La mobilitazione di Genova ha lasciato il segno in una parte dei giovani: li ha resi un po’ più consapevoli di quello che prima percepivano confusamente, di come questa società sia piegata in ogni suo aspetto alle ragioni del profitto, passi come un rullo compressore su qualsiasi istanza umana le si contrapponga. La sorte di Carlo è stata sentita come la sorte di "uno di noi". E il clima è cambiato in una parte della gioventù. Si è tornati a casa con la voglia di assumersi una nuova responsabilità da portare avanti concretamente nella società, nella vita di tutti i giorni, nella scuola, per costruirsi da oggi quel futuro realmente collettivo e solidale che si desidera.
Le "prove" sono arrivate subito: che atteggiamento assumere sui fatti dell’11 settembre? E sulla guerra? Nelle scuole gli studenti, un numero più ampio di quelli "impegnati", hanno cercato innanzi tutto di capire, con assemblee e dibattiti, durante le autogestioni, scendendo in piazza. A Genova si era detto: "voi otto, noi sei miliardi", e tra questi sei miliardi non ci sono forse le masse sterminate del Sud che non vogliono più subire né piatire elemosine? C’entra qualcosa la globalizzazione con la loro collera? In mezzo a tutto questo è caduto il progetto Moratti di controriforma della scuola. Anche sfruttando il sacrosanto disagio della massa studentesca verso la scuola attuale, il governo punta a fare dell’istituzione scolastica un modello di relazioni sociali ancor più "responsabili"... verso il mercato cui subordinare la vita degli studenti per un più profondo adattamento alla società del denaro del lavoratore e del "cittadino" di domani.
Le mobilitazioni studentesche di questi mesi hanno visto l’intrecciarsi di tutti questi temi. Gli stessi scioperi e manifestazioni contro la Moratti non si sarebbero dati senza il retroterra della partecipazione, anche "ideale", alle giornate di Genova e alle domande che ne sono seguite. In queste pagine vogliamo riprendere -nel nuovo quadro- la discussione sulla condizione e sulle istanze dei giovani, sulle prospettive di una lotta per una società antagonista all’attuale che non può fare a meno del loro contributo essenziale. La prima puntata è sulla scuola. Non tanto sull’analisi in particolare del progetto Moratti, ma su quello che essa può e deve rappresentare come terreno di lotta per proseguire il percorso intrapreso a Genova. La scuola copre un periodo fondamentale della vita in cui si formano, con mille meccanismi anche molto diversi, l’uomo e la donna di questa società. Per questo è un campo importantissimo per chi regge le fila del potere economico e politico: ad una società basata sul denaro deve corrispondere un certo uomo... E quale modo più facile e pervasivo per ottenere ciò del controllo e dell’"educazione" dei giovani che (anche) la scuola permette? Sull’altra sponda è altrettanto vitale, per i giovani che già oggi si pongono nella prospettiva della trasformazione dell’attuale società, porsi il problema: come usare questo momento della nostra vita per finalità diverse e contrapposte a quelle attualmente dominanti?
Il comunismo ha molto da dire su ciò, sulla necessità di una critica radicale della scuola così com’è oggi e di una riappropriazione di un sapere sottratto ai fini del profitto. Sui compiti politici che ne conseguono oggi, di fronte all’attacco del governo Berlusconi agli studenti, che è parte dell’attacco complessivo ai lavoratori, e come tale, uniti, va contrastato. E sulla prospettiva complessiva da contrapporre. Vogliamo rimettere in campo tutto ciò, e farlo in vitale contatto con chi si muove o sente questa esigenza. Per questo invitiamo, non formalmente, chi leggerà queste righe a scriverci, anche per criticarci, a indicare ulteriori temi da affrontare... e a lavorare con noi a tutto questo. C’è molto da fare, e un mondo da conquistare.
Partiamo dal pacchetto Moratti. (1) Che la scuola della Moratti punti a essere una "scuola per ricchi" è l’aspetto che gli studenti hanno colto prima di ogni altro. Quella che si prepara è una scuola in cui le strutture migliori sono riservate nei fatti a chi ha i soldi per pagarsele, ssoprattutto per chi voglia farne l’intero percorso fino all’università. Per la massa rimane la scuola per "sfigati", un’area di parcheggio in attesa di essere buttati su un mercato del lavoro iper-precarizzato e iper-flessibile.
