L’islamismo radicale proclama la guerra santa contro l’Occidente. Ma è in grado di organizzarla per davvero e di condurla alla vittoria? La nostra risposta è no. Non perché violento contro l’Occidente. Bensì perché incapace di organizzare quella mobilitazione unitaria di tutte le energie oppresse del mondo islamico e del resto del Sud del mondo che una tale battaglia richiede. Perché non vede e non vuole tagliare le radici della dominazione imperialista. Perché -al fondo- contrapposto all’unica prospettiva, quella comunista, realmente in grado di fare l’una e l’altra cosa.
Cos’è mancato all’anti-imperialismo dei Khomeini e cosa manca a quello dei bin Laden? Innanzitutto la capacità di andare al cuore del problema. E cioè di individuare le cause strutturali da cui si originano gli interventi economici, diplomatici e militari con cui l’Occidente ha conquistato e cerca di tenere in pugno il mondo islamico.
L’islamismo radicale li attribuisce alle manie di prepotenza delle lobbies che governano gli Stati Uniti. Non li lega alla struttura capitalistica in cui sono immersi sia gli Usa che l’Europa, e il mondo intero. Più o meno consapevolmente, crede sia possibile togliere di mezzo la dominazione dell’Occidente sul mondo islamico, e sulle altre periferie, senza togliere di mezzo il capitalismo. Con quell’equa redistribuzione internazionale della ricchezza mondiale che tutta la vicenda della rivoluzione anti-coloniale ha mostrato essere impossibile entro le relazioni economiche capitalistiche dell’epoca contemporanea. La liberazione dall’imperialismo richiede invece che venga attaccata la struttura dell’economia capitalistica. Può piacere o meno, ma le cose stanno così.
Poiché le classi dirigenti dei paesi arabi e islamici si alimentano anch’esse, pur se da parenti poveri, con la linfa estratta dall’albero del lavoro salariato islamico e mondiale, esse si guardano bene dall’andare fino in fondo nella battaglia contro i rapporti di dominazione e di disuguaglianza esistenti nelle relazioni internazionali tra Occidente e mondo islamico. Soffrono per il dominio monopolistico delle borghesie occidentali e sono da ciò sospinte a più o meno audaci gesti di ribellione contro di esse, ma soffrirebbero ancor più per una jihad in grado di risalire, nello scontro, dalle manifestazione parossistiche dell’imperialismo alle radici ultime di esso. Di qui la loro disponibilità al compromesso con le potenze occidentali. La loro preoccupazione di mantenere limitati la mobilitazione e il protagonismo delle masse lavoratrici. Di qui la necessità, per una vera guerra santa contro l’Occidente, che parallelamente sia data battaglia anche al comportamento politico di questo strato di privilegiati e di sfruttatori interni alla nazione islamica.
L’islamismo radicale, però, non intende farlo.
Esso s’appella invece alla salvaguardia dell’unità sociale della nazione islamica. Altrimenti, sostiene, non si sbarrerebbe la strada ai tentativi occidentali di scavare fossati e inimicizie tra i popoli islamici, per indebolirli. Non saremo certo noi a mettere il silenziatore su questi tentativi. E sulle realizzazioni che essi hanno trovato negli anni. Basti ricordare per tutte la guerra tra Iraq e Iran, e poi la partecipazione di tanti paesi islamici, dalla reazionaria Arabia Saudita alla progressista Siria, all’aggressione contro l’Iraq.
Quello che vogliamo sottolineare è che tali tentativi sono resi possibili da una sponda sociale e politica che l’imperialismo trova all’interno del mondo islamico. Una sponda che non è costituita solo da qualche dirigente saudita o egiziano che ha tradito. Ma da un’intera classe dominante. Non è un caso che essa, con l’eccezione di Saddam Hussein, ha in tutte le sue articolazioni condannato l’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre, mentre nelle strade di Gaza, del Cairo, di Karachi i lavoratori e i diseredati la festeggiavano con gioia.
