A Durban, la conferenza dell’Onu sul razzismo si è trasformata in una straordinaria occasione di denuncia e di lotta che ha visto fianco a fianco proletari e sfruttati di tre continenti. I palestinesi trovano qui una cassa di risonanza della loro Intifadah, eroica avanguardia della lotta delle masse arabe e islamiche. I senza terra del Sudafrica denunciano il permanere degli effetti dell’apartheid nel loro paese. Gli intoccabili dell’India per la prima volta pongono all’attenzione del mondo degli oppressi il barbaro sistema delle caste. I neri d’America fanno sapere che non hanno dimenticato, ed esigono che si paghi il conto morale e materiale della schiavitù. I neri africani, decimati dalle deportazioni, si uniscono a loro nella richiesta di risarcimenti. I nativi americani vanno a ricordare il loro sterminio, base dell’attuale strapotere e ricchezza americana. Dopo cinque secoli di impunita rapina coloniale, messi davanti alla sacrosanta insorgenza delle masse e terrorizzati dalla possibile fusione delle loro lotte, i rappresentanti Usa e i loro lacchè israeliani e canadesi si danno alla fuga, mentre quelli europei se la preparano con la loro sporca, e sempre meno presentabile, ipocrisia: tutti preparando nuove e più feroci aggressioni.
Doveva essere una conferenza Onu come tutte le altre, in cui i problemi venivano nominati e illustrati con ampia esibizione di dati e statistiche, per non essere poi affrontati che a suon di auspici e risoluzioni. Ai margini, l’assemblea delle ONG, forum di discussione più ampio e articolato, incaricato di preparare una piattaforma/petizione da presentare all’"alto consesso" delle Nazioni unite. La solita routine, da non prendersi troppo sul serio, su questioni che la Madre di Tutte le Democrazie poteva ben permettersi di snobbare, mandando una delegazione di basso profilo a seguire i lavori.
Ma questa volta, come era già parzialmente successo a Pechino in occasione della conferenza mondiale sulla condizione della donna, le cose non sono andate per il verso giusto.
Sull’oggetto della conferenza: "Contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e le relative intolleranze" molti avevano qualcosa da dire, e hanno deciso di andare a dirla insieme, portando in prima persona le ragioni della loro lotta.
La testa del grande corteo che si è svolto a Durban, il giorno di apertura della conferenza dell’Onu, era occupata dallo spezzone palestinese che vedeva schierati non solo i militanti appena giunti in massa dai territori, ma quelli, ragazzi e ragazze giovanissimi, del "Movimento dei giovani musulmani" del Sudafrica, assieme a delegazioni provenienti dagli altri stati arabi. Già da questo emerge una prima novità. La politica di Israele è identificata come razzista, concetto che ha a che fare, più che con la filosofia, con la politica e la pratica quotidiana: le deportazioni, l’espandersi degli insediamenti, la pulizia etnica, i bombardamenti, il blocco (su base etnica) dei territori occupati. Accusa "infamante", "ingiustificata", allo stato sionista, frutto di un colpo di mano dei paesi arabi? Al contrario, questa accusa, condivisa anche da molte delegazioni ufficiali presenti alla conferenza, è il frutto di una circostanziata analisi della politica israeliana, della sua volontà di umiliare il popolo palestinese negandogli quei diritti che gli israeliani ritengono inviolabili per sé. Di trattarli, appunto, come una razza inferiore, che va oppressa e schiacciata. Di terrorizzarli e costringerli al tempo stesso ad accettare il massimo dello sfruttamento, come ben sanno le decine e centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi che ogni giorno varcano le frontiere per vendere le loro braccia all’occupante.
Sono i principi religiosi o la diversa origine razziale a determinare tutto ciò? La storia ci dice che entrambi provengono dallo stesso ceppo: semiti. Quanto alla religione…ecco comparire, fianco a fianco coi militanti palestinesi, un gruppo di rabbini ultraortodossi che innalzano il cartello "Sionismo=Razzismo", rifiutando così di essere usati come copertura delle mire espansionistiche del proprio governo e dei suoi protettori in alto loco. Né razza né religione quindi alla base dell’odierno razzismo imputato al governo sionista, ma una conferma locale della necessità vitale del capitalismo e dell’imperialismo di sopravvivere tramite lo schiacciamento di pochi stati ricchi sui popoli paria, la maggioranza del mondo.
La solidarietà internazionale con la lotta degli sfruttati palestinesi, da tempo latitante in Europa, riparte dalle masse sudafricane, già simbolo della lotta contro il razzismo: "Occupazione uguale colonialismo uguale nuova forma di apartheid" recitava un manifesto delle organizzazioni arabe; uno striscione sudafricano ricordava: "Hector Peterson e Muhammad Al- Durrah sono morti per la stessa causa". (1) Amandla Intifadah: vittoria all’Intifadah!
Ma le (belle) sorprese sulla via di Durban non finiscono qui.
Per la prima volta si sono presentati sulla scena internazionale i rappresentanti dei Dalit indiani: dei 250 milioni di "intoccabili", quintessenza dell’emarginazione prodotta dal sistema delle caste, sistema "feudale", ma ben tollerato e coltivato non solo dal colonialismo inglese, ma anche dall’attuale democratico governo indiano. Arriva con loro a Durban la voce dell’Asia, le cui masse sterminate hanno condiviso con gli africani secoli di aggressioni e rapine da parte delle potenze occidentali. Correva voce che tra indiani e africani non corresse buon sangue….ma nelle vene degli sfruttati comincia a correre lo stesso sangue!