Bene hanno fatto dunque gli studenti a scendere in piazza. Per dare forza e continuità a questa mobilitazione -che oggi sembra segnare il passo- e per raccogliere il profondo disagio che cova tra i giovani, la denuncia della "scuola per ricchi" va però allargata ad ampio raggio e indirizzata dagli effetti alle cause profonde dell’attuale situazione. Governo e imprese, infatti, non vogliono solo tagliare i costi della scuola. Vogliono subordinare ancor più l’educazione alle esigenze del mercato, perché hanno assoluto bisogno di giovani più sottomessi alle regole del gioco, passivi e conformisti, e inoltre più individualisti e reciprocamente competitivi, capaci solo di sgomitare per emergere, disponibili e convinti di sostenere la propria parte in quella guerra di tutti contro tutti che è la sostanza della presente società. Solo così sarà possibile piegarli alle necessità onnivore del mercato e del profitto: domani sui posti di lavoro, dove ogni possibile solidarietà tra lavoratori va rotta in partenza, oggi già sul mercato come consumatori di merci sempre più anti-sociali, nelle relazioni con gli altri improntate all’usa e getta e nei comportamenti verso se stessi (dalla ricerca di innocui, per il sistema, paradisi artificiali fino alla vasta tipologia di gesti autodistruttivi). Solo così sarà possibile convincerli a partecipare alle guerre che la "nostra civiltà" va seminando ai quattro angoli del mondo.
Questo insieme di obiettivi rappresenta il vero fine "educativo" del sistema scolastico già oggi. Ad essi rispondono i metodi e i contenuti dell’insegnamento nella scuola "pubblica di massa". Da un lato un sapere pletorico e spesso vuoto, con programmi compartimentati e calati dall’alto, privo di quella vitalità che è data solo dal riuscire a rispondere ai bisogni e ai problemi reali dei giovani; una massa di informazioni storico-politiche "al di sopra delle parti", buone solo a sottacere o mistificare le cause reali di quanto avviene nella società; una completa separazione tra sapere e fare, tra conoscenza della natura e conoscenza della storia, dove anche le nozioni scientifiche sono slegate da un piano di crescita intellettuale e tecnica integrale e collettiva; in una parola, un sapere cucito a misura di un uomo parcellizzato, non integro, che non potrà mai dare senso compiuto a quanto conosce e produce. (Forse perché, nella società attuale, effettivamente il sapere e la produzione non sono per l’uomo?!) Anche i metodi e la relazione educativa, dall’altro lato, oscillano tra il controllo/selezione e il lassismo, il vezzeggiamento, il relativismo. Il tutto volto a spingere il singolo verso la ricerca ad ogni costo del successo individuale proprio del perfetto "cittadino": docile produttore, sfrenato consumatore.
Chi va a scuola vive quel senso di inutilità e di vuoto, quella tendenza a vegetare secondo la linea del minimo sforzo e, quindi, a ricorrere a illusori riempitivi che rappresentano il marchio indelebile dell’attuale vita lavorativa e sociale. Non a caso il tempo nella scuola è vuoto o comunque è tempo per altri e deciso da altri. Essa deve produrre, in questa società, soggetti pronti a essere fungibili sul mercato e dal mercato (v. riquadro pagina a lato).
La giusta istanza con cui ci si oppone alla scuola-azienda e alla merce-cultura che la Moratti propone può avere effettivo seguito solo se arriva a indirizzarsi contro l’impalcatura complessiva di una scuola e di un sapere funzionali al sistema, riconoscendo che il mercato è già oggi nella scuola, la cultura (e proprio quella "libera") è già oggi una merce. La formazione di un individuo veramente libero, non separato e contrapposto alla collettività, è possibile solo nella battaglia contro le relazioni di mercato, non per l’illusoria conquista di oasi "fuori" di esso, ma per la sua distruzione. La scuola in questa società è scuola di classe. La scuola pubblica non è altro -democratica, laica, "critica", aggiornata o altro che sia. E’ il luogo in cui le diseguaglianze di partenza non solo non sono superate, ma anzi vengono riprodotte e ampliate; dove lo stato tutto fa fuorché improntare il funzionamento delle strutture e del personale a un senso di responsabilità veramente sociale. La destra punta a metter ancor più il sistema scolastico nelle mani del mercato non perché esso non lo sia già, ma perché la misura attuale non è più sufficiente a lor signori.
Farne una critica a tutto campo, dunque, spingendo in avanti la giusta opposizione alla "scuola per ricchi", non è altra cosa dal preparare una battaglia che non è contro storture da raddrizzare, ma contro un tassello di una società che ha al suo centro il denaro e non i bisogni umani (e dunque la formazione di uomini e donne interi).