Proprio, quindi, per stringere in unità il mondo islamico nella lotta contro l’imperialismo, c’è bisogno di spezzarne l’unità sociale, di aprire un secondo, parallelo fronte di guerra contro chi, dall’interno dell’Umma, serve le manovre del nemico oppure non è disposto a combatterle fino in fondo. E c’è bisogno di chiamare alla mobilitazione e all’organizzazione l’unica forza sociale in grado di condurre lo scontro sui due fronti: le centinaia di milioni di proletari e diseredati dei paesi arabi e islamici.
Anche qui l’islamismo radicale mostra la sua inconseguenza.
Lo si è visto già nel 1979 in Iran. Il khomeinismo ha dapprima incoraggiato l’iniziativa dei mostazafin e poi l’ha frenata. Con il rifiuto di una rappresentanza operaia nel governo rivoluzionario. Con la repressione dell’embrionale organizzazione sovietica che si era sviluppata in alcuni centri industriali. Con la dissuasione verso lo sviluppo di organizzazioni sindacali proletarie. Con la velenosa riproposizione della subordinazione delle donne. Il risultato complessivo è stato quello di aver frenato, con l’iniziativa organizzata delle masse oppresse, lo slancio di quella contro l’imperialismo e di aver lasciato spazio alle manovre e agli interventi terroristici degli Stati Uniti e delle potenze europee in Medioriente.
La nuova tendenza organizzata attorno a bin Laden è sicuramente andata oltre il khomeinismo nel portare la sfida al nemico alla sua stessa scala, quella mondiale, e nell’appello all’intera Umma per la jihad anti-occidentale. Ma essa si guarda bene dall’indicare come realmente possa costituirsi nel moto anti-occidentale un nucleo organizzato di sfruttati che sia in campo per sé e senza il quale non è possibile fronteggiare fino in fondo l’imperialismo. Si guarda bene, ad esempio, dall’indicare attraverso quali organismi questi ultimi possano esercitare un controllo sulla vita economica in modo da riorganizzarla in funzione non già dei dettati della finanza occidentale ma dell’ottimale conduzione della "guerra santa". Su quali beni concentrare la produzione? come usare la ricchezza petrolifera e l’arma costituita dalla dipendenza dell’Occidente da essa? come distribuire i viveri a disposizione? come affrontare il pagamento del debito estero?, su queste questioni l’"internazionalismo islamico" di bin Laden glissa, continuando ad invocare la necessità di non disperdere le energie della nazione islamica in lotte intestine. E continuando invece -con quel silenzio- a disperderle, a frenarle, a lasciarle congelate.
Allo stesso fatale risultato conduce anche un altro aspetto dell’ideologia e della prassi dell’islamismo radicale: la sua posizione nei confronti della donna. (Vedi n. 41 del che fare) Noi comunisti internazionalisti conosciamo bene e denunciamo l’uso strumentale che fa l’Occidente della questione del velo e del burqa. Denunciamo e combattiamo come un tassello dell’aggressione dei paesi imperialisti al mondo islamico il loro tentativo di imporvi il proprio modello femminile. Così come denunciamo e combattiamo il fatto che tale modello copra una realtà fatta di crescente oppressione anche per la donna bianca d’Occidente. Ma attenzione, diciamo ai lavoratori e ai diseredati islamici.
La vostra -che poi è anche la nostra- jihad anti-imperialista ha bisogno di fare appello a tutte le forze vive e sane della società. Tra queste, vitale, vi è quella costituita dalle masse femminili. Non basta chiamarle a fare il tifo e a curare le retrovie di una mobilitazione lasciata solo agli uomini. Anch’esse vanno chiamate (il comunismo rivoluzionario lo fa dal 1920) a partecipare alla jihad, secondo le vostre stesse migliori tradizioni di lotta. Ricordate le militanti guerriere dell’epoca eroica del Profeta? Ricordate lo slancio che acquistò la rivoluzione algerina quando -a un certo punto della guerra contro l’occupante- scesero in campo le masse femminili? E come dimenticare il rinculo che subì il moto anti-imperialista in Iran dalla riproposizione di una divisione tra uomini e donne che era parzialmente saltata nel corso dell’insurrezione?
