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A metà dicembre la corda in Argentina si è spezzata. All’ennesima manovra d’austerità, ennesimo atto di guerra di classe portata dal governo in nome e per conto della finanza internazionale, il popolo argentino si è levato in rivolta. La violenza di classe del proletariato ha colpito la proprietà privata di banche e supermercati, ha attaccato i palazzi delle istituzioni in tutte le principali città del paese. Lo stato d’assedio proclamato dal governo radicale (e "di sinistra") di de la Rua non ha intimorito le masse, che al contrario si sono prese le strade e le piazze, hanno cacciato un paio di presidenti della repubblica, hanno messo in fuga il superministro Cavallo, l’uomo che nel marzo era stato catapultato dal FMI alla guida effettiva del paese nel tentativo di evitare la dichiarazione di insolvenza dell’Argentina, e sono tuttora in campo contro il governo di "salvezza nazionale" del populista Duhalde.
Questa sollevazione è stata presentata e per lo più svilita, dalla sinistra nostrana in particolare, come un evento strettamente argentino, dovuto in prevalenza ad incapacità e corruzione della locale borghesia, nonché come una sorta di effimera jacquerie di ceti medi esasperati e caciaroni (si sono distinti, in questo, alcuni articolisti de "il manifesto"), o comunque come un rabbioso soprassalto di affamati e di descamisados anarcoidi, destinato a non lasciare traccia alcuna né in Argentina, né fuori di essa; un moto a cui guardare con un senso di estraneità, di indifferenza, se non proprio di ostilità, sul quale, comunque -vedi la risoluzione finale di Porto Alegre- è il caso di far cadere il sipario dal momento che si è creato in Argentina un nuovo, e più avanzato, equilibrio politico…
Noi la pensiamo diversamente. Poiché vediamo questa sollevazione come il prodotto di una lunga scia di lotte sindacali e politiche di matrice schiettamente proletaria e popolare; lotte argentine ma non solo, continentali e internazionali, dal momento che la guerra di classe che oggi si combatte in Argentina è parte integrante, sul piano oggettivo -se non altro-, dello scontro di classe mondiale tra il capitale globalizzato e un proletariato altrettanto globalizzato.
Ha detto bene il pubblicista uruguaiano Zibechi quando ha presentato la "plueblada argentina" del 19-20 dicembre come la ripresa e "il culmine delle battaglie sociali iniziate nel 1969-1976 dal ciclo inaugurato con il Cordobazo, frenato di colpo con il genocidio della dittatura militare", un ciclo che si è riaperto con le grandi lotte degli anni ’90 (dal Santiagazo in poi), con la nascita e l’estensione nazionale del movimento dei piqueteros (operai licenziati, disoccupati e precari), con il moltiplicarsi degli scontri di piazza (685 barricate tra il ’93 e il ’99), con l’indizione di 7 scioperi generali negli ultimi 16 mesi ed il largo coinvolgimento della classe operaia, quella di Buenos Aires per prima. Si tratta quindi di un moto proletario (in senso lato, coinvolgente masse proletarizzate, com’è accaduto nel Santiagazo con dipendenti pubblici rimasti per mesi senza salario) al quale una larga sezione di ceti medi pauperizzati si è unita "alla fine", rappresentando, è vero, la benvenuta goccia che ha fatto traboccare un vaso che era, però, già colmo.
