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Alla "gente" del movimento "no war"

Mentre in Iraq la guerra continua e s’intensifica, in Occidente il movimento per la pace è in uno stato di semi-paralisi. Un paio di folte e belle manifestazioni si sono tenute a Washington e a Londra, e ne parliamo in altra parte del giornale. In Italia e nel resto d’Europa, però, quasi zero.

Eppure, la gente che manifestò nei mesi scorsi è più preoccupata di allora. Nutre un senso di paura per quanto sta succedendo laggiù. Paura che la guerra, finora rimasta lontana, si stia poco a poco avvicinando a "casa nostra". Paura che la guerra, invece di chiudersi rapidamente, diventi lunga, molto lunga.

Questo timore è del tutto fondato.

Il problema è: come fronteggiare questa situazione?

Finora si sono fatte avanti due "proposte", in parte intrecciate tra loro. Da un lato, l’appello di Emergency, affinché tutti cessino il fuoco. Dall’altro, la richiesta di un intervento dell’Europa sotto l’egida dell’Onu.

Noi crediamo che, al di là delle intenzioni di chi le propone e, soprattutto, della gente comune che le fa proprie, queste due "soluzioni" avrebbero un unico effetto: quello di spingerci ancor più a fondo nel buco nero della "guerra infinita" da cui si ha paura di essere inghiottiti.

Perché questo? E come, in alternativa, affrontare efficacemente questa situazione preoccupante?

È ciò di cui discutiamo in questo articolo.

 

Perché la guerra sta arrivando qui?

 

La percezione comune del lavoratore o del giovane pacifista è che la guerra fino ad ora "confinata" in Iraq stia arrivando qui perché "quelli", cioé gli iracheni o gli islamisti, fanno gli attentati non solo contro i soldati statunitensi, ma anche contro i "nostri". Senza dubbio è così. La possibilità che ci siano attacchi contro le truppe di occupazione in Iraq, che ci siano attentati "islamici" contro le imprese e le istituzioni europee in Medio Oriente e che ve ne siano anche qui in Europa è cresciuta. È un dato di fatto. Ad esso, però, vanno aggiunti altri due dati di fatto altrettanto incontrovertibili. Primo: gli attentati sono parte inseparabile di un moto popolare di resistenza. Ne parliamo nell’articolo di pag. 4. Secondo: questa resistenza nasce in risposta alla vera macchina da guerra che agisce sulla Terra, al vero terrorismo che conosciamo, come disse qualche mese fa lo stesso Gino Strada: quello capitanato dagli Usa. Che -da decenni- ha scatenato la guerra ad alta intensità in Iraq, in Palestina, in Afghanistan, in Somalia e nei Balcani, e le guerre "a bassa intensità" un po’ dovunque nel Terzo Mondo (si pensi alla Colombia o al Sudan) per il solo scopo di scorticare vive le masse lavoratrici di questi paesi e depredarne a costo zero le risorse naturali.

Restiamo all’Iraq.

Questo paese di grande storia è stato invaso e occupato dalle "nostre" truppe coloniali una prima volta nel 1914 (si trattava allora dei soli britannici), ed è stato perciò costretto a battersi in una guerra di liberazione durata 45 anni, costata spaventosi sacrifici umani pur di conseguire l’indipendenza nazionale (al confronto le tre guerre d’indipendenza italiane sono state uno sceneggiato televisivo...). Quindi, dopo un intermezzo di 22 anni di "pace", l’Iraq è stato di nuovo scagliato, in primo luogo dagli Usa e dai nostri stati, suoi grandi sponsor e consiglieri nella guerra contro l’Iran e poi suoi grandi aggressori diretti dal 1990-1991, in un ininterrotto seguito di guerre che dura da 23 anni. Adesso l’Iraq giace occupato e devastato, ricacciato all’indietro, verso "l’età della pietra". Non i redattori del che fare, notoriamente sospettabili, ma un "insospettabile" premio Nobel collettivo per la pace, l’International Physicians for the Prevention of Nuclear War, ha appena editato un documento, diffuso a Roma a fine novembre, in cui si stima tra i 21.000 e i 55.000 gli iracheni ammazzati in questi mesi dalla coalizione democratica guidata dal Pentagono. In questo documento si ribadisce che "le conseguenze del conflitto sulla salute fisica e mentale degli iracheni e sull’ambiente saranno sentite per molti anni [e diciamo pure: secoli, n.] a venire"; non solo per le armi di distruzione di massa usate dagli occidentali, ma anche per lo stato assolutamente deplorevole in cui versano l’economia irachena e l’organizzazione dei servizi di un paese che, specie nel campo sanitario, era il più avanzato di tutto il Medio Oriente.