La guerra santa all’imperialismo esige che anche le donne entrino in campo in prima fila. Sarà possibile farlo nella misura in cui esse vi troveranno in gioco la prospettiva della liberazione dai costumi e dai rapporti di dipendenza in cui sono tenute nelle loro "prigioni domestiche" -oltreché dall’imperialismo e dai suoi vassalli locali- anche dai loro stessi uomini, dai loro fratelli musulmani. Non basta gridare: "Dove sono gli uomini liberi che difendano con le armi le donne libere?", se ciò non significherà anche: "Dove sono le donne libere se non difenderanno anch’esse -con le armi- gli uomini liberi, e se insieme ad essi, come fratelli e sorelle, non si batteranno contro l’imperialismo?"
L’incapacità dell’islamismo radicale di sganciarsi da una dimensione "islamica" e interclassista della lotta anti-imperialista comporta un’altra conseguenza negativa. L’ha spiattellata drammaticamente sul tavolo lo scenario balcanico. Qui l’indirizzo politico fondamentalista ha permesso che i lavoratori musulmani si lasciassero contrapporre a quelli croati e serbi quando tutti erano sotto il fuoco concentrico della finanza occidentale, dell’Onu e della Nato, e cioè delle stesse forze che hanno posto d’assedio l’Iraq, la Somalia, l’Arabia Saudita... L’operazione si è ripetuta nel 1999 con l’aggressione contro Belgrado. Cosa pensate, lavoratori islamici, che l’installazione delle truppe occidentali nei Balcani non sia rivolta anche contro quelli di voi che abitano i Balcani e contro tutto il mondo islamico? e che non serva da retrovia per sostenere la penetrazione in Asia centrale e la crociata appena lanciata?
Per "cacciare l’imperialismo dai luoghi santi dell’islamismo", occorre cacciarlo da tutta l’Asia, da tutto il mondo: potranno farlo da sole le masse oppresse musulmane? No. C’è bisogno che si uniscano con le masse lavoratrici che -qualunque sia la loro religione- l’imperialismo opprime nei Balcani e nel resto dell’Asia e del mondo. E come si può costituire questo fronte tra i lavoratori e i disederati di tutte le periferie se non si mettono in primo piano i loro comuni interessi? se non si fa leva su ciò che li unisce nella loro condizione di classe, e non su ciò che li divide nei riferimenti religiosi, i quali tracciano solchi separatori che offrono il destro all’opera di divisione dell’imperialismo?
C’è un’altra esperienza che ci ricorda la verità di questo fatto: la storia del sub-continente indiano. In passato le potenze occidentali hanno aizzato a più riprese la contrapposizione tra indù e musulmani per mantenerlo frantumato e a sé sottomesso. Il dramma potrebbe ripetersi di nuovo (a partire magari dalla contesa nel Kashmir e dall’intruppamento del governo indiano nella coalizione messa in piedi da Bush jr.) se una politica di affratellamento di classe non verrà a stroncarla. Non è una cosa impossibile, come hanno mostrato le iniziative di Durban (ne parliamo alla p. 20), che hanno visto riconoscersi come compagni di una stessa lotta contro un comune nemico indù indiani, musulmani palestinesi, cristiani neri sudafricani, islamici e cristiani neri statunitensi.
