30 aprile 1977: per la prima volta 14 donne "ingenue, vecchie e molto addolorate" scendono nella Plaza de Mayo a chiedere ragione della sparizione dei loro figli; la polizia, chiamandole "locas" (pazze), tenta di sloggiarle intimando loro di "camminare". Così, camminando attorno alla piazza, inizia la lunga marcia delle Madres de Plaza de Mayo. Una marcia che partendo dall’esperienza dell’azione diretta e collettiva ("la piazza ci faceva sentire più forti") le porterà all’avanguardia della lotta anticapitalistica in Argentina, le renderà capaci oggi di dare lezioni di coerenza (veri e propri pugni nello stomaco) alle "sinistre" riunite a Porto Alegre. Dopo aver portato solidarietà alle lotte degli sfruttati di tutto il mondo, le porterà, il 20 dicembre 2001, a fronteggiare, ormai ultra-settantenni, la polizia a cavallo nella stessa piazza, in prima linea nella rivolta argentina: letteralmente, non un passo indietro, come recita il titolo del libretto in cui le Madres ci raccontano la loro storia.
Una storia fatta di molti passi avanti, fatti uno per volta, con quotidiano coraggio e coerenza. Scese in piazza per darsi forza, per superare la paura ("in piazza eravamo tutte uguali"), sperimentate le prime forme di resistenza collettiva e di sfida di fronte alla repressione, scontratesi con l’assenza totale di risposte sul destino dei loro figli da parte del potere e degli organismi internazionali, esse si trovano di fronte ad un bivio. Morti i figli desaparecidos, si chiedeva loro, come a ogni madre, di chiudersi nel lutto, di onorare la memoria degli scomparsi, di consegnare la loro tragedia al passato. E di lasciar prosperare gli assassini, sotto qualunque maschera -militare, peronista o democratica- si volessero presentare.
Non è andata così.
A chi chiedeva di accettare la morte senza spiegazioni, le Madres hanno cominciato a chiedere "la ricomparsa in vita". A chi proponeva di ricercare le tombe, esse rispondevano: "nessuna tomba può contenere un rivoluzionario". A chi gettava l’amo della legge del Punto Finale (opera di Alfonsin, il cocco delle social-democrazie europee), le madri hanno risposto:
"Non vogliamo la lista dei morti, vogliamo i nomi degli assassini. Non vogliamo l’oblìo, perché vogliamo che ciò che è avvenuto non si ripeta mai più. Non dimenticheremo, non perdoneremo. A noi non interessa che i desaparecidos siano ricordati e le madri stimate. Vogliamo che i nostri figli siano imitati. "
È un salto di qualità. Persi per sempre i corpi, decidono di battersi per far vivere la ragione di vita dei loro amatissimi figli: la lotta, gli ideali cui hanno sacrificato, in 30.000, la vita. Dall’essere madri di rivoluzionari diventano madri rivoluzionarie. E invece di ricercare i figli in fondo all’oceano o nelle fosse comuni, li ricercano e li trovano in chiunque porti avanti la lotta, in Argentina, in tutto il continente e nel mondo intero: gli operai in sciopero, gli indigeni di cui denunciano il genocidio, e via via allargando il loro raggio di solidarietà e di azione: "I nostri figli tornano ogni volta che uno grida, che uno protesta…"
Le Madres sono state ricevute da tutti, ma da quanti è stata veramente compresa la loro lezione? Non sicuramente da coloro che trovano "commovente" la loro vicenda e che si soffermano sulla tragedia umana che le ha spinte alla lotta. Sono gli stessi che "le capiscono", le compiangono e perciò pensano che la loro "follia" vada tollerata. Che tentano di riproporre in loro lo stereotipo della madre che a tutti i costi si batte per i propri figli (e solo per loro). Che abbracciano le madri e fanno affari e accordi politici con gli assassini. Tutti (o quasi) ricevono le madres, ma -guarda caso- qui in Italia nessuna casa editrice si è fatta avanti a pubblicare il loro libro, frutto di una auto-edizione con il contributo dell’attrice Ottavia Piccolo. Esse devono essere una -possibilmente muta- testimonianza di un lontano passato e del dolore materno.
No, le Madres de Plaza de Mayo sono altra cosa. Sono l’esempio di come qualunque "semplice casalinga" dei quartieri popolari argentini possa, partendo dalle necessità più naturali, più elementari, arrivare a far politica e a comprendere la necessità della lotta a tutto campo contro il capitalismo.
Di come anche da una vicenda "particolare" (nel loro caso, la morte dei figli) si possa arrivare (purché lo si voglia) a decifrare con chiarezza le responsabilità politiche di tutto un sistema: "Noi (il popolo) non li abbiamo capiti, il sindacato li ha segnalati, la sinistra li ha consegnati in mano agli assassini, la Chiesa li ha lasciati soli…"
Di come la lotta non possa essere una fiammata momentanea ma di lungo respiro, al di là della repressione e delle momentanee sconfitte.
Esse sono per noi comunisti la testimonianza vivente di come si potranno formare, sotto la spinta dell’azione distruttrice del capitalismo, le forze destinate a confluire nel crogiuolo di formazione dell’organizzazione politica internazionale degli sfruttati.