Diversità dal ’94 ve ne sono anche nel centro-sinistra, nella "sinistra" e nella situazione sindacale e politica del proletariato. Allora il proletariato si determinò a resistere nella convinzione che le sue lotte avrebbero avuto uno sbocco politico nei sindacati e in una "sinistra" in grado di trasformare le proprie esigenze in programma generale, finanche in programma di governo. Questa convinzione -pur già vacillante, dopo le molte aspettative deluse da parte degli uni e dell’altra- funzionò, come sempre, da moltiplicatore delle lotte.
La logica alla base dei sentimenti della massa era di poter realizzare le necessità delle imprese, dello stato, del capitale (assunte come proprie) facendo pesare adeguatamente anche l’interesse proletario. Una logica che corrispondeva a ciò che s’era, bene o male, fatto nei decenni precedenti. Sei anni e mezzo di governo di centro-sinistra hanno dimostrato che nel programma generale che si fa carico degli interessi "complessivi" del paese e dei mercati, gli interessi dei lavoratori, anche solo quelli più modesti e immediati, occupano un posto sempre più marginale e sempre più subordinato. Non solo le loro condizioni di esistenza hanno continuato ad arretrare, ma, le loro forze escono da quest’esperienza più deboli e disorganizzate.
L’esperienza non è, quindi, senza conseguenze. Né è essa soltanto a determinare l’attuale stato di disorientamento che avvolge l’intero proletariato. Essa stessa, infatti, non è che l’approdo di un lungo ciclo di riformismo delle masse e di interpretazione di esso da parte della politica della "sinistra". Non è sorta all’improvviso, o per improvvidi errori compiuti da qualche capo o partito, corretti i quali si possa ripartire lungo un corso positivo di lotte e conquiste. Non s’è scoperta nel ’96 la politica di sostegno alle aziende nella concorrenza sui mercati. Non s’è scoperta nel ’96 la necessità di rendere compatibili ai conti pubblici e alla competitività dell’"economia nazionale" le esigenze di lavoratori, giovani, donne e immigrati. Non s’è scoperta nel ’96 la politica di sostenere l’Italia nel farsi spazio tra i "grandi" e nell’opprimere, con i ricatti finanziari, politici e militari, i paesi del terzo mondo. È un intero ciclo di politica della "sinistra" che è venuto a conclusione con il governo ulivista. Un ciclo iniziato da molto lontano, dal riformismo, dallo stalinismo e dal togliattismo, che assumevano il "quadro nazionale", il "bene del paese", delle sue aziende, e dello stesso capitalismo, come imprescindibile involucro all’interno del quale collocare lotte e rivendicazioni di classe. Un quadro al quale sono organicamente legati i Ds come Rifondazione (incluse, pur con sfumature, le correnti interne "di sinistra"), i sindacati come il manifesto.
Questo ciclo si va chiudendo non senza lasciare strascichi sulla ripresa dell’iniziativa proletaria e pone, al momento, il proletariato in una condizione di disorientamento, tra l’inerzia a conservare la vecchia logica e il bisogno di ricercarne una nuova, che ne depotenzia anche le capacità di reazione sul piano della mobilitazione di lotta contro Berlusconi.
Una parte ancora notevole di lavoratori continua a riporre le proprie aspettative nei Ds, che rappresentano pur sempre la più coerente continuità con il passato del movimento operaio, e, tra loro, c’è anche chi di fronte alla sconfitta del 13 maggio è disposto a rimboccarsi le maniche per ridare fiato a quella prospettiva, magari sottoponendo a critica feroce la "gestione dirigenziale" degli ultimi anni e dandosi l’obiettivo di cercare nuovi raccordi tra "sinistra" e classi lavoratrici, sanzionandolo con una segreteria Cofferati. Un’altra parte ripone in Rifondazione le speranze di ridare vita a un partito che faccia pesare maggiormente le proprie istanze, ponendo di più l’accento sulla mobilitazione di lotta, senza, con ciò, abbandonare il progetto d’alleanza con la "sinistra moderata" e con lo stesso "centro" per determinare un quadro politico "più favorevole" ai lavoratori. Un’altra parte, avvertendo la limitatezza della "sinistra", va ricercando soluzioni che siano, a un tempo, più radicali e più realistiche. Più radicali (cioè, illusoriamente, meno sottomesse ai poteri forti) quanto a contenuti propri, e più realistiche quanto a possibilità di realizzazione (il federalismo). Una parte, infine, s’è determinata all’approdo diretto nelle forze che dimostrano di saper interpretare meglio della "sinistra" le esigenze capitalistiche che la stessa sinistra li ha educati a fare proprie (non perché siano disposti ad auto-ghigliottinarsi, ma proprio perché se per difendere le proprie condizioni bisogna anzitutto perseguire la crescita delle aziende, tanto meglio, allora, metterla nelle mani di chi dimostra davvero di saperla promuovere!).