L’Italia Imperialista e l’ArgentinaL’Italia è fra i paesi occidentali più coinvolti nella crisi argentina. In "mani italiane" -banche ed investitori istituzionali ma anche una moltitudine di "risparmiatori" privati- è detenuta una buona fetta del debito argentino i cui interessi, regolarmente pagati, hanno gonfiato i "nostri" portafogli in tutti questi anni con rendimenti eccezionali. "Mani italiane" - Fiat, Benetton, Telecom, i gruppi bancari Comit-Banca Intesa, la Banca di Roma, la Bnl per restare ai nomi più noti- si sono posate su ampi settori della produzione e dei servizi argentini e vi hanno tratto lucrosi business. Il capitalismo italiano è pienamente responsabile della spoliazione della struttura produttiva argentina, la borghesia italiana ha le mani sporche del sangue del proletariato argentino, anche attraverso la sua bestiale torchiatura ha potuto comprare in questi anni quel poco o quel tanto di "benessere diffuso" e la tenuta della pace sociale in casa propria. La lotta di classe del proletariato argentino rappresenta perciò una grave minaccia per gli interessi del capitalismo italiano e non soltanto dal punto di vista economico-finanziario. Disinnescare la bomba sociale in America Latina è vitale affinché non esploda anche in Italia. |
Non meno importante, quale retroterra "argentino" dei più recenti avvenimenti, è stato un insieme di battaglie politiche, vera e propria dorsale di una resistenza di classe dal raggio sempre più ampio, tra le quali spiccano quella data da più settori del movimento e da svariate organizzazioni della sinistra contro i precetti strangolatori del FMI e del sistema bancario mondiale e quella data dalle Madres de Plaza de Mayo contro i responsabili dell’eccidio dei desaparecidos. Una battaglia, quest’ultima, che proprio in ragione del coerente perseguimento di questo obiettivo è andata col tempo allargandosi dalla denunzia dei militari alla denunzia della democrazia e dell’intero quadro istituzionale borghese post-dittatura in quanto connivente con il regime dei colonnelli e con i suoi mandanti yankee, ed ha finito con il porsi, nei confronti degli stessi settori proletari e popolari in lotta su obiettivi "economici", come un punto di riferimento e di ispirazione di un’"altra politica", non parlamentare, non truffaldina, non oppressiva verso le masse, una politica con protagonisti in prima persona gli sfruttati e gli oppressi ed una direzione di marcia che, benché non chiaramente definita, non è possibile identificare con una riforma dall’interno dell’attuale sistema.
D’altro canto, solo una singolare miopìa può impedire di vedere come dal settembre 1992 in poi (destituzione del presidente brasiliano de Mello nel mezzo di ampie manifestazioni popolari) in America Latina, dall’Ecuador, dove due presidenti, Bucaram e Mahuad, hanno dovuto dimettersi in seguito a proteste di massa contro provvedimenti dettati dal FMI, al Perù, dove nel novembre 2000 Fujimori dovette fuggire nel mezzo di una sollevazione di massa di milioni di sfruttati, fino al Paraguay, dove la stessa sorte era toccata l’anno precedente al presidente Cubas, la cacciata dei governi dalla piazza, una piazza divenuta sempre più diffidente verso le istituzioni internazionali del capitalismo (e non solo verso i loro locali manutengoli), è diventata una realtà di fatto tutt’altro che circoscritta all’Argentina. Né si può sottovalutare l’influenza che hanno avuto sull’Argentinazo (più o meno alla lontana) il costituirsi del "movimento di Seattle", con il quale a Porto Alegre e prima il movimento argentino ha dovuto, sia pur criticamente, confrontarsi, e la lotta anti-imperialista, tanto per dire, delle masse arabo-islamiche (ricordiamo, in proposito, ancora una volta, la vibrante presa di posizione delle Madres dopo i fatti dell’11 settembre).
Insomma, radici, connessioni e valenze della sollevazione di dicembre sono assai più profondi di quello che le nostrane "sinistre" e le dirigenze della Porto Alegre ufficiale vorrebbero far credere. E se è vero, come è vero, e lo vedremo, che il potere borghese è stato colpito e scosso, ma tutt’altro che affondato, sia in Argentina che -tanto più- internazionalmente; e se è altrettanto vero che in questo movimento ad una enorme capacità di lotta corrisponde tuttora un deficit di programma e di organizzazione di partito in grado di guidarne secondo un piano rivoluzionario i passaggi ulteriori, questa stessa constatazione può essere fatta con due intenti opposti: o quello di far rifluire e disperdere questa lotta sotto l’ombrello di una soluzione "realistica" di compromesso con l’imperialismo (nulla di più irrealistico…), oppure -è così per noi- per spingerla coerentemente in avanti verso gli ulteriori ineludibili passaggi dello scontro con l’imperialismo.
