Il gendarme dell’Occidente capitalista...

  "In favore dell’Europa costruiremmo là [in Palestina] una parte del vallo per difenderci dall’Asia, costituendo così un avamposto della cultura contro la barbarie."

T. Herzl (il fondatore del movimento sionista) in Lo stato ebraico

 


Può essere libero un popolo 
che ne opprime un altro?


L’ampiezza e la radicalità della lotta di resistenza del popolo palestinese stanno iniziando a determinare all’interno della società israeliana un vero e proprio sconquasso. Un’ondata di paura, d’incertezza del presente e del futuro si diffonde. Mai come ora tra la popolazione ebraica vacilla la possibilità di una vita vissuta in pace. Ed effettivamente è così. Nessun popolo che ne opprime un altro può essere libero e vivere in pace, perché l’oppressione richiama inevitabilmente la lotta degli oppressi. A questa realtà non possono sfuggire gli sfruttati ebrei.

Sappiamo bene come, al momento, una gran parte della gente d’Israele pensi che si potrà uscire da questa situazione colpendo durissimamente il popolo palestinese, arrestando con tutti i mezzi l’Intifadah, "liquidando", insomma, la questione palestinese sul terreno militare. Tutto bene, dunque, per il governo Sharon-Peres e il sionismo? La società è compatta e pacificata, senza nessun problema sul fronte interno? La realtà è un tantino diversa.

Dall’interno della società ebraica d’Israele inizia a muovere i primi passi un movimento di critica alla politica del governo. Non è la stessa cosa del "pacifismo razzista degli anni settanta e ottanta" (come ha scritto la pacifista israeliana Ronit Drovat sul manifesto del 9 aprile) "quelli che sparano e piangono, che prima aderiscono pienamente a tutte le decisioni del governo israeliano e a tutte le azioni militari e poi piangono per le conseguenze". È qualcosa di più e di diverso.

Innanzi tutto perché esprimere la propria fattiva opposizione in questa situazione di guerra, esterna e interna, non è uno scherzo. Non è difficile immaginare il clima in cui vive la società israeliana (basta prendere l’isteria che ha accompagnato i media occidentali dopo l’11 settembre e moltiplicarla per mille!) con la propaganda assordante contro i palestinesi in quanto terroristi e le criminali azioni dell’esercito contro villaggi, donne, bambini, uomini, presentate come "lotta per la sopravvivenza". Ebbene, è proprio in questo clima che si fa avanti un’opposizione reale contro il massacro dei palestinesi!

In secondo luogo, questa opposizione è giunta fino al punto di mettere in atto un vero e proprio disfattismo contro la politica del governo Sharon-Peres. Questo governo non ha potuto nascondere le distruzioni e i massacri ai danni dei palestinesi, ma allo stesso tempo non è riuscito a fermare la loro lotta di resistenza, a realizzare, cioè, la promessa di una definitiva pace. Ciò mette gli stessi ebrei d’Israele (e non solo) di fronte alla domanda: cosa fare per costruire una vera pace? Una risposta sul campo è arrivata da oltre 450 militari della riserva (che vengono ogni anno chiamati a prestare servizio per periodi determinati) che rifiutano di prestare se(r)vizio in Cisgiordania e Gaza. Una risposta a dir poco coraggiosa visto che i refusnik sono sottoposti a una dura compagna propagandistica che li presenta come "traditori e vigliacchi" e condannati al carcere militare. La loro opposizione, per quanto limitata al rifiuto di servire nei territori occupati, è una forma di disfattismo verso il proprio stato. Come altrimenti definire l’atto di chi in guerra si rifiuta di andare a combattere contro il "nemico"?

I vertici dell’esercito e dello stato d’Israele non hanno paura di dover fare a meno di qualche centinaio di militari: temono che i refusnik siano il sintomo di una presa d’atto in corso nel profondo di una società, quella israeliana, educata nel grembo del sionismo e del sacrificio per lo stato di Israele.