Un altro testimone "insospettabile", Marco Calamai, inviato di Berlusconi a Nassiryia e uomo di centro-sinistra (più insospettabile di così si muore) ci ha appena raccontato dalle colonne de l’Unità che più del 70% (settanta per cento!) della popolazione irachena è oggi disoccupato, la più alta disoccupazione del mondo insieme ad una spaventosa miseria in un paese dalle grandi ricchezze; che i presunti "ricostruttori", inclusi i bravissimi italiani, insuperabili in questo (chiedetelo un po’ alla gente di Mogadiscio, di Timisoara e di Tirana!), non hanno fatto pressocché nulla "per la ristrutturazione delle scuole [sono stati "ristrutturati" solo i libri di testo, riscrivendo la storia dell’Iraq con l’inconfondibile penna dei "fondamentalisti cristiani" made in the Usa, n.], per l’ammodernamento dei centri sanitari [peraltro molto moderni prima dello schifosissimo embargo imposto ai "barbari" iracheni dai nostri civili paesi, n.], per il miglioramento della qualità dell’acqua" [inquinata dai bombardamenti "intelligenti" del ‘91 che devastarono la rete idrica -v. il rapporto Ahtisaari, funzionario dell’Onu, del ‘91, n.]".

Da un’altra fonte "insospettabile", l’Onu, è venuta l’ammissione – che è in tal caso una vera confessione di colpevolezza per il genocidio – che l’embargo deliberato dall’Onu dopo l’aggressione del 1991 è costato la vita a un milione e mezzo di iracheni, di cui 500.000 bambini, quel massacro a sangue freddo che la Albright definì un "costo necessario". Da un americano onesto (ve n’è, naturalmente, e godono da noi della massima stima) quale l’ex-ministro della giustizia Clark e dai suoi sodali dell’Iac è venuto l’incontrovertibile e vibrante atto d’accusa sugli effetti letali dell’inquinamento da uranio impoverito intenzionalmente realizzato in Iraq dal paese che "sta sul colle per mostrare al mondo la via della libertà": una vicenda su cui invitiamo i militanti no war a leggere Il metallo del disonore. Dai dispacci radio-televisivi apprendiamo, infine, periodicamente, a quale disperata fuga da questo deserto di rovine siano costretti non pochi iracheni e curdi del Kurdistan iracheno proprio da quando i loro territori sono stati "liberati" e posti sotto la "nostra" giurisdizione... Questa è la situazione in cui è l’Iraq dopo 23 anni di guerre, schiacchiato sotto il tallone dell’Occidente!

Battersi, con ogni mezzo: è l’unica "scelta" che lasciamo agli oppressi!

 