Delle centrali dell’imperialismo, invece, tutto si può dire fuorché abbiano preso sottogamba gli avvenimenti argentini, o che siano stati indotti da essi a più miti consigli, come nei sospiri di un Agnoletto o di un Bertinotti. Al contrario: la determinazione predatoria di "ieri", con l’imposizione di un taglio dei salari del 30% e la drastica decurtazione dei trasferimenti dallo stato alle province, è stata confermata anche dopo il grande scuotimento politico delle ultime settimane. Il debito va pagato, su questo i grandi usurai non transigono, e va pagato in primo luogo con una ulteriore torchiatura a sangue degli sfruttati. In un contesto di recessione e crisi nel cuore stesso del sistema, dal Giappone agli USA, il ruolo dei paesi dominati e dei popoli oppressi dall’Asia all’America Latina non può che essere quello di fornitori di materie prime e di forza lavoro a prezzi stracciati se l’Occidente vuole salvare la sua supremazia e con essa i suoi valori civili e democratici, i suoi consumi, i suoi standard di vita. Non si tratta affatto di una libera scelta, bensì di una necessità determinata. I programmi omicidi (di ieri e di oggi) "per la salvezza dell’Argentina" derivano dalle stesse fosche incombenze oggettive capitalistiche che sospingono l’Occidente alla guerra condotta a scala mondiale per la propria "libertà duratura". Di potenziali Argentine ve ne sono tante nel mondo, alcune a noi assai vicine come i paesi est europei, dalla Romania alla Polonia, i quali continuano tutt’ora a fungere da nuovi Eldorado per la finanza occidentale, a condizione appunto che non si argentinizzino. Si capisce perciò quanto sia vitale per l’ordine capitalistico mondiale evitare che il tracollo di un paese inneschi un processo a catena che conduca al crac generale del sistema.
Così, mentre veniva a saltare il coperchio in Argentina, l’FMI sotto diretta istruzione USA ha provveduto all’ennesimo "aiuto" verso la Turchia -una qualche miliardata di dollari buoni a pagare le immediate scadenze del debito- uno dei paesi più esposti ed in realtà virtualmente in bancarotta (un solo dato eloquente: per fare 1 dollaro ci vuole 1 milione e passa di lire turche!). Da molto prima però era già iniziato un disimpegno di capitali da Buenos Aires, manovra eseguita principalmente dai centri della finanza statunitensi (1). Oggi, a babbo morto, veniamo informati che in agosto nei locali della New York University veniva addirittura fatta una prova generale, veniva cioè simulata l’insolvenza del paese e le sue possibili conseguenze ad opera "di un gruppo di banchieri d’affari, avvocati, rappresentanti del governo argentino ed investitori" (2).
Avendo preso per tempo se non addirittura programmato il precipitare della crisi ed avendo "dato tempo agli investitori di alleggerire i portafogli", dopo aver abbondantemente alleggerito i portafogli degli argentini lasciati al verde, i signori della comunità finanziaria spargono ora rassicurazioni a piene mani; nonostante tutto, dicono, la situazione è sotto controllo, e la danza macabra dei capitali può continuare. Dove sono andati a posarsi i capitali/cavallette in fuga da Buenos Aires? Guarda caso proprio in primo luogo in paesi come il Brasile, la Colombia, il Messico, ad evitare che un continente intero per riflesso immediato sia travolto ed esploda, oltreché, ci informano, verso "i gettonatissimi paesi dell’Est Europa".
La manovra di sganciamento, di isolamento dell’infezione argentina parrebbe riuscita perlomeno nell’immediato periodo. Vero che, come da notizie prontamente occultate, altri paesi "emergenti" (!) si segnalano inopinatamente a rischio – con un salto passiamo al continente africano ed il paese è nientemeno che il Sudafrica dove in pochi mesi la valuta locale ha perso l’80% del suo valore sul dollaro, mentre l’Egitto appare sull’orlo della dichiarazione di bancarotta–, tuttavia nessun crollo a catena si è verificato, il sistema nel suo complesso parrebbe reggere l’urto del buco argentino.