Dal cuore dell’impero arriva nel frattempo una bordata micidiale. I rappresentanti del comitato trasversale che riunisce i neri eletti al congresso degli Stati uniti portano in Sudafrica l’eco di movimenti da tempo attivi negli Usa, che pretendono il risarcimento morale e materiale dei danni prodotti da due secoli di schiavitù. La rappresentanza istituzionale dei neri giudica provocatorio il fatto che gli Usa siano rappresentati alla Conferenza da un oscuro funzionario e non da Colin Powell, il nero più alto in grado nell’establishment Usa. Essi denunciano il fatto che la fine della schiavitù non ha segnato affatto la fine delle discriminazioni e dell’emarginazione, e vogliono risarcimenti per questa e per quelle. È una richiesta tutt’altro che simbolica che si incontra e si unisce ad un consonante movimento africano, che chiede scuse ufficiali e conseguenti riparazioni per la deportazione di milioni di individui dall’Africa. In che cosa possano consistere queste "riparazioni" è difficile immaginare, ma ben si capisce come la sola idea di "pagare" per le proprie colpe storiche e attuali e di fronteggiare una massa che lo esige possa far tremare le vene ai polsi agli attuali gendarmi del mondo. Non meno che alla vecchia Europa, che in fatto di colonialismo, schiavismo e deportazioni è stata per secoli all’avanguardia. È da qui che il capitalismo nascente è partito alla conquista delle ricchezze dei popoli "inferiori", del petrolio arabo, delle miniere del Congo, dei diamanti del Sudafrica, dove ha creato la più emblematica forma di razzismo: l’apartheid.
L’apartheid: una forma di discriminazione aberrante, un retaggio del passato, eliminata con la costituzione di un democratico governo di unità nazionale? Non è così semplice.
I senza terra sudafricani, convenuti in massa a Durban, denunciano che la fine dell’apartheid non ha restituito loro le terre espropriate, come la fine della schiavitù negli Usa non consegnò un solo ettaro di terra agli schiavi che l’avevano resa produttiva. Ieri come oggi nessun governo borghese si è dimostrato in grado di riparare ai danni morali e materiali del razzismo, che non è solo discriminazione o divisione, ma anche e soprattutto espropriazione. Per farlo, si sarebbero dovuto mettere in discussione le basi fondanti del sistema economico e dello stato che si preparavano a costruire (e a perpetuare). E i senza terra del Sudafrica chiedono, come i loro fratelli neri americani, non tanto un riconoscimento giuridico dei diritti, quanto la possibilità concreta di risollevarsi dalla loro condizione di miseria e di emarginazione. Chiedono la redistribuzione delle terre, la fine del privilegio economico e sociale della minoranza bianca, la fine di quella che si presenta come una nuova apartheid.
Ecco ridisegnate quindi a tutto tondo le vecchie e nuove facce del razzismo, ecco riunite a Durban le varie lotte, ecco presentata la possibilità, la necessità di fonderle, di unificarle, di indirizzarle verso la causa comune. Miracoli della globalizzazione!
È vano chiedersi se ciò che ha messo in fuga la delegazione Usa sia stato l’assedio esterno della piazza, ossia la straordinaria risonanza data alla questione palestinese, con la conseguente necessità di sottrarre Israele all’accusa di razzismo, oppure l’"assurda" pretesa dei rappresentanti neri del congresso americano di tirare fuori la questione dei risarcimenti dovuti alla comunità nera (il che la dice lunga sugli umori che serpeggiano all’interno di essa), ovvero la combinazione delle due cose. Il dato di fatto è che la delegazione Usa ha abbandonato precipitosamente i lavori della conferenza, accompagnata dai reggicoda Israele e Canada (dove preme il risveglio delle lotte dei nativi) dando così un segnale esplicito delle crescenti difficoltà in cui si dibatte il governo Usa, e con esso tutto l’Occidente, nel mantenere il dominio del mondo e anche il controllo delle sue contraddizioni interne. Ritornando precipitosamente in patria, i delegati rischiano di trovarsi di fronte, moltiplicato, proprio il problema a cui volevano sfuggire. L’Onu, il tanto invocato organismo "super partes", ne esce (giustamente) ulteriormente delegittimato e ridicolizzato.
Uno spettro si aggira per il mondo, e i governi occidentali lo hanno visto comparire a Durban: lo spettro di una saldatura del fronte di lotta che riunisca i mille sfruttamenti, le mille divisioni che percorrono il proletariato del pianeta. La forza che potrebbe sprigionare da questa saldatura sarebbe in grado di radere al suolo ben altro che le torri gemelle. I padroni del mondo ne hanno avuto sentore, ed è perciò che sono fuggiti. Fino a quando?
Per noi comunisti e per il proletariato mondiale ciò che è avvenuto a Durban è uno splendido segnale, che va nella giusta direzione dell’estensione e nello sviluppo delle lotte, della globale risposta delle masse oppresse al dominio capitalistico globale. È un primo passaggio dalla necessità oggettiva della lotta comune alla pratica della lotta comune, lotta che non può continuare ad essere rivolta solo agli effetti del dominio capitalistico ma deve, per essere veramente efficace, diventare lotta al sistema capitalistico, la vera causa. Questa capacità di identificare a livello internazionale le lotte degli altri oppressi come proprie, e di portarle avanti unitariamente, è il dato più importante segnalato da questa mobilitazione! Il movimento anti-globalizzazione in Occidente è chiamato a farlo proprio, a superare così ciò che, mantenendo artificiosamente divisi settori di classe già oggettivamente unificati dall’avanzare della globalizzazione, lo indebolisce e rischia di paralizzarlo. Impariamo da Durban!
(1) Due giovanissimi martiri, rispettivamente, della lotta all’apartheid e dell’Intifadah.