Nessuna di queste tendenze, divise tra loro ma unite nella subordinazione al capitalismo, può rappresentare una via di uscita, ma tutte portano il proletariato verso la catastrofe. L’unico modo per evitarla è di dare vita a una battaglia di resistenza di massa che ne riunifichi le forze disperse e che affronti il nemico per quel che è. Può darsi, dunque, solo se emerge una prospettiva in grado di tracciare un cammino della ripresa e dell’organizzazione di classe. I due aspetti sono inscindibilmente legati. L’iniziativa di massa ha bisogno dell’iniziativa politica d’avanguardia per trovare una prospettiva politica che dia sviluppo alle sue esigenze, mentre la stessa iniziativa dell’avanguardia non può che rimanere asfittica se non trova nuova linfa in una ripresa delle lotte, dell’organizzazione, dell’iniziativa di massa, e, quindi, se non cerca di collegarsi a essa e di promuoverla.
Si prendano, per esempio, le prime esperienze di lotta e organizzazione dei giovani che sperimentano sulla propria pelle la flessibilità e la precarietà alla McDonald’s, all’Ikea, nei call center, ecc. A centinaia di migliaia stanno provando cosa offre davvero la "modernizzazione" del lavoro: bassi salari, ritmi pressanti, totale assenza d’ogni possibilità di socialità nel lavoro e con il lavoro, completa rapina del tempo di vita, assoluta impossibilità di programmarsi un futuro. Su questa base molti di loro cominciano a manifestare l’esigenza di una difesa collettiva, e, com’è naturale, la rivolgono alle organizzazioni sindacali esistenti. Ciò che chiedono è una tutela simile a quella dei lavoratori non ancora del tutto "modernizzati". Ma questa loro esigenza "elementare" incontra un ostacolo fenomenale: quei sindacati cui rivolgono le proprie istanze sono gli stessi che hanno accettato di diffondere flessibilità e precarietà, sono corresponsabili della loro situazione, e lo sono per il preciso motivo che difendono i lavoratori alla sola condizione che ciò non deprima la competitività delle aziende. Potranno dare una battaglia che inverta di 180 gradi la loro politica? Per farlo dovrebbero cambiare il cuore dei propri programmi: non più "esigenze del capitale e dei lavoratori" insieme, ma esigenze dei soli lavoratori e, dunque, inevitabilmente contro il capitale. Ciò non toglie che i sindacati cerchino di "migliorare" qui e là la condizione di questi lavoratori, ma quel che mai faranno sarà di lottare per l’abolizione d’ogni forma di flessibilità e precariato, e neanche di opporre una resistenza seria all’ulteriore diffusione di esse. Altrimenti -ed è, da un punto di vista capitalistico, vero- le imprese perderebbero in competitività!
Volenti o nolenti, anche solo per realizzare la più "elementare" delle esigenze, la difesa collettiva, bisogna misurarsi con una data linea sindacale e politica. Difficile che i giovani lavoratori possano da soli farla saltare e costruirne una completamente diversa. Più facile sarebbe se, assieme a loro, la battaglia fosse data anche dai lavoratori ancora "tutelati". Questi avrebbero, in realtà, un serio interesse a unificare le condizioni contrattuali, per impedire che l’accesa concorrenza sul mercato del lavoro sia usata per costringerli a ulteriori arretramenti. Ma anche per loro si pone il problema di fare i conti con l’impostazione di sindacati e "sinistra" (nonché propria!) e scegliere tra sottomettersi alle esigenze del mercato (il che comporta che la precarietà va conservata ed estesa) e le proprie esigenze (che si potrebbero realizzare solo dando battaglia a ogni forma di precarietà e flessibilità). Anche per loro, dunque, il problema non è solo di riprendere un determinato livello di organizzazione e di lotta, ma di riprendere una propria autonoma politica di classe, che si emancipi fino in fondo dalla subordinazione al capitalismo.
