Speciale Genova |
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Gli avvenimenti internazionali non ci permettono di svolgere in questo numero una riflessione più circostanziata sul tema della globalizzazione e della risposta proletaria contro di essa. Lo faremo quanto prima entrando nel merito delle soluzioni (o non soluzioni) proposte dal movimento che si è espresso a Genova. Per intanto affrontiamo il tema del movimento anti-globalizzazione: il suo essere espressione dello scontro tra capitale e lavoro a scala internazionale e, più in generale, tra capitalismo e socialismo; le sue radici che affondano nella ripresa del protagonismo delle masse sfruttate dall’Asia al Nord-America; il suo carattere proletario rafforzato dall’affacciarsi di nuove generazioni alla lotta. Un chiarimento tanto più necessario oggi che esso è chiamato a rispondere all’incalzare delle nuove aggressioni contro le masse sfruttate arabo-islamiche e a rilanciare la generale mobilitazione contro un capitalismo globalizzato che oltre a lacrime e fame sparge sangue ovunque.
Nulla nasce dal nulla, e anche il movimento anti-global in Italia (e in Europa) non si sottrae a questa legge. Come si è costituito, da dove sono apparsi questi giovani, questi proletari, e la loro volontà di battersi? La prima considerazione da fare per capire le radici e le prospettive di questo movimento è che l’affacciarsi alla politica di una nuova generazione è innanzi tutto l’espressione delle accresciute contraddizioni capitalistiche che, anche nelle metropoli, si manifestano oggi in maggiore profondità e su tutto l’insieme della vita sociale. È il segno di un antagonismo crescente che matura nelle pieghe nascoste della società per emergere "improvvisamente" nelle forme più "inaspettate". Con esso emergono (sempre meno nascoste!) le tematiche di "liberazione generale" dalla schiavitù di questa forma di capitalismo che sono, nella loro sostanza intima, connesse alla causa di una liberazione vera dal capitalismo tout court. Una conferma sul campo che l’antagonismo socialismo-capitalismo (qualcosa di più di quello proletariato-borghesia) non si è mai fermato. La vecchia talpa della rivoluzione ha continuato a scavare imperterrita, nonostante all’apparenza tutto sembrasse fermo e il bisogno di comunismo estinto, nonostante, tuttora, esso sia visto come qualcosa d’improponibile dalla stessa massa che partecipa alla lotta.
In questi anni non ci siamo mai stancati di evidenziare come l’acuirsi di tutte le contraddizioni capitalistiche era ciò che stava dietro la ripresa di lotte nel Sud del mondo, dall’area arabo-islamica all’America Latina, all’Africa, fino a toccare l’Asia e zone non propriamente periferiche rispetto all’Occidente come la Corea del Sud o l’Est Europa. Abbiamo cercato di cogliere questi segnali, e più che segnali, salutandoli dove e come si davano per riconnetterli alla necessità di ripresa dell’antagonismo proletario anche in Occidente. I due "campi" non sono affatto separati come può sembrare ad uno sguardo superficiale. Anzi, come lo stesso darsi delle lotte nel Sud del mondo e in Asia è strettamente legato al meccanismo unitario del capitalismo globalizzato, così l’appoggio ad esse è una condizione essenziale per ridare fiato al protagonismo proletario qui nelle metropoli.
Una prima conferma di questa dinamica la si è avuta negli ultimi anni proprio in Nord America, nel cuore dell’imperialismo, con la rinata iniziativa sindacale e politica di un proletariato giovane, multirazziale, spesso immigrato e femminile, in un interessante intreccio con settori operai bianchi in via di precarizzazione, da un lato, e l’emergere di una nuova classe operaia ai confini messicani, dall’altro, con la sua esigenza di organizzazione. Il movimento di Seattle, che sarebbe inconcepibile senza questo retroterra, ha visto scendere fisicamente in campo questo proletariato che ha rafforzato, e non affievolito, tutte le ragioni della lotta, anche quelle non direttamente legate alla condizione operaia immediata.
Genova ne è un’ulteriore conferma. In questo senso non è un fatto "italiano", non nasce oggi né oggi si esaurisce (al di là degli esiti immediati), ma rappresenta l’arrivo anche in Italia e in Europa di quell’ondata di lotte contro la globalizzazione che caratterizza da almeno dieci anni la ripresa dell’antagonismo proletario nel Nord America, in Asia e, in fondo, in tutto il Sud del mondo, sul versante sindacale come su temi più generali quali la condizione della donna, l’ambiente, la questione contadina, ecc. Per questo il movimento anti-global, prima ancora delle sue intenzioni e dei suoi programmi, si dà come movimento internazionale perché internazionale ne è la base oggettiva, ossia l’intreccio a scala mondiale delle sorti e delle lotte delle masse oppresse. Per questo, inoltre, ha un carattere globale per l’ampio spettro delle tematiche affrontate. Carattere mondiale e globalità sono i due aspetti caratterizzanti di questo nuovo ciclo di lotte, che si pone -oggettivamente e dunque, in potenza, anche soggettivamente- oltre i precedenti momenti di ripresa della conflittualità sociale nelle metropoli imperialiste degli anni ’60 e ’70.