Ebbene, cosa si pretende? che un popolo che ha subìto e continua a subire questo martirio, lo accetti senza nutrire un odio illimitato verso i suoi aguzzini? senza battersi con ogni mezzo a sua disposizione per riconquistare per sé e per i propri figli una prospettiva di vita e di libertà? senza rallegrarsi per ogni colpo inferto ai propri carnefici? Eppure è proprio questo che da settori sempre più vasti del movimento "pacifista" si pretenderebbe dagli iracheni e dagli arabo-islamici. Quali che siano le intenzioni dei proponenti, un appello come quello recente di Emergency ("cessate il fuoco, ogni fuoco") suona come un invito alla resa degli oppressi davanti alla violenza smisurata degli oppressori. Sia ben inteso: neppure a noi marxisti piace la violenza. Anche per noi l’umanità diventerà pienamente tale solo e soltanto quando avrà imparato a risolvere le sue contraddizioni senza ricorrere alla violenza dell’uomo sull’uomo. Ma in questa fosca fine della preistoria umana che stiamo vivendo, è il rullo compressore di Wall Street e delle cancellerie occidentali a non lasciare agli sfruttati di colore, a cominciare da quelli dell’Iraq e della Palestina, che una scelta: inginocchiarsi davanti al mostro imperialista, o battersi, battersi con tutto il coraggio, l’energia e l’organizzazione che occorrono per schiantarlo.

Se pure sono stati fisicamente degli egiziani o dei sauditi a far crollare le Twin Towers e se altri ardimentosi islamici li seguiranno nel restituire qui in Occidente un milionesimo del dolore che "noi" stiamo infliggendo loro, la responsabilità è solo ed esclusivamente dei nostri governi, delle nostre imprese, dei nostri eserciti. Dopotutto lì si stanno battendo per le stesse e medesime cose che stanno a cuore a noi. Noi desideriamo la pace? Loro certamente la desiderano più di noi. Ma per loro, che da 25 anni vivono la guerra come un’esperienza quotidiana, la conquista della pace è possibile solo ed esclusivamente con la cacciata delle armate occidentali che vi hanno scatenato la guerra. Noi cerchiamo di preservare e migliorare, se possibile, le attuali condizioni di vita, di predisporre un futuro decente per i nostri figli? Anche loro hanno una simile aspirazione. Ma per loro, che noi abbiamo sprofondato nella desolazione più nera, una speranza del genere può prendere un minimo di corpo solo se riusciranno a cacciare dalla loro terra i rapinatori occidentali.

Chiediamoci: cosa faremmo noi se fossimo disgraziatamente al loro posto? Ci perdoni il lettore non italiano per il seguente paragone che può sembrare irriverente, lo facciamo solo per farci capire. Prendete l’esempio di Scanzano. Un’intera cittadina, un’intera regione, se non addirittura un’intera parte dell’Italia, si sono sentite minacciate in qualcosa di vitale e, all’improvviso, si è bloccato tutto. Cosa sarebbe successo se, per avventura, per riportare all’ordine la massa dei dimostranti fossero intervenute le forze armate con bombardieri, elicotteri, mitragliatrici, etc.? Ebbene in Iraq noi abbiamo una Scanzano alla milionesima potenza già realizzata ed abbiamo lì in azione, da 15 anni, un potere militare che martella (altro che "cessate il fuoco"!) la popolazione irachena per costringerla ad accettare il destino che i "grandi" le hanno riservato. Il livello di guardia delle stesse possibilità di sopravvivenza è stato lì superato da un pezzo, per cui lì difendersi, opporsi, marciare verso la pace, può voler dire solo fare quello che i militanti della resistenza irachena stanno facendo contro i veri signori della guerra.

Ecco perché ci appare inammissibile e un po’ – possiamo dirlo? – vile mettere sullo stesso piano i combattenti iracheni, anche quelli che compiono attentati, e i macellai alla Bush, Blair e Berlusconi. Ecco perché, invece di prendere le distanze da chi, con i poveri strumenti di cui dispone, si batte per il suo lavoro, per la sua casa, per la sua scuola, per i suoi cari, per la sua vita, per la sua libertà, invece di lanciare appelli strappa-lacrime che hanno il solo effetto di accrescere la paralisi del movimento, è il caso di scuotersi dall’inattività e rilanciare qui, senza attendere il "tagliando di controllo" del 20 marzo, la protesta e la lotta di massa per il ritiro immediato e incondizionato delle truppe di occupazione occidentali dall’Iraq e da tutti i paesi "terzi"!