Può la "sinistra" offrire un nuovo quadro di riferimento politico, sindacale, organizzativo che risponda a queste esigenze del proletariato? Per quanto riguarda i Ds è facile, per chiunque (o quasi…), comprendere come il cammino da "partito dei lavoratori" a partito che sposa fino in fondo le esigenze del capitalismo, e di quello nazionale in particolare, sia già ampiamente divenuto irreversibile. L’unico piano che ormai i Ds assumono è quello di competere con la destra nel realizzare la "modernizzazione" del paese. Il modo di interpretare il ruolo non è identico a quello della destra, in particolare per quanto riguarda la condizione dei lavoratori, e gli anni di governo ulivista hanno mostrato come si sia "modernizzato" (cioè secondato le esigenze capitalistiche) evitando qualunque vero conflitto sociale. Alla fine si è riusciti a scontentare gli uni (i lavoratori) senza accontentare completamente gli altri (padroni e poteri forti della finanza nazionale e internazionale), ma si è, appunto, imboccato una strada che non ammette ritorni all’indietro, nemmeno a quel passato togliattiano e berlingueriano che pur introiettando fino al midollo le esigenze patrie e dei patrii affari, cercava, pur dentro questo quadro, di sostenere le ragioni corporative della classe operaia. Quella quadratura del cerchio è, oggi, insopportabile per il capitalismo, e l’incompatibilità tra le due cose è divenuta più evidente. I Ds si sono adeguati e hanno abbandonato ogni programma o velleità di difesa di un’"unica classe". A tal punto è maturata la cosa che dinanzi all’abbandono di un buon pezzo di elettorato proletario, D’Alema può fare spallucce e gioire perché vede spianata più di prima la strada verso un partito socialdemocratico che cerchi sì di catturare anche il voto operaio, ma senza che ciò autorizzi i lavoratori a sentirlo come il proprio partito, il partito che difende i loro propri interessi di classe, sia pure in quanto classe del capitale e della nazione.
Chi, invece, continua a blaterare (senza farvi conseguire neanche una vera determinazione di lotta) di ritorno al passato è Rifondazione, convinta che si possa far convivere il benessere dei lavoratori con quello delle imprese e dell’intero paese, che possano star bene tanto il capitalismo quanto il proletariato. Che sia sufficiente espungere gli "eccessi del liberismo" per ritornare a un capitalismo controllato e contrattato.
Al ritorno alla passata "convivenza" si oppone con tutta la sua forza l’altro contraente del compromesso sociale e politico del tempo che fu, il capitalismo con i suoi apparati organizzati e con le sue leggi non scritte. E ciò sarebbe il minimo. Il fatto è che tra gli stessi lavoratori la voglia di ritorno al passato gioca un ruolo sempre più residuale.
Non è che siano contenti di perdere le tutele conquistate. Anzi, per sé stessi vorrebbero ben difenderle (la riuscita degli scioperi contrattuali dei meccanici lo dimostra), senza preoccuparsi se altrove siano smantellate. Ma, per quanto riguarda tutto il resto, l’appeal del passato va sempre più scemando. Sono indicative, al proposito, le questioni della sanità e della scuola.
Entrambi i settori sono sottoposti a un processo di privatizzazione, che il Polo vuol portare a compimento. La "sinistra" diessina accetta il piano della privatizzazione, senza abolire completamente, però, il ruolo dello stato. La "sinistra" rifondarola rifiuta ogni privatizzazione e si pone a difesa del ruolo pubblico, sostenendo che è l’unico che possa garantire l’uguaglianza di trattamento e di opportunità per "tutti i cittadini". Tra i lavoratori questa seconda soluzione riscuote consensi decrescenti. Non perché tra loro si sia affermata un’ideologia liberista, ma, semplicemente, per delle prese d’atto inconfutabili: la sanità pubblica, sorta sotto la spinta delle lotte operaie e di cui s’è fatto una lunga esperienza, non garantisce affatto la tutela della salute, tanto meno in modo egualitario; la scuola pubblica ha dimostrato di non saper risolvere alcuno dei problemi dei giovani, non il lavoro e neanche la difesa da modi di vita pericolosi per sé stessi e per gli altri. È chiaro ai più che non si può andare avanti così, che c’è bisogno di una soluzione diversa. Quale? L’ideologia liberista fa breccia, sia pure non nella massa, su questi elementi di coscienza e lo fa come "naturale" conseguenza della pre-esistente impostazione riformista.