Un refusnik ha raccontato: "Per quanto convinto io fossi, e sia ancora, del mio atto di disobbedienza, esso va contro la mia educazione, il mio modo di vita e i miei sentimenti di lealtà … La parte più difficile della mia decisione di dire no è stata la sensazione di tradire i miei amici … Mentre ero in prigione, però, ho tratto una forza enorme dall’appoggio che ho ricevuto…Le manifestazioni davanti alle prigioni, le lettere e i messaggi mi hanno fatto capire che il mio atto non è stato vano". Già, perché per penetrare nelle fila di uno tra gli eserciti più ideologizzati e compatti al mondo, vuol dire che questa contraddizione è maturata davvero in profondità.

Quello con cui tutti gli ebrei iniziano a dover fare i conti è il ruolo e la funzione dello Stato d’Israele. Siamo solo ai preliminari, questo è certo, nondimeno si comincia a dover dire alcune cose di non poco conto. Riportiamo altri passi dell’intervento sul manifesto di R. Dovrat. In risposta alla lettera di Gad Lerner (definito "rappresentante del pacifismo razzista") scrive: "Non devi mai dimenticare di aggiungere, quando nomini l’esercito israeliano, la parola terrorista … Non dire che Tzahal difende il suo popolo. Non sapevo che per difendere bisogna diventare criminali di guerra. Non puoi negare che così può nascere solo il terrorismo… non è la classe media o la borghesia palestinese a fare i kamikaze, ma la gente povera e disperata che non ha nulla da perdere".

È un fatto importante che nella società israeliana più d’uno cominci a ribellarsi e a battersi attivamente contro l’occupazione dei "territori occupati", anche quando i presupposti dai quali si parte rimangano ben all’interno del sionismo e si limitino alla petizione di una "pace più equa". L’indomita resistenza palestinese getta in faccia al popolo israeliano la sua vera realtà di oppressore e le inevitabili conseguenze di ciò: non vi sarà consentito di vivere in pace finché noi non avremo la nostra pace sulla nostra terra! Se volete pace dovete fermare la politica di guerra e di oppressione del vostro stato, e dovete, per questo, dare battaglia, scontrarvi con chi la sostiene e la pratica.

Un settore di ebrei d’Israele (e non), per quanto minoritario, lo ha cominciato a fare ed ha compreso che l’unico modo per ottenere una vera pace è quello di fermare le politiche assassine del governo Sharon. È un primo passo, al quale ne consegue un secondo non meno importante: bisogna ritirarsi dai territori occupati. E un terzo: il ritiro non deve essere solo militare, ma deve anche riguardare lo smantellamento di tutte le colonie costruite nei territori che la risoluzione dell’Onu del ’48 riservava ai palestinesi.

Questi "elementari" passi fatti allo scopo di garantirsi una vera pace comportano la pesante conseguenza di dover contrastare apertamente la politica di colonizzazione e i suoi più feroci sostenitori, i coloni, che in cambio della loro presenza "pionieristica" in terra palestinese ottengono terre e case quasi gratis e finanziamenti continui (anche americani ed europei). Mettere in discussione la politica di colonizzazione non è cosa che si possa fare rimanendo su di un piano "democratico", ma comporta l’apertura, dentro Israele, di una vera e propria guerra civile. Il bivio, dunque, diventa drammatico: se vuoi la pace devi fare la guerra dentro la "tua" stessa società. E che debba essere una vera guerra lo dimostrano, per determinazione politica e militare, le forze che, dal lato dei coloni e di chi li sostiene (la destra estrema, quella "moderata" e gli stessi laburisti che di costruzione di colonie detengono il record) non esitano dinanzi a nulla per affermare la colonizzazione di territori sempre più ampi.