Ma anche per un’altra ragione non ci si può difendere efficacemente attestandosi sul falso argine della difesa della scuola pubblica, neanche se vista come "meno peggio", da riformare, ecc. Proprio a partire dal disagio e dall’insoddisfazione di ampi strati giovanili iniziano ad avere largo corso sentimenti dettati da una profonda sfiducia verso lo stato come soggetto erogatore di istruzione. Sarebbe sbagliato e controproducente liquidare questi sentimenti, in quanto essi rispondono seppur confusamente e parzialmente alla presa d’atto che la funzione svolta dallo stato anche in questo ambito della vita sociale non va a beneficio di chi vive del proprio lavoro. Certo, anche questo può concorrere a rafforzare l’illusione che il mercato, invece dello stato, sia un criterio migliore cui piegare le strutture, il personale, i contenuti dell’insegnamento. Ma una risposta in avanti a tale questione può essere data solo facendo vedere e rimettendo in discussione i fini "privati" (cioè capitalistici) cui risponde l’attuale sistema dell’istruzione, fini che stanno insieme al controllo statale di esso. Dunque non assolvendo lo stato, o addirittura appellandosi ad esso come garante super partes, ma lottando per un’istruzione sottratta -insieme- al dominio del mercato e dello stato, lottando per il controllo e la riappropriazione della scuola sulla base degli interessi e dei bisogni antagonisti al sistema attuale. E le idee e la forza per attuare ciò ce le può dare solo la prospettiva di una società trasformata alla radice, senza denaro sfruttamento e oppressione che rendono impossibili relazioni (anche educative) veramente umane.
Cosa significa ciò nel concreto? Se controllo e riappropriazione non devono essere vuoti slogan, si tratta per i giovani di portare anche dentro la scuola l’istanza di "formarsi" alla presa di coscienza e alla difesa dei nostri interessi contrapposti al sistema, alla solidarietà e allo schieramento con il mondo degli oppressi, alla conoscenza e alla denuncia degli orrori del capitalismo globalizzato, alla riconquista della memoria delle lotte degli sfruttati. Una formazione che sappia legarsi alla scuola più grande, quella della vita come lotta per la trasformazione alla radice della società, cioè nel suo senso proprio come politica. "Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica" (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa). Dunque una formazione che equivale anche a organizzarsi per portare avanti e diffondere quei frammenti -all’inizio non più di questi, va bene lo stesso- di un nuovo sapere, un sapere di classe in cui lo studio acquisisce senso in quanto legato alla lotta e alla prospettiva di un’altra società.
Sappiamo che tutto questo non si dà a tavolino e tanto meno come sforzo volontaristico individuale. Ma per intanto prendiamo atto che ciò è, nella sostanza, quanto sta emergendo dal nuovo movimento studentesco e giovanile nordamericano, che ha saputo legarsi alla riorganizzazione sindacale degli sfruttati, attraverso le campagne contro le fabbriche del sudore, la corporativization delle scuole (proprio nel paese in cui, per fare un esempio, gli studenti dovranno sorbirsi obbligatoriamente dosi di pubblicità propinate dagli sponsor finanziatori degli istituti), le leggi anti-immigrati (ne abbiamo parlato sul n. 53 del che fare). O nei tentativi "educativi" legati al movimento delle Madres de Plaza de Mayo in Argentina. Dappertutto, dove si dà lotta vera alla globalizzazione, emerge l’esigenza di costruire un nostro (come sfruttati) sapere, nostri centri di cultura, lotta, organizzazione, vita sociale, dunque di legare realmente -contro la demagogia del potere sulla "formazione"- la scuola alla vita. In questo processo nessuno regalerà niente ai giovani, che dovranno conquistarsi tutto col proprio protagonismo, in un rapporto che non potrà non essere conflittuale con i mille tentacoli del potere.
