e si stringe alle “ragioni”, agli interessi materiali cioè, dei propri stati e della propria “civiltà”.

L’appello del popolo iracheno in armi a separarci con nettezza ed energia dai nostri governi, dai nostri pescecani (mai sentito parlare di Eni?), dalle nostre forze armate va raccolto! Non ci si faccia deviare dalla obiezione: “ma ce lo lanciano degli islamici”. E che, vogliamo tornare a dividerci per confessioni religiose come nel medioevo? E poi perché nel movimento “no war” dovrebbero essere bene accetti i cattolici anti-guerra, ed altre cento “diversità”, mentre dalla lotta contro questa guerra imperialista dovrebbero essere “esclusi” proprio coloro che la stanno combattendo in prima fila soltanto perché islamici o islamisti? Noi siamo marxisti, rivoluzionari, internazionalisti. E dunque non esattamente islamici, né cattolici. Ma proprio perché abbiamo una concezione non settaria del movimento contro il capitale globale (pur stando in esso con le nostre ben distinte caratteristiche), proprio perché sappiamo che esso deve affasciare e fondere le forze della più gran massa possibile degli oppressi e degli sfruttati, ci sembra un delitto erigere steccati a priori tra noi e i combattenti islamici o anche islamisti. Non è imbarazzante, è invece altamente incoraggiante che dei “fondamentalisti” islamici, veri o presunti, si rivolgano a noi qui per chiamarci a fare la nostra parte. Perché se noi la facessimo sul serio, lo stesso orizzonte “fondamentalista” verrebbe meno, in quanto lo scontro tra mondo arabo-islamico (in blocco) e Occidente imperialista (altrettanto in blocco) comincerebbe a trasformarsi in uno scontro internazionale tra oppressi del mondo arabo-islamico, dell’Occidente, dell’intero pianeta e capitalismo. È esattamente a questo risultato che noi lavoriamo, l’unico che può garantirci di porre fine a questa e alle altre guerre infami che infestano il mondo d’oggi.

Un passo in questa direzione può essere compiuto già nella manifestazione di Roma del 5 giugno. A patto –però- che essa non si riduca ad una sfilata caotica di folla (come quella del 20 marzo). Che non si limiti alla sola denuncia dei crimini di Bush e della sua gang. E non si esaurisca in una fiacca petizione “di pace” (con l’occhio rivolto alle urne della settimana dopo) per il ritorno “a casa” delle truppe italiane. A patto che essa affermi con forza la solidarietà piena alla resistenza del popolo iracheno e degli sfruttati palestinesi, arabi ed islamici, e con assai più determinazione di quanto si è fatto finora che i militari italiani debbono tornarsene a casa subito, Ulivo o non Ulivo, perché sono parte integrante delle odiate forze di occupazione.

Già si sentono, anche da ambienti extra-parlamentari, appelli preventivi al disarmo politico di questa manifestazione, affinché non turbi la pregustata vittoria elettorale. Servirebbe l’opposto, una “Melfi” al cubo nella “città eterna”, capace di legare, parlando alla stessa classe operaia, le guerre “esterne” del governo Berlusconi con le sue guerre “interne” contro i lavoratori italiani. E capace di dire, con i fatti: siamo qui, e da qui non ci muoviamo fintantoché...

 

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