Un "conflitto di civiltà": con questa consegna la stampa occidentale dopo l'attentato di Tel Aviv chiama a raccolta, senza mezzi termini, per la difesa della democrazia del mondo "civile" contro la "barbarie islamica" in Palestina e nel mondo. In effetti è proprio così. Salvo che questi trafficanti non confesseranno mai che la "civiltà" che sta loro a cuore è quella che da secoli, con la benedizione della chiesa e in nome della libertà, massacra affanna rapina violenta, in una parola: succhia il sangue ai popoli arabi e di tutto il Sud del mondo, per poi elargire loro amorevolmente le delizie del libero mercato. Ché se poi qualcuno insorge contro questo deserto di oppressione chiamato "pace", ecco pronte argomentazioni più convincenti del calibro dei missili lanciati contro l'Irak e la Jugoslavia, delle sanzioni targate Onu che affamano i popoli ribelli (per l'Irak siamo oramai al paradosso della proroga mese per mese del programma Oil for food!), del terrorismo di stato israeliano che agisce per procura delle cancellerie occidentali. Sì, davvero in gioco è la vostra civiltà, quella del denaro, del profitto, dell'oppressione, della guerra, dello sfruttamento su chi vive del proprio lavoro. La vostra civiltà imperialista che a noi fa schifo, tirata a lucido qui a coprire le sue false libertà. le sue crescenti diseguaglianze. la miseria dei suoi rapporti sociali e umani, il suo razzismo, il suo militarismo travestito di "umanitarismo" e grondante del sangue dei popoli colorati.
Ora si grida al "barbaro attentato". Forse ci sbagliamo, ma non abbiamo percepito tutto questo sdegno e partecipazione di fronte ai 500 e più motti e agli oltre 14.000 feriti dell'Intifada, ai bambini massacrati, ai bombardamenti israeliani contro gli insediamenti civili, alle case rase al suolo, all'assedio delle città e agli omicidi dei militanti palestinesi. Non abbiamo visto in giro visi sdegnati o anche solo preoccupati per quello che è a tutti gli effetti l'inizio del piano di sterminio del popolo palestinese, neanche tra quelli sempre pronti a ricordare a bacchetta passati genocidi. Già, i barbari devono stare al loro posto e subire e servire, comunque mai ricorrere alla violenza. Il popolo palestinese, le masse palestinesi dovrebbero lasciarsi massacrare da uno degli eserciti più armati del mondo (e armato dall'Occidente); al massimo, per i "sinistri" di qua, è concesso loro di continuare a lanciare pietre e sperare nel benevolo intervento di "intermediazione" dell'Onu, dell'Europa, dell'Italia per una "pace equa". Ma raccogliere l'appello che viene da questa lotta che va avanti da oramai otto mesi, questo giammai. Non un dito, purtroppo, che qui si sia mosso!
Non dimostra chiaramente l'attuale situazione militare con Israele che entra e esce quando vuole dai territori della "Autonomia" palestinese che si tratta nient'altro che di appendici pure e semplici dello stato sionista? Che uno stato palestinese vero nei piani di Israele e dell'Occidente non può e non deve sorgere mai e che la "pace " cui si vuole costringere i palestinesi dovrebbe sancire definitivamente questo dato di fatto? Di fronte a ciò, di fronte alla terra bruciata che si sta facendo intorno all'Intifada, era scontato il ricorso agli attentati "terroristici". Quello che può stupire, semmai, è che questa forma di lotta cui il popolo palestinese è costretto dall'isolamento, da lui non certo voluto, della propria battaglia non sia arrivata a toccare anche quei paesi che tirano le fila del gioco dalle pulite stanze delle centrali del potere occidentale. Ebbene anche in questo caso, anche nel caso di attentati nel mucchio. con vittime tra gente "innocente", noi comunisti internazionalisti continueremmo a dare pieno e incondizionato appoggio alla lotta palestinese e di tutte le masse oppresse arabo islamiche. Ai proletari di qui diremmo: la violenza "terrorista" degli oppressi che può colpire anche noi non è che un minimo ritorno di quella perpetrata dal Grande Terrorista, l'Occidente imperialista, nei confronti delle masse del Sud; se vogliamo fermarla, dobbiamo raccogliere l'urlo di lotta che viene dalle masse palestinesi, irakene... di tutto il Sud del mondo, rilanciarlo qui, nel cuore dell'impero, contro le classi sfruttatrici e i "nostri" stati assassini, contribuire a rompere le catene che tengono legate quelle masse. Bisogna far "capire" ai palestinesi che qui hanno fratelli e compagni di lotta. comportandoci da tali! Fino a questo momento nessuno di noi potrà dirsi "innocente".