Ambiti di intervento in questo senso nella scuola ce ne sono, eccome! Senza che si debba rinviare l’azione allo sviluppo di un "grande movimento" che al momento non c’è, ma le cui condizioni si preparano, appunto, anche dandosi da fare da subito. I temi li pone la realtà sempre più antagonista della società. Basta pensare a cosa si studia e a come si studia oggi nella scuola. La storia, per iniziare, che potrebbe essere una miniera di conoscenze (non passive) fondamentali per comprendere e intervenire nella realtà e che invece diventa un cumulo di nozioni e/o mistificazioni con "strane" lacune (cosa ci insegnano, ad esempio, sulla storia del Medio Oriente, del petrolio, del colonialismo, ecc.?). Le discipline tecniche: perché e come l’informatica, ad esempio, da mezzo potentissimo per ridurre le "pene" del lavoro, si trasforma nell’opposto e in mezzo sofisticatissimo di guerra? Nello studio della biologia si va forse a scoprire il velo degli enormi interessi economici cui è piegata l’ingegneria genetica? E cosa impariamo a scuola delle tecniche e dei procedimenti di espropriazione usati dalle multinazionali per sottomettere al mercato l’agricoltura mondiale? Cosa ci viene detto su mucca pazza e mais transgenico? E, in geografia, sull’effetto serra e il rapporto con le diseguaglianze di sviluppo tra Nord e Sud? E le lingue: come è possibile che vengano (se pure insegnate) apprese con estrema difficoltà? Forse perchè a scuola nessuno ci insegna a fare della lingua dei dominatori, l’inglese, uno strumento di collegamento utilissimo del fronte internazionale degli oppressi? E la famigerata "educazione civica": si discute di diritti dei lavoratori (e di come venga attaccato il futuro prossimo dei giovani)? E di quelli delle donne, compreso il diritto all’aborto oggi attaccato? O degli immigrati (il razzismo, nella sua variante "democratica", viene dispensato a piene mani nelle scuole: leggersi l’inchiesta di Tabet, La pelle giusta, per farsi un’idea della costruzione sociale degli stereotipi razzisti nei bambini delle elementari)? Quanto ai problemi legati alla sessualità, alla prostituzione, alla droga, alla pedofilia, essi spesso sono trattati in lezioni di "educazione alla salute" (molto seguite dagli studenti): perché allora non svolgerli nel senso di andare alle cause di fondo, radicate in questa società, che riducono le relazioni umane a fenomeni "patologici"?
Rivendicare, e forgiarsi attivamente, un’altra conoscenza richiede anche iniziare a rimettere in dicussione i meccanismi specifici dell’istituzione scolastica, la compartimentazione e l’uso dei tempi, la separazione dall’extra-scuola e altro ancora. Compreso l’atteggiamento verso e degli insegnanti ai quali va posto il problema di quale ruolo svolgono oggi e di quale ruolo potrebbero invece svolgere in un nuovo rapporto educativo, con altri metodi, in un processo di apprendimento (che riguarda anche loro!) orientato alla lotta contro questo sistema e la sua educazione. Questi e ulteriori temi si posero già con il ’68 (di cui riparleremo sui prossimi numeri), seppur in una diversa fase, in vitale rapporto con la più ampia ripresa di protagonismo degli oppressi e degli sfruttati, dentro e fuori l’Occidente. Non diciamo che oggi si approssima una ripresa simile, ma sicuramente la globalizzazione capitalistica sta seminando contraddizioni ad ampio raggio che si tratta di iniziare ad affrontare prima ancora che esse diano luogo, come sarà, ad ampi movimenti.
Per lavorare in questa direzione all’interno della scuola, però, è indispensabile che i giovani che già oggi sentono di dover fare qualcosa si organizzino, quand’anche inizialmente in nuclei ristretti, per raccogliere e unire le forze, per rivolgersi verso la massa ancora passiva, per stringere legami con altre realtà di lotta interne ed esterne alle scuole. Anche esterne, sì, perché la scuola non sta a sé: la sua trasformazione non può darsi separatamente dalla più ampia lotta delle classi oppresse, a cui i giovani devono fin da subito partecipare. Non è in atto, oggi, uno scontro generale tra lavoratori e governo Berlusconi il cui esito peserà sul futuro dei giovani, come studenti e come lavoratori? Non è in corso la "guerra infinita" di Bush&c? E allora è importante entrare in campo in questo scontro e cercare di integrarsi attivamente con le spinte, i bisogni, le lotte dei salariati -che non sono un’altra cosa-, non per accodarsi alle direzioni di "sinistra" che al momento indirizzano i proletari, ma al contrario per portare l’esigenza di un’altra politica, di un vero partito la cui azione sia subordinata non al mercato, ma agli interessi degli sfruttati e degli oppressi del mondo intero.