Se è quest’insieme di fattori che ha reso possibile la formazione di un movimento a scala internazionale -che non si autoconcepisce cioè come somma di tante diverse lotte nazionali- in ciò è il riflesso dell’ulteriore centralizzazione capitalistica che lega sempre più strettamente le sorti globali del proletariato e degli oppressi del primo, secondo e terzo mondo. Una grande potenzialità che fa della globalizzazione della lotta e dell’organizzazione di classe non una petizione ideologica ma una necessità di fronte alla centralizzazione del capitalismo globalizzato.
Nel considerare l’attuale movimento (assai complesso e contraddittorio, come si conviene alla cosa) noi guardiamo al di là degli esiti immediati che, di per sé, ripropongono tutte le illusioni su di una (im)possibile riforma del sistema, una "globalizzazione dal volto umano". Guardiamo al suo significato profondo, alla sua spinta non contingente alla lotta, che è destinata a svilupparsi e precisarsi, ad andare oltre, perché l’antagonismo proletario cresce col crescere delle contraddizioni del sistema. Per intanto prendiamo nota di altre, suggestive conferme della nostra diagnosi.
Ciò che di caratteristico, positivamente, traspare dalla dinamica del movimento anti-globalizzazione è innanzi tutto che vi entrano dentro nuove generazioni prive di tradizioni politiche, spinte dalla volontà/necessità di agire in una società che così com’è non va bene. È questo un dato decisivo perché porta sulla scena generazioni meno "inquinate" dal legame con le organizzazioni riformiste tradizionali e col precedente ciclo controrivoluzionario, e proprio per questo disposte a lottare sul serio, senza i "vizi" che in negativo questi legami comportano. Questo elemento positivo, chiaramente, non elimina immediatamente la riproposizione per via spontanea di "nuove tradizioni" neo-riformiste (quand’anche combattive); ma queste saranno a date condizioni più facilmente superabili proprio a misura che nel movimento è meno forte il peso delle vecchie tradizioni del movimento operaio con il suo parlamentarismo, con la sua oramai profonda interiorizzazione delle regole del sistema.
Inoltre questa massa è insofferente a "deleghe", da dare in proprio o su suggerimento "esterno". Anche sotto questo aspetto, all’immediato, abbiamo una sottovalutazione della necessità di dotarsi di un programma e di un’organizzazione centralizzata, capace di unificare i vari "pezzi" e temi del movimento, e anche una certa ritrosia nei confronti di posizioni già "organizzate". Alla distanza, però, ciò non prelude ad una sorta di neo-anarchismo, ma piuttosto ubbidisce all’esigenza di esserci in prima persona, "autoresponsabilmente", nella lotta. È già questa una significativa risposta ad un potere sistematicamente organizzato per ostacolare una reale partecipazione politica. Una risposta che, al tempo stesso, prefigura la necessaria "autoattivizzazione" delle masse, indispensabile per farla finita davvero con questo sistema.
Di conseguenza, il rapporto che la massa dei militanti intrattiene con i "capi" occasionali è profondamente mutato, non essendo più improntato a pedissequa fiducia verso le indicazioni che vengono dall’alto. Il che non corrisponde di per sè a mancanza di disciplina, ma rappresenta piuttosto la ricerca confusa di una linea adeguata alle necessità della battaglia per la quale si è disposti ad "autodisciplinarsi" anche coi più grandi sacrifici, senza bisogno di grandi nomi e di "capi". Ne abbiamo avuto una riprova nelle giornate di Genova. Lo spessore dei "portavoce" del GSF lo si è ben visto dopo i fatti di venerdì 20 luglio, quando di fronte all’assassinio del giovane compagno Carlo Giuliani, con il movimento che cercava di chiarirsi e definire come affrontare la "nuova" situazione, essi sono semplicemente scomparsi dalla circolazione senza essere nemmeno in grado di presenziare all’assemblea di piazzale Kennedy. Ma -istruttivo!- la massa non ha aspettatoche la "direzione" (quanto mai titubante, fino alla ventilata ipotesi di sospendere la manifestazione del sabato) si esprimesse, è andata avanti senza bisogno di indicazioni dall’alto.
A Genova, come già a Seattle, la composizione in prevalenza proletaria del movimento anti-global è emersa nettissima (a chi la sa e vuole vedere). È un dato "sociologico" con un importantissimo risvolto politico, in prospettiva, se è vero -come è vero- che la condizione proletaria racchiude in sè l’oppressione dell’intera umanità, cui può dare una prospettiva di organizzazione, centralizzazione e soluzione.