Intanto la logica implacabile dell'imperialismo che attraverso il suo bastione israeliano vuole liquidare una volta per tutte la questione palestinese e lanciare così un durissimo monito come fu ed è per l'Irak a tutte le masse arabo islamiche, questa logica va avanti. Arafat, nei fatti ostaggio dell'esercito sionista, è posto davanti a un diktat senza alternative: o ti fai killer del tuo popolo (che questo significa, oggi, porre fine alle "violenze") oppure sarà la distruzione totale (i cui piani sono già bell'e pronti nei cassetti dei quartieri generali militari, a Tel Aviv come, e più, al Pentagono). Accettare il diktat significherebbe non solo arrestare i militanti islamici e debellare la loro organizzazione (gli agenti della Cia hanno già pronte le liste), ma sciogliere i Comitati di resistenza popolare, decapitare la direzione della nuova base militante della stessa Al Fatah cresciuta sul campo, insomma liquidare l'Intifada e accettare nella sostanza le condizioni di "pace" imposte dal nemico: un'"autonomia" consistente in una serie di aree isolate fra di loro, formalmente amministrate da clan palestinesi del tutto dipendenti da Israele e, in subordine. da questo o quello dei regimi arabi più compromessi, con nuove forze dell'ordine a controllare una popolazione stanca e senza prospettive di fronte allo strapotere militare del nemico. Arriverà Arafat a tanto? In ogni caso. sia lui a cedere o siano piuttosto i vari notabilati legati da mille fili a Israele a farsi avanti dopo la sua liquidazione da parte degli israeliani, una cosa è certa: questa prospettiva aprirebbe uno scontro interpalestinese sulla falsariga di quanto è avvenuto in Libano, con chi di dovere a soffiare sul fuoco delle divisioni create ad arte. E non è detto che tutto ciò non segua invece che surrogare-a una guerra totale contro il popolo palestinese "giustificata" da una sua sollevazione per l'uccisione di un Arafat non disposto, dopo tanti cedimenti, a piegare definitivamente la testa.
Comunque vada all'immediato, gli spazi intermedi di soluzione si stanno bruciando. Ne stanno prendendo atto, nella lotta, le nuove generazioni, quei "figli dell'Intifada" che rifiutano senza mezzi termini gli accordi di Oslo e più volte hanno contestato la direzione arafattiana per la sua disponibilità ai compromessi; che hanno proclamato lo sciopero generale contro la visita del segretario di stato americano Powell a Ramallah e stigmatizzato i colloqui tra Anp, Israele e Cia per "porre fine alla violenza"; che hanno organizzato proteste di piazza a fine aprile contro la decisione di Arafat di sciogliere i Comitati di base dell'Intifada. La stessa base militante arenata di A1 Fatali. i Tanzim di M. Barghuti che sono nel mirino dell'esercito sionista, ha intrapreso in prima persona la lotta contro gli insediamenti dei coloni (attentati, colpi di mortaio. ecc.) con l'obiettivo di conquistare sul campo una "vera" autonomia per Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est scacciandone l'esercito di occupazione. La distanza tra questa base e la direzione arafattiana la si misura non solo sul piano degli obiettivi e delle forme di lotta, ma anche quanto al modello politico da prefigurare per uno stato palestinese effettivamente libero. Barghuti contesta il modello che emerge dalla prassi di potere dell'Anp, "patriarcale, autoritario, paternalistico, clientelare e ricalcante il modello delle monarchie arabe della regione", e oppone ad esso una "vera e moderna democrazia". E' una questione fondamentale, al pari dello spostamento in avanti della lotta militare con cui non a caso, sulla base del bilancio fatto degli accordi di Oslo, ha un rapporto strettissimo. Il punto è: come è possibile liberare realmente anche solo una parte della Palestina? La risposta dei Tanzim è: non con accordi di svendita che imbalsamano e disperdono la volontà di riscatto palestinese, ma sulla base di una vera lotta (anche armata, dunque) e mobilitando le masse in vista di un ordine sociale e politico in cui si sentano protagoniste. Giustissimo. Ma è pensabile che il sionismo, e dietro di esso l'imperialismo, permettano l'esistenza di una tale entità politica, conquistata con le armi, a fianco dello stato di Israele? Non rappresenterebbe essa un richiamo oggettivo potentissimo per tutte le masse arabe, proprio a misura che metterebbe in discussione l'ordine colonialista dell'area e mostrerebbe in atto un "modello" antitetico ai regimi arabi venduti all'Occidente. Non sarebbe un pericolo mortale per Israele a misura che gli toglierebbe, coll'incrinarsi delle basi del suo dominio sul popolo palestinese, la possibilità di tener sopite le fratture di classe al proprio interno facendo partecipare il proletario ebreo dell'oppressione di un altro popolo? Anche solo per questi motivi, uno stato palestinese indipendente è irrealizzabile senza proseguire la lotta fino alla distruzione dello stato di Israele, dunque senza uno scontro a fondo con l'ordine imperialista nell'area.