Innanzitutto, se bisogna farsi carico delle compatibilità e fare realisticamente i conti con la realtà del capitalismo, allora bisogna realisticamente ammettere che lo stato attuale del capitalismo non permette di continuare nelle grandi spese statali per sanità, scuola e quant’altro. Secondariamente: se lo stato ha fallito nella gestione dei compiti in materia è perché è incapace di orientarsi a un senso di responsabilità davvero sociale e di orientare, di conseguenza, allo stesso senso di responsabilità tutte le sue strutture e tutti i suoi dipendenti. Dove ha fallito lo stato, può riuscire la pura logica di mercato, il denaro. Se il medico dipendente dallo stato lavora svogliatamente e superficialmente, se l’insegnante pensa solo al 27 e s’impegna poco nell’educazione dei ragazzi, affidiamo, allora, il controllo su di loro a un controllore più potente; cosa c’è di più potente in una società capitalistica se non il profitto? Trasformiamo il paziente e lo studente in clienti, dalla soddisfazione dei quali dipende il guadagno e le cose cambieranno. D’altra parte, l’equazione secondo cui al privato corrisponderebbe il profitto mentre dal pubblico esso sarebbe escluso, è falsa. Anche la sanità pubblica è dominata dal profitto, delle case farmaceutiche, delle lobby tecnico-scientifiche, dei "luminari" che "contro" o dentro le strutture pubbliche costruiscono cospicui patrimoni, ecc. Né esente dal profitto è la scuola, le cui migliori strutture sono riservate, nei fatti, a chi ha i soldi per pagarsele, così come richiede esborsi gravosi a chi debba ricorrere a insegnamenti suppletivi.
Queste "prese d’atto" diventano armi potenti nelle mani del capitalismo, che anche grazie a esse provvede a smantellare quel poco di tutele strappate dal proletariato. Solo i comunisti, che non scoprono oggi come tutte le funzioni dello stato siano in stretta dipendenza dal profitto, possono dare una battaglia che le indirizzi verso una lotta coerentemente anti-statalista, in quanto anti-capitalista.
Mettere, infatti, ancora di più il tutto nelle mani del mercato non migliorerà la tutela della salute, né i risultati scolastici per i lavoratori e per i loro figli, anzi li peggiorerà al sommo livello. Di conseguenza, per assicurare davvero la tutela della salute al proletariato e per una scuola che risponda alle sue esigenze si deve lottare per sottrarre tanto la salute che la scuola al dominio del mercato, ma, proprio per questo, ci si deve porre su un terreno completamente nuovo rispetto a quello proposto dal ciclo del movimento operaio che si va chiudendo. Non un ritorno all’indietro, dunque, ma un’inevitabile passo avanti, che difenda gli interessi proletari senza riproporre il loro affidamento nelle mani dello stato. È ciò con cui la classe operaia, i giovani, le donne, gli immigrati, l’intero proletariato, deve fare i conti.
Fare i conti fino in fondo con il riformismo è reso ancora più urgente proprio da quelle prospettive che vanno emergendo tra i lavoratori. Una parte di proletariato (non solo leghista) individua, per esempio, la soluzione nel federalismo, cioè nella costituzione di entità politiche più "legate al territorio", che le popolazioni possano controllare meglio dell’attuale stato moloch. È una spinta prevalente al Nord, che mal si concilia con la contro-spinta che dal Sud invoca ancora le funzioni assistenziali dello stato, come s’è confermato il 13 maggio con il voto a chi sembrava promettere di voler ripetere le gesta della Dc nel rilanciare gli "investimenti al Sud". Ma, a parte questa contraddizione, il federalismo non dà maggior forza agli interessi dei lavoratori, anzi si rivolge proprio contro di loro, perché spezzando i legami unitari, ne indebolisce ulteriormente le forze. La legge federalista varata dall’Ulivo già contiene molti elementi che vanno in questo senso, a partire dalla possibilità che ogni regione possa intervenire in "materia di lavoro". Non siamo ancora ai "contratti regionali", ma ne sono poste le premesse. Il governo del centro-destra vi imprimerà un’ulteriore spinta, con l’appoggio di Confindustria che può, per questa via, finalmente realizzare il disegno di abolire il livello di contrattazione nazionale.