Una scuola che funzioni?Anche nella scuola dunque si tratta di risalire alle radici del disagio giovanile, portando fino in fondo la giusta percezione del fatto che il sistema scolastico non aiuta ad affrontare, anzi accresce la difficoltà della situazione presente e futura degli studenti. Reazioni che altrimenti -lo abbiamo sotto gli occhi ogni giorno- rischiano di defluire nei rivoli distruttivi del disimpegno, della passività, dell’implosione individuale, o in quelli illusori della richiesta di una scuola che "funzioni" (che è poi l’appiglio utilizzato sia dall’attuale governo che da quello precedente di centro-sinistra per portare avanti le proprie "riforme" scolastiche). Quest’ultima richiesta che parte dal dato inoppugnabile che la scuola così com’è, nella sostanza, fa schifo. L’idea corrente è che essa sia eccessivamente distante dal mondo del lavoro, chiusa su se stessa, con insegnanti antiquati e non all’altezza, con attrezzature inadeguate. In ciò si coglie il fatto di una scuola formalmente di massa e gratuita, in realtà sempre più dequalificata negli insegnamenti e nelle strutture, il che va a ricadere su chi non può permettersi di pagare di tasca propria le competenze che "pesano" sul mercato del lavoro. Ma perché è così e come uscirne (due questioni che stanno insieme)? E’ proprio vero che la scuola non "funziona" oppure il degrado crescente, in tutti gli aspetti, è il modo ad essa connaturato di funzionare in quanto scuola di classe? Sia sul piano delle risorse economiche che, aumentate anche nella scuola sulla spinta delle lotte operaie e sociali dei decenni precedenti, oggi sono in via di riduzione drastica e di razionalizzazione. Sia su quello più specifico della formazione: alla new economy globalizzata serve, in media, un lavoratore con il minimo indispensabile di conoscenze, intercambiabile e flessibile, con tempi di apprendimento (per lo più direttamente in azienda) ridotti all’osso per mansioni parcellizzate e ripetitive. Il che non vale solo più per la massa del lavoro manuale, ma anche per buona parte dei lavori tecnici e impiegatizi. (A parte una minoranza di lavoratori qualificati, il cui sapere specialistico però è sempre più accentrato dal capitale). La radice di ciò non sta primariamente nella scuola, ma nell’organizzazione del lavoro della società capitalistica con la sua divisione del lavoro spinta all’estremo dalla macchinizzazione di processi e procedure e insieme con la tendenza a rendere sempre più vuote e sostituibili le singole mansioni. Su questa base la scuola "di massa" che funziona è esattamente quella che fucina a costi bassi braccia e menti dequalificate (e parcellizzate in partenza), e soprattutto capaci di adattarsi e disciplinarsi, da gettare in gran numero sul mercato del lavoro. (Il che non vuol dire, attenzione, negare che i livelli tecnologici siano fermi, bensì che sono appropriati dal capitale e non dal lavoro, che quindi ne risulta svilito e degradato). È questo l’unico legame fra istruzione (sapere, scienza) e lavoro concepibile in questa società: l’esatto opposto di un’organizzazione economico-sociale liberata dal profitto, il comunismo, dove quel legame servirà al superamento della divisione del lavoro, innanzi tutto di quella tra lavoro manuale e intellettuale, che oggi fa dell’uomo un essere parziale appendice di un meccanismo produttivo che non padroneggia, ma dal quale è padroneggiato. Gli stage in azienda e i percorsi formazione-lavoro di questa come di ogni "riforma" della scuola -atti a fomentare illusorie aspettative, rigorosamente individuali, di miglioramento per chi si darà da fare- non serviranno affatto a migliorare la professionalità, ma solo a ridurre ancor più i tempi di formazione, i costi e quindi il salario del futuro lavoratore. Né favoriranno la lotta alla disoccupazione, che non dipende dalla formazione ma dai meccanismi strutturali dell’economia di mercato. Serviranno, insieme al resto, a far "funzionare" meglio la scuola, esattamente come richiedono i mercati internazionali, le banche, le multinazionali. È contro questo funzionamento -che peggiorerà la condizione dello studente così come sta peggiorando quella del lavoratore, della donna, del migrante- che va indirizzata la battaglia! |
Note
(1) Gli strumenti previsti al momento: tagli dei trasferimenti centrali agli istituti, servizi erogati a pagamento sulla base dell’aziendalizzazione delle scuole (avviata dall’"autonomia" dei governi di centro-sinistra), soldi alle private e buoni-scuola regionalizzati, canalizzazione precoce (a dodici anni) tra formazione professionale e istruzione (entrambe subordinate alle aziende-sponsor), più selezione e disciplina. Ed è solo l’inizio.