Ma ammesso pure che la bancarotta argentina non contagi a breve termine l’intero sistema finanziario mondiale, a restare sul terreno toccati pesantemente da quella falla e dalla operazione messa in atto per arginarla, una operazione che per certi versi ha i tratti del "pacco" tirato dal più volgare magliaro di borgata, sono nel campo dei detentori di capitale perlomeno tre soggetti. Ad essere restati nell’immediato col cerino in mano è una parte di interessi capitalistici, gruppi bancari e multinazionali, quelli facenti capo agli imperialisti europei segnatamente; è la massa davvero cospicua dei "risparmiatori" privati occidentali i quali sono i veri colpiti dalla dichiarazione d’insolvenza e dalla moratoria sul debito argentino che per il momento non coinvolge il debito verso l’FMI ed altre istituzioni internazionali (3); è quella fascia di piccola e media borghesia argentine che negli ultimi mesi non è riuscita a portar fuori dal paese i suoi denari quando ancora il peso si cambiava alla pari col dollaro e che oggi si scopre turlupinata, con un piede ben dentro alla condizione di senza riserve e che batte imbestialita le pentole nei cacerolazos.
Tutta questa serie di colpi subiti a diversi livelli nel campo dei possessori di capitale non mancherà, conseguenze sociali a parte, di scaricarsi ben presto sulla tenuta già precaria dell’intero sistema finanziario mondiale.
Scansato forse, in realtà solo rimandato, il pericolo d’un crollo finanziario a catena, vi è un secondo genere di contagio letale per l’imperialismo: quello sociale, incarnato da un movimento di lotta delle masse argentine cresciuto in buona misura fuori e contro le ultrascreditate istituzioni ufficiali. Quale spettacolo orribile per la cupola della borghesia mondiale vedere le masse prendersi le piazze ed attraverso l’uso della forza di classe riuscire a cacciare presidenti e governi, e quale scenario per essa pauroso se il contagio della lotta di classe dilagasse, come esempio da seguire, fra milioni e milioni di oppressi che in America Latina e fuori da essa versano in condizioni analoghe, tenuti alla medesima catena del proletariato argentino.
A questo proposito un monito per tutti, valido cioè per tutta l’umanità degli oppressi è venuto dai generali turchi, autentica guardia pretoriana dell’imperialismo: "Toglietevelo dalla testa, non permetteremo in alcun modo che da noi si ripeta il caso argentino"!
L’azione degli uomini d’affari e dei banchieri ha sempre più bisogno, in maniera esplicita, del complementare ringhio dei generali. Il mondo si fa davvero stretto per starci insieme padroni e schiavi, le catene si serrano ancor di più sul corpo di questi, l’oppressione diventa intollerabile…
Quasi vent’anni fa uno scrittore argentino, Jacob Timmerman, diceva: "ci manca solo che i tori diventino omosessuali, poi è la rovina totale". Ebbene ci siamo arrivati: l’infernale meccanismo del turbocapitalismo ha portato come in un sortilegio un paese dalle grandi risorse naturali, grande esportatore di carne e di grano ad essere preda di una serie a catena di emergenze, da quella sanitaria a quella alimentare.
La vera emergenza, la vera priorità in assoluto cui il nuovo governo (e qualsiasi altro governo borghese dovesse subentrare) di unità nazionale, composto da personaggi dalla oscura fedina penale e morale, è chiamato a far fronte è quella di arginare, di contenere il movimento di lotta, di riaffermare le regole dell’ordine e della legalità borghesi, di scacciare via l’incubo "dell’anarchia", vale a dire l’incubo che il proletariato argentino sospinto alla mobilitazione cominci a pensare di prendere nelle proprie mani la gestione della cosa pubblica, lanciando la sua alternativa rivoluzionaria di potere.
A tal fine persino una simile compagine governativa arriva ad alzare la voce, o a fare la finta di alzare la voce, contro i poteri forti mondiali e l’FMI da cui si pretenderebbe di "non accettare più lezioni", ma dal cui sostegno, con relative condizioni, dipende interamente. Una svergognata e losca borghesia si profonde a toccare corde molto sensibili nell’animo del popolo argentino, quelle del sentimento patriottico, della dignità nazionale che si affetta di voler riconquistare (non si dimentichi che la sola bandiera massicciamente presente nell’Argentinazo era quella nazionale). I necessari sacrifici cui "tutti" sono inevitabilmente chiamati dovrebbero essere accettati come sforzo comune per una pretesa "ricostruzione nazionale".