Si pone allora il problema: con quali forze portare avanti questa lotta? Con le forze da riunificare delle masse oppresse del Medio Oriente. le uniche interessate a un rivolgimento radicale degli assetti sociali e politici che ne determinano la miseria e l'oppressione (di cui sono corresponsabili, in subordine all'Occidente ladro del petrolio arabo e a Israele suo cane da guardia, quelle borghesie arabe che mendicano presso il padrone imperialista il mantenimento dei propri privilegi di classe e usano la causa palestinese come ampiamente visto in questi mesi esclusivamente come merce di scambio). Per questo è fondamentale, contemporaneamente, proseguire e radicalizzare l'Intifada e cercare di rompere l'isolamento di cui le masse palestinesi sono certo le meno responsabili estendendo il focolaio tra le masse oppresse di tutta l'area. È solo in questo percorso proiettato verso una rivoluzione d'area proiettata, a sua volta, verso la ripresa della rivoluzione proletaria internazionale, che sarà possibile dar forma ad una "vera democrazia" rivoluzionaria basata sull'edificazione di organismi sovietici per l'attivizzazione delle masse proletarie e semiproletarie, femminili, giovanili, per il rivoluzionamento e la presa in carico in prima persona del controllo della società, ciò che è possibile solo sulla base di precisi interessi di classe, unica garanzia" contro la riedizione di modelli che i Tanzim giustamente criticano.
Anche per altri aspetti la situazione si è dislocata decisamente in avanti. Lo si vede dall'atteggiamento di fondamentale condivisione da parte della popolazione delle azioni dei "martiri della fede" islamici. Questi attentati suicidi che esprimono una violenza di popolo appoggiata dal popolo, indicano che la massa profonda non crede più nella prospettiva di "pace" così come si è data finora (senza che ciò significhi che sia convinta dell'impossibilità di qualunque tipo di pace, in questo ancora lontana dall'obiettivo della distruzione dello stato di Israele che, pur rimandato a un lontano futuro. resta fermo per le organizzazioni islamiche). Inoltre questo tipo di lotta, a modo suo, pone un elemento che non può essere saltato: sono azioni che portano la guerra dentro Israele, tra la popolazione "normale". Con ciò le si dice: israeliani, dovunque siate, qualunque cosa facciate, siete anche voi in guerra non potete fuggire, abitate in una "casa senza porte , per cui non potete illudervi di non ritrovarvi all'interno almeno una piccola parte della mattanza di cui siete corresponsabili. Questo all'immediato compatta ancor di più la società israeliana e la sua componente lavoratrice intorno alla politica di guerra dei suoi capi assassini, da essa percepita come autodifesa. Ma intanto pone anche la popolazione ebraica di fronte all'impossibilità di continuare a vivere come prima (ciò che all'oggi si manifesta nella volontà di separarsi del tutto e definitivamente dai palestinesi, da rinserrare nei loro bantustan). Certo, la finalità degli islamici non è quella di aprire un fronte di classe interno a Israele (ciò esula dalla loro visione della lotta palestinese come esclusivamente nazionale, ancorchè di una nazione allargata quale l'umma); obiettivo che invece un'avanguardia di classe palestinese dovrebbe porsi, non per moderare la lotta, ma al contrario come uno dei tasselli per indirizzarla e concentrarla sui bersagli giusti organizzando la violenza rivoluzionaria sulla base di un programma di classe.