C’è un solo modo per tenere la guerra lontano da "casa nostra": dobbiamo... allontanarla dalla "casa altrui" dove l’hanno portata i nostri governi (e la nostra indifferenza o debolezza). Dobbiamo allontanarla dall’Iraq, dal mondo arabo islamico, da tutto il Terzo Mondo. Dobbiamo fare tutto ciò che sta in noi per favorire la vittoria degli iracheni e la sconfitta dei governi e degli stati aggressori, a cominciare dal "nostro" governo. Altrimenti, non ci sarà verso, la guerra ritornerà qui su di noi come un boomerang, e con assai più forza di quanto non sia avvenuto finora.

Non è pensabile né, tanto meno, augurabile che i resistenti iracheni alzino bandiera bianca (che possano fare una cosa del genere i Bush&C. non val neppure la pena di discuterlo). Se per assurdo dovesse accadere, se cioè essi dovessero dare partita vinta agli aggressori, allora sarebbe spianata la via a nuove aggressioni, già da tempo in cantiere. Ci si domandi perché non sono già partiti gli attacchi militari in preventivo contro la Siria, contro il Libano, contro l’Iran, contro la Corea del Nord, e la risposta sarà una sola: perché la resistenza in Iraq sta dando filo da torcere agli assassini e in questo modo, insieme ad afghani e palestinesi, sta preservando dalla guerra aperta altri "popoli canaglia".

Onu ed Europa possono solo estendere e cronicizzare la guerra.

 

A impedire l’importazione della guerra qui non sarà, dunque, un impraticabilissimo "cessate il fuoco". E non sarà nemmeno la scesa in campo dell’Onu e dell’Europa, di nuovo invocati da un crescente numero di "leader" del movimento no war.

Innanzitutto perché per i resistenti iracheni più consapevoli l’Onu e l’Europa sono le due potenze nemiche che, insieme con gli Usa, hanno determinato il massacro e l’affamamento del popolo iracheno. L’Onu ha sempre benedetto, ex ante o ex post, tutte le azioni belliche, dirette ed indirette, degli Stati Uniti, inclusa l’ultima da cui sembrò in qualche modo dissociarsi Annan. Il copione di sempre (Corea, Libano, Vietnam, Cambogia, Laos, Cile, Libia, Panama, Somalia... e l’elenco è parziale) è stato rispettato anche questa volta. Con la risoluzione 1551 (del 15 ottobre 2003) l’Onu ha completato l’opera iniziata con la risoluzione 1441 (dell’8 novembre 2002). Con questa, ponendo condizioni impossibili da rispettare per l’Iraq, spianò la strada all’aggressione statunitense, legittimandola alla stregua del "diritto internazionale", mentre i suoi ispettori battevano palmo a palmo l’Iraq per disarmarlo preventivamente di tutti i suoi mezzi di auto-difesa e per raccogliere quante più informazioni utili possibile per Pentagono, Cia&C.. Con la risoluzione recente l’Onu (incluse le potenze cosiddette "paficiste", Francia, Germania e Russia) ha legittimato la guerra preventiva di Bush, l’occupazione militare dell’Iraq, il "controllo esterno" sulle sue risorse, il "governo"-fantoccio insediato a Baghdad su ordine degli alleati: lo ha fatto attraverso la "copertura indiretta" di tutto ciò (1), d’accordo, ma l’essenziale è che lo ha fatto. E che, come sempre, ha agito al fedele servizio delle potenze imperialiste contro i popoli che dall’imperialismo sono, loro malgrado, dominati. Del resto, ci si poteva attendere altro dall’istituzione che ha per una dozzina d’anni strangolato, con il suo embargo, le genti dell’Iraq? Come si fa a pensare che la scesa in campo di questa forza di complemento degli aggressori possa funzionare da elemento di pace? Per quel che concerne i resistenti iracheni, la risposta è venuta ad agosto: attraverso l’attentato che ha distrutto il quartier generale dell’Onu con dentro il suo capo, il "raffinato umanista" Vieira De Mello.