Sono bastate qualche aleatoria dichiarazione d’intenti per la difesa ed il ripristino della struttura produttiva nazionale, qualche pallida accentuazione alle necessità sociali cui provvedere, tutto ciò tradotto nei primi provvedimenti d’emergenza varati, affinché al nuovo governo che non ha minimamente l’intenzione, la forza e, se vogliamo, neanche la "statura morale" e la dignità borghesi per lanciare nessunissima sfida all’imperialismo in nome della rivendicazione dell’indipendenza nazionale, arrivino, insieme al saluto ed al sostegno di Cuba e del Venezuela di Chavez, i fulmini dal Nordamerica da dove già si addita "il pericolo populista" e qualcuno vede riaffacciarsi persino dietro la figura di un Duhalde l’ombra di un Allende.
Per parte loro anche le gerarchie della Chiesa Cattolica hanno gettato tutto il loro peso nel vitale compito di difesa dell’ordine costituito: "La guerra che dobbiamo intraprendere non è del fratello contro il fratello ma contro tutto ciò che è destabilizzazione e contro tutto ciò che può essere anarchia". Così il presidente della Caritas argentina Jorge Casaretto, e questo è il messaggio dell’alto clero, detto in maniera ecumenica ma chiara, a significare che vi sono guerre e guerre, e quelle contro il pericolo della sovversione sono, dalla Chiesa, sempre benedette. La gerarchia cattolica svolge oggi la sua missione "patriottica", come la svolse egregiamente negli anni ‘70 quando coprì i massacri perpetrati dalle giunte militari. Certo allora le decine di migliaia di militanti sindacali e politici e di semplici proletari assassinati non erano considerati "fratelli", bensì dei cani da abbattere...
La vuota retorica patriottarda gettata come un osso spolpato alle masse affamate non basterà comunque, è certo, a placarne la collera. Così il nuovo governo, mentre si guarda bene dal mettere in discussione la questione centrale del pagamento del debito estero (solo per una parte delle più immediate scadenze è stata chiesta una moratoria dando inizio ad una ricontrattazione con i creditori), ha impostato una manovra che ha portato alla rottura della parità valutaria col dollaro ed alla dichiarazione di insolvenza, dovendo però in una qualche misura rispondere concretamente alla pressione delle piazze.
Se da un lato la brutale svalutazione si scaricherà inevitabilmente sulla condizione già assai precaria dei salariati ed il blocco dei depositi bancari non può essere rimosso dato che le casseforti sono state svuotate dai ladroni in guanti bianchi della "comunità finanziaria", dall’altro s’è dovuto imporre alle multinazionali che si sono impossessate della rete dei servizi un blocco delle tariffe (ma, fino a quando potrà durare?) ed insieme s’è dovuto riconoscere una serie di sostegni sociali soprattutto verso la marea dei disoccupati. Più ancora, il meccanismo approntato per la "pesificazione" dei crediti bancari che vorrebbe tutelare le piccole imprese e le famiglie, viene a generare perdite formidabili nei bilanci delle banche, la maggioranza delle quali, ancora una volta, in mano ai gruppi finanziari occidentali, gruppi italiani ben compresi ed in prima fila (4). Qui si apre un contenzioso, per ora non dichiarato esplicitamente, che può rivelarsi esplosivo per la tenuta del governo e c’è chi indica proprio in questi ambienti finanziari l’origine delle torbide manovre che dietro la figura dell’ex presidente Menem, appartenente allo stesso movimento peronista di Duhalde, sono messe in atto nel paese a seminare ulteriore confusione e ad aggiungere crisi a crisi. Costretti dalla furia popolare che giustamente li individua come strozzini, gli squali delle banche e della finanza devono provvisoriamente incassare il colpo, ma è certo che non potranno lasciare passare in cavalleria perdite ingenti di quantità di capitali, una svalorizzazione che sarebbe un’ulteriore picconata ai circuiti finanziari mondiali, senza approntare una adeguata reazione.
Riassumendo: la situazione è tale che il governo borghese (quello attuale, ma anche un eventuale ben possibile suo ricambio) votato alla difesa dell’ordine interno e degli interessi generali dell’imperialismo minacciati dalla sollevazione di massa, deve cedere qualcosa di concreto alle piazze, unica strada per prendere tempo e poi passare al loro schiacciamento, una volta calmata la buriana sociale. Ma, per dar corso a un tale disegno, esso è costretto all’immediato a colpire anche gli interessi di una parte del mondo del capitale.