Ciò non eliminerebbe di per se tutte le difficoltà. Un dato. infatti, emerge e non è affatto positivo. È il sostanziale isolamento in cui l'Intifada è caduta. Da parte delle stesse masse arabe non sta venendo un sostegno all'Intifada all'altezza della situazione. Ciò è dovuto anche alla repressione preventiva messa in atto da alcuni governi come quello egiziano e giordano che hanno vietato ogni manifestazione a favore dell'Intifada dopo le mobilitazioni dei mesi scorsi, nonché al sempre più difficile, ma ancora possibile, equilibrismo della Siria (che contro Israele preferisce rivolgersi al papa piuttosto che alla piazza), della Libia (reduce della consegna ai tribunali occidentali degli imputati per l'affare Lockerbie), per non parlare delle petrol-monarchie. Ma il problema è di fondo: le masse arabe faticano a prendere atto della fine dell'epoca in cui i rais le chiamavano dall'alto a lottare (per ricontrattare) contro l'imperialismo e Israele. Oggi si tratta di prendere direttamente nelle proprie mani la lotta perché anche solo per ricontrattare margini di minore... soffocamento, bisogna andare ad uno scontro a fondo contro l'imperialismo (basta pensare alla questione petrolio), e perché mille sono oramai i fili che legano i governi arabi alle centrali occidentali. Si tratta di fare dell'Intifada il punto di ripartenza per l'affermazione di una vera comunità degli sfruttati arabi e islamici che o è di lotta o non è e dunque, per iniziare, di abbattere gli artificiosi confini statuali che non sono stati certo decisi dagli arabi. Non si può allora saltare la necessità di lottare contro i propri governi collusi con le forze imperialiste e sioniste e prepararsi a rovesciarli.
Altre note dolenti vengono da qui. Stando a quello che si è visto da noi, i proletari immigrati arabi registrano una certa difficoltà a farsi sentire. Non sono affatto indifferenti alla questione, ma contano, anche per loro, l'isolamento e il sostanziale silenzio dei lavoratori di qui che non hanno raccolto i primi momenti di mobilitazione che allo scoppio dell'Intifada pure si son dati. Ciò non toglie che è necessario reagire: la lotta palestinese riguarda da vicino tutti gli immigrati, è una lotta contro l'intera macchina del dominio imperialista, quella che li costringe a fuggire dai propri paesi per trovare qui condizioni di vita disumane. Anche solo per conquistare migliori condizioni e pari diritti è necessario alzare la testa, e non lo si può fare se non si scende in campo qui, "a casa sua", contro l'imperialismo che azzanna le carni dei propri fratelli di razza e di classe. In questo ai proletari immigrati spetta un compito importantissimo: quello di scuotere con la propria mobilitazione il proletariato occidentale da un'indifferenza verso i propri fratelli di classe del Sud del mondo che lo sta condannando alla nullità politica e a continui arretramenti sul piano materiale. Sappiamo che il principale assente è proprio questo soggetto. Ma questo dato è destinato a non durare a misura che in Medio Oriente si va decisamente verso la guerra; qualche seppur minimo segnale in questa direzione lo si vede già oggi se è vero che la Fiom ha preso posizione per la "pace" nei cortei dei metalmeccanici in occasione dell'ultimo sciopero. Certo, il sindacato lo fa in un'ottica tutta e soltanto sciovinista (con invito a intervenire rivolto all'Onu, all'Europa e all'Italia in particolare, in funzione concorrenziale rispetto agli Usa).
Ma spezzare l'inerzia dei lavoratori è un problema reale e deve diventare campo di intervento in senso opposto al riformismo anche per chi non solo ha a cuore la sorte dei palestinesi. ma vede la loro battaglia corre un tassello dello scontro internazionale di classe fra proletariato e capitalismo. Noi siamo fra questi senza per questo disprezzare i pruni che anzi chiamiamo insieme agli immigrati, ai lavoratori. alle donne. ai giovani, a scendere in campo. a organizzarsi, a dare battaglia su tutti i campi.
La lotta dei palestinesi non può, non deve restare isolata. Il nostro impegno, la nostra organizzazione, le nostre sedi sono qui per questo, per chiunque voglia iniziare finalmente! questo lavoro.