Il federalismo non risolve, quindi, anzi aggrava. Ma in alternativa a esso non ha senso riproporre la difesa dello stato centralista, riproporre, cioè, una difesa della centralizzazione basata sullo stato. Esso ha già mostrato il pieno fallimento, dal punto di vista degli interessi di classe dei lavoratori. Contro il federalismo bisogna dare battaglia durissima, ma per una centralizzazione basata sugli interessi di classe e su una organizzazione di lotta centralizzata che prefiguri una società non più centralizzata allo stato e, dunque, al profitto, ma agli interessi dell’umanità tutta che si possono realizzare solo abolendo e superando il sistema del mercato, del profitto e dello stato: il capitalismo.
Queste "convulsioni" che si agitano "dal basso" portano, al momento, acqua al mulino della destra liberista e federalista, e al capitalismo. È innegabile. In esse vi può essere una valenza positiva, che consiste nella petizione "anti-statale" che contengono. Questa petizione può, però, indirizzarsi verso un serio livello di autonomia di classe tanto dal capitale che dallo stato solo in presenza di una ripresa di rivendicazioni e di lotte, quindi, dinanzi a un dato soggettivo di protesta organizzata, militante, che urta contro leggi e assetti del capitalismo e se a ciò corrisponde anche un’azione cosciente di un’avanguardia organizzata, anzitutto di un’organizzazione coerentemente comunista.
L’emergere di queste contraddizioni, trattate qui a mo’ d’esempio (e su cui torneremo in modo particolareggiato), e di tante altre, rimandano alla necessità di una risposta globale a problemi che sono globali, che riguardano non questo o quell’aspetto di un sistema che, se adeguatamente corretto, potrebbe andar bene per tutti, ma il sistema nel suo insieme. Rimandano, cioè, in ultima istanza, allo scontro tra capitalismo e comunismo.
La congiunzione tra "movimento dal basso" e programma comunista non può darsi automaticamente. Pur tuttavia, essa comincia a essere posta con forza, più dalle necessità oggettive che nelle coscienze, come è del tutto ovvio. Le necessità oggettive richiamano il proletariato alla necessità di difendersi dalle aggressioni, e per difendersi deve dotarsi di un quadro politico, programmatico e organizzativo che sia completamente "nuovo" rispetto a quello con cui ha affrontato la fase che si va chiudendo. Nuovo nei rapporti con le altre classi e con lo stato, nuovo nelle modalità della lotta e nell’orizzonte che non può più essere angustamente "nazionale". Come è certa questa esigenza, altrettanto certo è che i primi passi verso la sua soluzione cominciano già (soprattutto, per ora, fuori d’Italia) a essere, sia pur timidamente, fatti. Essi non conducono direttamente alla congiunzione con il programma e l’organizzazione comunista, e prospettano, piuttosto, una fase di lotte, scontri, tentativi, esperimenti (di lotta, ma anche di organizzazione sindacale, politica, ibrida tra le due), in cui il vecchio continuerà ancora a mischiarsi con il nuovo. Ma, pure in questa fase di interludio, la presenza, organizzata e coerente, di una minoranza comunista può svolgere una funzione decisiva. A condizione, certo, che non ponga il programma comunista come un "a sé", staccato e "altro", come una "precondizione" posta a qualunque movimento di lotta, ma che sappia farlo vivere nella lotta, come elemento fondamentale per il suo stesso sviluppo. A condizione che sappia raccogliere l’esigenza che viene magmaticamente dal basso, che non è solo di resistere alle aggressioni sul terreno immediato, ma che è, appunto, anche di dotarsi di una visione, di un programma, di un piano d’azione, e, dunque, di partito, che risolvano in modo globale tutte le contraddizioni antagoniste suscitate dal sistema capitalista e che esso non può più contenere al livello di "pacifica convivenza di classe".
I terreni di scontro già aperti (lotta per la difesa della contrattazione collettiva, contro la precarietà, contro la "globalizzazione"), quelli che potranno, nel breve periodo, ri-aprirsi (pensioni, sanità, scuola, immigrati), come quelli che si preparano (aumentare la sottomissione delle donne all’oppressione del lavoro domestico e di cura, aborto, continuazione dell’aggressione ai danni dei popoli ribelli) richiedono una ripresa di iniziativa, di organizzazione, di lotta. In essa, e con essa, sarà inevitabile sottoporre a impietoso bilancio tutto il lascito che il vecchio ciclo del movimento operaio ci consegna, per riappropriarci di un armamento teorico, politico, organizzativo, in grado di costituire il nerbo di un nuovo protagonismo di massa, affinché l’umanità lavoratrice prenda nelle proprie mani le sue sorti e le sottragga a un sistema che ha da offrirle solo nuove sofferenze, sfruttamento e guerre.