Altrettanto chiara è giunta la loro risposta, "preventiva", a quanti ipotizzano come via alla pace il più intenso impegno di tutti i paesi europei. Gran Bretagna, Italia e Spagna, le tre prodi sorelle andate laggiù in avanscoperta, già piangono i loro primi, non ultimi, morti. Se ad esse si aggiungessero, nell’occupazione del suolo iracheno (è di questo che si tratta), anche Francia e Germania, sia sotto le insegne dei singoli stati, sia sotto quelli ipotetici dell’Ue ovvero dell’Onu, sia nel quadro della Nato, potrebbe essere solo a seguito di un nuovo grande accordo di spartizione delle ricchezze irachene, quel grande accordo tra gangster che non si riuscì a concludere prima della guerra.

Ancorché difficile, questa eventualità è possibile. E significherebbe, però, una sola cosa: che a mangiare a quattro palmenti sulle spalle degli sfruttati iracheni dovrebbero essere, oltre alle multinazionali anglo-americane, alla spagnola Repsol e all’Eni, anche la detronizzata Chevron, la Bayer e quant’altre sanguisughe sono in agguato per gli appalti (sembra che il berlusconiano Lunardi, con le sue aziende, si sia già collocato in pole position per le metropolitane di Bassora e di Baghdad, magari in cambio del dislocamento in Iraq di qualche altro migliaio di soldati o carabinieri...; se si nutrono ancora dubbi sulla cosa, si guardi a p. 8 cosa afferma il direttore di Limes). Non solo: significherebbe, anche, che tutti questi paesi dovrebbero dispiegare in Iraq più truppe in sostituzione di quelle yankee da far riposare e da preparare per le nuove guerre terroristiche "al terrorismo" in agenda. Pertanto la maggiore presenza dell’Europa in Iraq equivarrebbe ad una maggiore oppressione sugli iracheni e ad una crescita delle probabilità di nuove guerre, vicino e lontano dall’Iraq.

Ci si obietterà: ma, a differenza degli Usa, l’Europa preme per un più rapido "passaggio di poteri" nelle mani degli iracheni. Ingenuo chi ci crede! Il modello dell’Europa resta quello sperimentato con successo in Jugoslavia: libanizzare il paese da sottomettere, scagliare gli uni contro gli altri i suoi popoli "etnicizzando" il conflitto di classe e costituendo cantoni o micro-staterelli "etnici" facili da sottoporre a controllo per la loro impotenza a fronte del mercato mondiale. E dopo aver così smembrato il paese "liberato", mantenervi comunque solidi contingenti militari come deterrente verso sempre possibili ritorni di fiamma anti-colonialisti delle popolazioni oppresse: nei Balcani non ci sono tutt’ora circa 100.000 soldati della Nato? Il "passaggio dei poteri" formali ai rappresentanti autoctoni da "noi" prescelti (quelli che non ci gustano, o non riusciamo a comperare, li portiamo democraticamente all’Aia o a Guantanamo) è soltanto il mezzo per scaricare su altri le incombenze socialmente più sporche e tenersi un po’ al coperto, fin che è possibile, dai rischi maggiori (anche sotto questo profilo, è utile dare un’occhiata a quanto dice Caracciolo). E poiché i governanti europei sanno bene che non sarà possibile far funzionare questo "modello" a tempo indeterminato, ecco che stanno per far decollare il riarmo europeo: europei divisi su tutto, uniti solo sulla "difesa", cioé sul potenziamento degli eserciti, titolavano pochi giorni fa i giornali. Dando al contempo una notizia interessante: le spese belliche non saranno conteggiate nei deficit statali. È questa l’Europa di cui da destra e da sinistra, dai pro war e da tanti esponenti no war, s’invoca un maggior attivismo. La sua più decisa entrata in scena, unita o divisa, getterebbe altra legna sul fuoco dell’estensione e della cronicizzazione della guerra al mondo arabo-islamico a cui l’Europa capitalista è da sempre antagonista.