Anche solo rimanendo allo "specifico Italia", è indubbio che gli scioperi e le manifestazioni dei metalmeccanici a ridosso di luglio (ma già prima si era assistito a prime risposte di lotta contro la crescente precarietà, per esempio da parte dei lavoratori McDonald’s o Esselunga) hanno favorito la straordinaria partecipazione proletaria a Genova. Non ci riferiamo semplicemente agli operai venuti con Fiom e Cobas, ma alla presenza di una classe operaia giovane, non organizzata dal sindacato, scesa in piazza più come "giovani anti-global" che come "lavoratori". Se questo, per un verso, è l’espressione di una certa difficoltà a percepirsi come classe distinta, stante il diverso e più flebile legame con le organizzazioni tradizionali, è però anche il segno di un potenziale di lotta più ampio in cui il proletariato dovrà prendere posizione su tutto l’insieme delle questioni in campo. Di più, la composizione della stessa massa giovanile è più proletaria che in passato, stante i processi di precarizzazione in atto. Un confronto con il ’68 può rendere l’idea: allora la figura operaia e quella studentesca erano tra di loro lontane e molto più demarcate di quanto non sia oggi con l’arresto della prospettiva di ascesa sociale per gli studenti e la rimessa in discussione delle "protezioni" acquisite sul versante operaio. La precarietà diviene il segno comune, a scala addirittura internazionale, e ciò rafforza le spinte unitarie.
Anche sulla nozione di proletariato, poi, bisognerebbe fare chiarezza. Noi non siamo di quelli che parlano di una generale "comunità umana" in termini che fanno smarrire la nozione concreta del proletariato quale chiave di volta materiale dell’emancipazione generale. Ma annotiamo –d’accordo con Marx- che il capitalismo "proletarizza" progressivamente settori sempre più estesi della società, cioè riproduce a livelli via via più larghi l’antagonismo potenziale tra alienazione e liberazione. (Non è forse il caso di ampi settori del lavoro intellettuale?). Il termine "proletariato" oggi va inteso in senso più vasto di quello di classico "movimento operaio" che, in passato, lo riassumeva. Con questo non viene cancellata la differenza tra centro motore del processo produttivo (di cose e uomini) e la più vasta raggiera proletaria che ne dipende e vi si riconnette. Ma è indubbio che interi settori non omologabili sociologicamente al proletariato classico, sono investiti dal generale processo di perdita di autonomia rispetto al capitale e, con ciò, risospinti verso il polo proletario da cui solo possono sperare una reale emancipazione. Tipici, in questo senso, molti colletti bianchi USA, o molti piccoli "imprenditori privati" (anche da noi) in realtà dipendenti con un tasso di "libera imprenditorialità" largamente proletarizzata. In questo senso Marx parla di una sempre più marcata divisione della società tra borghesi e proletari e la sua visione, veramente profonda e anticipatrice, non soffre della "smentita" concretista della riduzione percentuale e in massa del proletariato (… nelle metropoli). Da tutto ciò, appunto, non deriva la fine o l’attenuazione dei compiti e delle potenzialità rivoluzionarie del proletariato, tutt’altro!
Solo che è necessario trarne le corrette implicazioni. Una forma sbagliata di impostare la questione è quella di chi parla di "contaminazione" proletariato-"altri" movimenti. Non si tratta di questo. Si contaminano tra di loro solo cose disomogenee per sommatoria e "contrattazione". La prospettiva comunista non ha bisogno di simili innovazioni, ma di ritornare a quel che il proletariato ha perso nel tempo: la capacità di prospettare una liberazione globale e per tutti gli sfruttati e gli oppressi, per tutta l’umanità; di riassumere unitariamente tutte le varie spinte che si contrappongono a determinati effetti del capitalismo per riandare alla causa fondante di essi. Specie laddove il movimento di classe aveva dietro di sé una lunga tradizione politica e organizzativa (come nella Germania del primo dopoguerra), esso si dirigeva realmente, nel senso leninista, a tutti gli strati della popolazione e si occupava di tutti i problemi sgorganti dall’antagonismo di classe -donna, salute, sessualità, ambiente, etc.- in una visione e con una soluzione unitaria.
Il problema vero, allora, è di lavorare ad una prospettiva e ad un’organizzazione che assumano nella loro interezza tutti i temi sul tappeto posti da tutte le classi oppresse, sapendo ricondurne gli aspetti "specifici" alla lotta unitaria contro il meccanismo altrettanto unitario e centralizzato del capitale mondializzato. Una lotta a fondo contro la globalizzazione capitalistica deve per questo richiamare la necessità di fondere le forze, di centralizzarle perché il nemico non consente battaglie parziali; deve, quindi, veder scendere in campo il proletariato come spina dorsale di questo movimento. La vertenza metalmeccanici e l’attacco che il governo Berlusconi prepara devono rappresentare un’occasione in questo senso.
La centralizzazione delle forze intorno ad un proletariato finalmente tornato protagonista della battaglia anticapitalista, non è un’esigenza esterna, ideologica, ma il portato della consistenza dell’avversario che è sì articolato, ma organizzato unitariamente come un sol blocco. Se si vuole andare fino in fondo, bisogna mettere in campo una sola forza, un solo programma, una sola organizzazione, che sia sintesi dei vari programmi di resistenza alla globalizzazione e li renda effettivamente attuabili. È l’unità degli sfruttati, infatti, la leva non solo per svellere il meccanismo del debito, le guerre, la repressione, ma anche per instaurare un governo mondiale delle condizioni di esistenza dell’umanità, una vera cooperazione globale da conquistare con la distruzione dell’attuale potere globale capitalistico.