Questo schieramento per ottenere un vasto sostegno ai suoi progetti coloniali strumentalizza senza ritegno l’Olocausto e presenta la difesa delle colonie come inevitabile necessità per preservarsi da un nuovo Olocausto. Esso è, inoltre, sostenuto dal sostegno militare, finanziario e politico di un potente schieramento internazionale: tutte le maggiori potenze occidentali vi partecipano, sia pure a livelli differenziati (molto meno differenziati di quel che appare). Lottare per una "vera pace" comporta la necessità di dover fare, prima o poi, i conti con questa terribile realtà: la mancata soluzione internazionalista del dramma nazionale degli ebrei (dovuta alla sconfitta della Terza Internazionale) e lo sterminio nazista hanno spinto le masse lavoratrici ebree a ricercare un proprio riscatto nazionale concordato con l’imperialismo, e così la loro esigenza è divenuta ostaggio dell’imperialismo occidentale che li ha aiutati a realizzarla in Palestina alla condizione che essi si trasformassero in guerrieri permanenti contro i palestinesi e contro tutti i popoli arabi. Sono anch’essi vittime dell’imperialismo, per quanto vittime affatto particolari, alle quali si finanzia un benessere artificiale purché mettano le loro vite in gioco nell’opprimere altri popoli.

Di conseguenza le istanze nazionali degli ebrei possono trovare una loro realizzazione in Palestina solo se non si contrappongono a quelle palestinesi e arabe. Con quale soluzione? "Due popoli, due stati" o altre soluzioni? Su questo torneremo in altra sede. Per ora basti dire che, sopra ogni cosa, entrambi i popoli sono chiamati a fare i conti con i burattinai "esterni", con l’imperialismo che usa l’uno per opprimere gli altri, che offre una nazione e uno stato agli uni per impedire che gli altri li abbiano, in modo da tenerli sotto oppressione permanente al fine di rapinargli il petrolio e la forza-lavoro.

Una vera pace, dunque, non si può fondare su una "tolleranza reciproca", ma solo su una lotta unitaria. Una vera pace si può realizzare solo se si lavora per una vera fraternizzazione contro l’imperialismo e contro i suoi rappresentanti "interni", a partire dal bastione principale: lo stato d’Israele fondato sull’esclusività ebraica e sull’apartheid anti-araba. Una vera pace si può realizzare solo con un movimento unitario che veda coinvolte le classi israeliane non sfruttatrici e le sterminate masse oppresse arabo-islamiche.


Non sarò complice!

"Un ufficiale ai suoi ordini mi ha inflitto 28 giorni di prigione militare per il mio rifiuto... Io non mi rifiuto di servire solo nei Territori Occupati Palestinesi, io rifiuto di servire nell’esercito israeliano in ogni forma… Questa guerra sporca (dell’esercito israeliano, n.) include esecuzioni extragiudiziali, omicidi di donne e bambini, distruzione di infrastrutture della popolazione palestinese, incendio di terreni agricoli, sradicamento sistematico degli alberi. Voi avete seminato terrore e disperazione, ma non siete riusciti a raggiungere il vostro obiettivo fondamentale: il popolo palestinese non ha rinunciato ai propri sogni di sovranità e indipendenza… Anche gli Israeliani sono vittime in questa guerra, vittime della scellerata ed errata aggressione dell’esercito di cui lei è responsabile... I tanks a Ramallah non hanno potuto fermare la sua più mostruosa creazione: la disperazione che esplode nei caffè. Lei, e gli ufficiali militari ai suoi ordini, avete creato degli esseri umani la cui umanità sparisce nella disperazione e nell’umiliazione. Voi avete creato questa disperazione e voi non potete fermarla… Per questo io non voglio servire nel suo esercito… che non è niente di più che il braccio armato del movimento delle colonie, e che non esiste per dare sicurezza ai cittadini israeliani, esiste per garantire che continui il furto della terra Palestinese. È mio dovere, come Ebreo e come essere umano, rifiutarmi di avere un ruolo in quest’esercito. Come figlio di persone vittime dell’Olocausto, non posso avere un ruolo nella vostra politica insana. Come essere umano è mio dovere non partecipare a qualsiasi istituzione che commette crimini contro l’umanità."

Lettera a Sharon di un militare che ha servito l’esercito per 15 anni, dal manifesto, 7 aprile.