A questo incontro e a questa embrionale riunificazione spiana la strada il trattamento che l’imperialismo oramai non risparmia ad alcuna area dominata o controllata dalla sua morsa. Dappertutto, dall’Argentina alla Corea, esso stritola le fragili compagini economiche messe in piedi dopo la seconda guerra mondiale. Dappertutto costringe le masse lavoratrici alla lotta contro lo stesso meccanismo, e quindi alla loro potenziale riunificazione in un fronte di classe che sovverta l’ordine imperialista internazionale e che, grazie a ciò, risospinga in campo il proletariato occidentale. Il cui pieno risveglio politico e il cui collegamento di lotta con le masse oppresse di colore permetterà di far trascrescere il moto anti-imperialista nella guerra internazionale per il comunismo. L’unica strada in grado di dare una reale, non formale soluzione dei crimini del sottosviluppo attraverso il rovesciamento dei rapporti sociali capitalistici. Una strada che, per essere imboccata, richiede la riproposizione con forza di un’adeguata politica anti-imperialista: quella connessa all’internazionalismo comunista.
Non stiamo inventando niente. Già una volta il marxismo rivoluzionario è riuscito a tradurre in carne e sangue il suo grande piano strategico della rivoluzione comunista internazionale. Accadde negli anni successivi alla prima guerra mondiale sotto l’impulso dell’iniziativa dell’Internazionale Comunista. L’Occidente proletario lanciato direttamente nella battaglia per il socialismo e l’Oriente contadino impegnato nella lotta anti-feudale e anti-imperialista si saldarono insieme come due reparti dello stesso esercito. Ciascuno apportando all’altro la forza e lo sprone per accerchiare il capitalismo internazionale e aprirsi tutti insieme la via alla comune liberazione.
Se il proletariato rivoluzionario internazionale non è riuscito ad andare avanti su questa strada di unificazione sotto la bandiera del comunismo è solo perché sono entrati in gioco i Grandi Terroristi. Che riuscirono alfine ad affossarla. Con l’aiuto determinante dello stalinismo. Vi riuscirono perché arrivarono a separare i due reparti dell’esercito proletario internazionale.
Dopo di allora né la lotta di classe né la rivoluzione anti-imperialista hanno potuto essere cancellate. Quella è però rimasta confinata, nei paesi dominanti, entro i limiti della social-democratica (e social-imperialista) redistribuzione dei redditi, e questa, nei paesi dominati, entro gli angusti confini nazionali, incapace di sprigionare tutte le potenzialità anti-capitalistiche insite nei propri moti. Oggi, grazie anche all’indomita resistenza delle masse oppresse islamiche e alla loro ripresa di lotta, la prospettiva dell’internazionalismo comunista sta tornando d’attualità. La civiltà bianca capitalistica è stata in grado di affossarla una volta. Non vi riuscirà la seconda.
Se un nucleo comunista fosse al momento presente nel mondo islamico, starebbe dentro fino in fondo alla mobilitazione e alla guerra delle masse oppresse contro l’imperialismo. Spingerebbe per l’armamento generale degli sfruttati e delle sfruttate in un esercito popolare non vincolato entro i binari delle forze armate ufficiali dei paesi arabi e musulmani contrari alla nuova crociata occidentale. Chiamerebbe al rovesciamento dei regimi infeudati all’Occidente e alla lotta contro tutti gli strati sociali pronti al tradimento. Promuoverebbe l’organizzazione politica e sindacale degli sfruttati per unificarne la lotta al di sopra dei confini statuali e nazionali e per permetterle di assumere il pieno controllo della vita sociale secondo gli interessi della battaglia anti-imperialista. E rivolgerebbe un energico appello al proletariato metropolitano, richiamandolo ai suoi interessi e ai suoi doveri di classe, alla sua solidarietà militante incondizionata. La quale, quando arriverà sanando la peste del social-sciovinismo in cui siamo caduti da decenni, permetterà al moto rivoluzionario anti-imperialista di sviluppare appieno le sue potenzialità anti-capitalistiche e di superare dall’interno della sua estensione e radicalizzazione le attuali direzioni islamiche. Vedremo allora chi affosserà chi.