Che le cose stiano effettivamente in questo modo, inizia a sospettarlo anche un certo numero di dimostranti pacifisti, tant’è che gli incessanti appelli pro-Onu o pro-Europa, al pari delle preghiere pro-cessate-il-fuoco di Emergency, non riescono ormai a mobilitare più di tanto. Da parte di molti attivisti comuni anti-guerra il richiamo all’Onu o all’Europa avviene in una maniera quasi macchinale, come ripetendo una formula fatta appresa a memoria alla quale, nel profondo, non si riesce più a credere per davvero come un tempo. E lo si fa solo perché non si ha sufficiente fiducia nelle proprie forze e nella forza della lotta in Iraq.

Rilanciare la lotta

per il ritiro delle truppe!

 

Ed invece è proprio questa fiducia che va riconquistata! I lavoratori e i giovani del movimento no war, se vogliono davvero porre fine a quella guerra che non sono riusciti ad evitare ed a quella "spirale di violenza" che tanto li preoccupa, debbono impegnarsi nel rilancio della lotta per il ritiro "senza se e senza ma" delle "nostre" truppe. Debbono impegnarsi sul serio, sapendo da ora che sarà un obiettivo assai difficile da raggiungere. Che un impegno del genere comporta il rilancio di una vera discussione di massa sulle cause della guerra, su ciò che sta avvenendo in Iraq, sulla reale natura dell’Europa e dell’Onu, sull’indispensabile collegamento con la lotta dei popoli oppressi, sull’organizzazione da darsi per la lotta contro la guerra e, diciamo noi, contro l’intero sistema capitalistico che, giunto a questa sua crisi storica, non sa generare altro se non caos e guerre.

Per noi comunisti una vera lotta per la pace non può che essere una lotta per la distruzione del capitalismo, che è la fonte prima ed ultima di tutte le guerre e le "ingiustizie" in corso. Ma non vogliamo porre questo riconoscimento come preliminare alla ripresa della lotta. Ci limitiamo ad invitare e incitare gli appartenenti al movimento che non vogliono tornarsene a casa a rilanciare, insieme con la discussione, anche la mobilitazione di massa. Diamoci per davvero l’obiettivo del ritiro incondizionato delle truppe italiane dall’Iraq (e dagli altri paesi che stiamo, come Italia, occupando militarmente). Se riuscissimo in questo, ciò che non trova del tutto insensibili le stesse famiglie dei militari morti a Nassiriya, ci sarebbe un effetto a catena su tutta la politica occidentale capitanata dagli Stati Uniti. Per molte ragioni l’Italia può essere l’anello debole della coalizione alleata. Partiamo dunque da quello che possiamo fare, e facciamolo fino in fondo. Sapendo in anticipo che un movimento no war rinato su queste basi non potrà essere quello del 15 febbraio, con dentro i D’Alema, Rutelli, Fassino, Cofferati, Di Pietro, protagonisti e comprimari dello scempio della Jugoslavia. Non potrà restare esterno ai luoghi di lavoro, ma dovrà fare il massimo sforzo per coinvolgere in pieno la massa profonda dei lavoratori, ciò che finora non è avvenuto. Non potrà più restare indifferente alla resistenza irachena, o addirittura esserne impaurito; dovrà vederla per come essa è, la più grande delle risorse di lotta "per la pace" possibili, il propellente della nostra stessa lotta qui, da accogliere e valorizzare al massimo, anche per aiutare in essa le masse sfruttate a smarcarsi da direzioni nazionaliste o islamiste incapaci di essere coerenti nella lotta all’imperialismo e timorose di vedere gli sfruttati dell’Islam e quelli dell’Occidente affratellarsi tra loro.

La parte più sana e viva del movimento no war è chiamata in Italia e in Europa a fare questo passo in avanti. Se invece accadrà, sventuratamente, il contrario, se cioè ci si accontenterà di false soluzioni che significhino, all’immediato, "pace" qui ed inferno lì, non ci si lamenti se la resistenza arabo-islamica verrà a colpire qui "alla cieca", mettendo nel proprio mirino indistintamente tutti gli abitanti dell’Occidente. Poiché quello non sarà altro che il prezzo della nostra cecità.

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