Una specie di corto circuito, insomma, lo scioglimento del quale ammette un solo esito stringente: o il proletariato sarà capace di aprirsi la strada, in Argentina e mondialmente, verso la conquista rivoluzionaria del potere, o la reazione capitalista-imperialista passerà come un rullo compressore sul suo corpo, travolgendone, nel sangue, ogni resistenza.
L’imperialismo ha in mano le chiavi di questo governo; può benissimo decidere di sostituirlo con una compagine politica borghese "di rinnovamento" più presentabile agli occhi delle masse. In ogni caso la condizione profonda cui il potere argentino deve rispondere per ottenere i sostegni necessari è che esso si adoperi con ogni mezzo a dividere i fronti di lotta aperti nel paese, a contrastare come la peste il processo di organizzazione unitaria degli sfruttati, anzi a manovrare per scagliare i settori sociali colpiti gli uni contro gli altri, un tentativo già esperito da Duhalde il 1° gennaio a Buenos Aires con la mobilitazione di fasce di sottoproletariato contro le avanguardie di lotta e la sinistra di orientamento "trotzkista" (tentativo, al momento, fallito). Il mandato delle cancellerie occidentali, in prima fila quella di Roma, ai propri sottoposti argentini è che si creino in qualche modo condizioni tali da assicurare alla reazione aperta un consenso, un appoggio sociale, che cresca una "domanda d’ordine" che permetta alla stessa di venire alla luce e di passare all’azione. In assenza di ciò, la scesa in campo delle forze armate come pura e semplice guardia pretoriana non sarebbe affatto risolutiva, anzi sarebbe alto il rischio di una loro sconfitta, esito rovinoso per la borghesia argentina e per i suoi padrini imperialisti occidentali.
Tuttavia non ci si faccia alcunissima illusione sull’attuale, apparente, estraneità delle forze armate dalla guerra di classe in corso. L’incedere della crisi argentina, i richiami all’ordine sempre più minacciosi rivolti verso l’insubordinato Chavez in Venezuela, la fine della tregua con la guerriglia colombiana, il moltiplicarsi delle rivolte indie e campesine dall’Ecuador alla Bolivia, tutto sta ad indicare che l’enduring freedom dell’imperialismo si avvia a proiettare la sua ombra sinistra ed assassina sull’intero continente latino-americano. Il vigore con cui le masse argentine stanno affrontando la guerra di classe ci indica che gli oppressi dell’America Latina non si faranno intimorire dalle manovre, dai bombardieri, dal terrorismo imperialisti. Che questa energia, capace di cacciare governi e di tenere testa alle imposizioni dei mercati, si trasmetta come una scarica vitale sul proletariato e sul movimento di classe delle metropoli, poiché è del suo stesso destino che si decide in Argentina!
(1) Il Sole/24 ore, 5.12.2001. Un’indagine della Morgan su un maxicampione di investitori mondiali "detentori di 133 miliardi di dollari di debito dei paesi emergenti" segnala che "appare evidente la fuga da Buenos Aires, su 147 risposte ben 81 indicano un alleggerimento anche marcato del portafoglio".
(2) Milano Finanza del 12.1.2002.
(3) Solo in Italia si contano circa 200 mila privati risparmiatori toccati sul vivo dall’insolvenza argentina. Una parte di questa massa, la quale ha avuto sinora la sua parte come sanguisuga sul corpo della classe lavoratrice argentina, è costituita anche da lavoratori salariati il cui piccolo risparmio, certamente sotto indirizzo del sistema bancario, è stato dirottato verso gli alti rendimenti "assicurati" dai paesi emergenti. Due considerazioni: nelle metropoli imperialiste anche uno strato di salariati può partecipare, in quanto risparmiatore/investitore, al banchetto sulle spalle delle masse depredate delle periferie; quando però questa manna viene a cessare, viene anche a mancare, data l’entità del fenomeno, un fattore oggettivo sul quale si regge la pace sociale, il livello dei consumi qui, dentro la metropoli.
(4) Il Sole/24 ore, 10.1.2002. "La pesificazione dei crediti bancari fino a 100 mila dollari ha risolto il problema per il 96% dei debitori del sistema finanziario principalmente famiglie e piccole imprese. Ma il rimanente 4% rappresenta il 75% dei crediti totali concessi dalle banche alle imprese medie e grandi."