Recensione |
Il gruppo Falce e Martello, una delle correnti "trotzkiste" presenti in Rifondazione, ha di recente pubblicato una riedizione de La rivoluzione tradita di Trotzkij (A.C. Editoriale coop, Via Astesani 22, Milano), motivandola sulla base dell'imprescindibile necessità di conoscenza di questo testo per il "dibattito" tra i comunisti, della relativa difficoltà a reperirlo in edizioni precedenti (la prima curata da Maitan per Schwarz, Milano, nel lontanissimo '56) e della maggior precisione e completezza filologica della presente edizione.
Siamo completamente d'accordo sul primo punto, tanto che offriamo gratuitamente l'indirizzo della casa editrice a chi, tra noi, volesse giustamente servirsene. Idem per il punto due. Quanto al terzo. lo sforzo dei "ritraduttori" dell'opera non ci sembra, ad un primo esame, aver molto aggiunto o corretto, visto che il vecchio Maitan -pessimo "marxista", ma non infame traduttore letterale (salvo poi tutti i tradimenti sostanziali possibili ed immaginabili nell'utilizzo del prodotto)- è stato qui utilizzato a piene mani, con insignificanti correzioni ed aggiomamenti (tipo un "eclatante" che il povero Maitan '56. e Trotzkij '36, non si erano ancora immaginati).
Una novità nella presente edizione, se vogliamo, è la pappardella introduttiva del "marxista" inglese Alan Woods (che pure accenna di sfuggita a qualche tema teorico di fondo -ma per eluderlo immediatamente-) e le brevi note pre-introduttive del falcemartellino Claudio Bellotti, delle quali ci basta citare questo solo passaggio: "La restaurazione capitalista (in Urss) non è avvenuta fondamentalmente per intervento straniero dall'estero... Il terreno di coltura della nuova borghesia che oggi domina in Russia non fu altro che la burocrazia stessa...": dal socialismo in un solo paese alla restaurazione capitalista in un solo paese: naturalmente contro Marx e. . . Trotzkij.
Il testo originale di Trotzkij, naturalmente, è altra cosa ed esso davvero merita il costo, non esagerato, della presente edizione. Trotzkij è grandissimo, innanzitutto, nel richiamare in primo piano la questione della rivoluzione internazionale, del rapporto tra economia e stato sovietici e politica del partito e dell'Internazionale perché, al di fuori di questo, tutto cade, necessariamente: le "specificità" ' dell'anello russo, cui è riuscita la rivoluzione politica, si inseriscono direttamente entro la catena internazionale del movimento rivoluzionario di classe, da essa ricevendo ossigeno od asfissia e ad esso, dialetticamente, trasmettendoli. Il terreno di coltura della controrivoluzione, come quello -ad esso opposto- della rivoluzione, è internazionale e non "russo"; l'infezione "burocratica" dipende da questo terreno internazionale, in corrispondenza alla struttura unitaria e diseguale del capitalismo mondiale e non da supposti fattori "endogeni" (magari suscettibili di superamento attraverso una "giusta politica interna"). Quindi: il ripiegamento sulla "costruzione del socialismo in un solo paese" è il risultato (ed il fattore agente) del ripiegamento del programma e del partito comunista internazionale -e questo lo capisce persino Alan Woods (cfr. p. 26)-.
Non si capirebbe nulla de La rivoluzione tradita qualora si guardasse ad essa come un semplice manuale d'interpretazione della realtà "economica russa". "Più che mai -scrive correttamente Trotzkij- i destini della Rivoluzione d'Ottobre sono oggi legati a quelli dell'Europa e del mondo" (p. 329): "cos'è 1'Urss?" significa "cos'è il proletariato internazionale, cos'è il suo partito?". Ed allora, tanto per incominciare, la prima e fondamentale misura propedeutica per salvare le "acquisizioni dell'Ottobre" sta nell'assoluta indipendenza del partito internazionale di classe, nella sua rottura inequivoca, teorico-politica ed organizzativa, con lo stalinismo, oltre che, beninteso, con la classica socialdemocrazia e tutte le forme di "anti-stalinismo" a coloritura democratico-borghese (vale a dire, nei fatti, pro-imperialista). Il grande Leone sarebbe, di certo, il primo a stupirsi del fatto che i suoi testi possano venir utilizzati e distorti sino al punto di servire da sgabello d'appoggio di forze politiche che si situano ad un livello più basso di quello dei Fronti Popolari, che non si vergognano di appoggiare "criticamente" dei puri governi borghesi persino nel momento in cui si macchiano delle peggiori nefandezze, del tipo guerra alla Jugoslavia, con la scusa del "realismo di sinistra", che stanno in un partito in cui possono -a giusto titolo!convivere assieme trotzkisti da burla, stalinisti da operetta e dirigenti della baracca arti-comunisti confessi dalla a alla zeta, salvo l'omaggio rituale ad un nome deprivato di ogni contenuto.
Quindi: il riorientamento dell'Urss è in primo luogo, questione di giusto, ed efficace, orientamento antagonista, di partito da parte dei rivoluzionari.
Tenuto ben per fermo questo, ci si può addentrare nel discorso specifico sulla "natura economico-sociale dell'Urss" svolto da Trotzkij entro tale quadro. Ed anche qui Trotzkij è splendido nel demolire dalle fondamenta alla vetta la catena di menzogne staliniste sulla costruzione del socialismo in progress in un solo paese. Stato di tutto il popolo? No. stato di oppressione in mano a nuove e vecchie burocrazie di stampo poco meglio - quando meglio ioche zariste. Liberazione del proletariato? AI contrario, sua sottomissione allo knut e sfruttamento all’ennesimo grado. Eguaglianza sociale? Al contrario. massima esaltazione, nella teoria oltre che nei fatti, della diseguaglianza di classe nella collocazione sociale e nella distribuzione dei beni. Emancipazione dal salario? Al contrario, soggezione totale del proletariato, "proprietario" della sola sua merce-lavoro sul mercato, alla direzione ("libera acquirente" di tale merce) "burocratica". Un capitolo del libro s'intitola emblematicamente L'accrescersi della diseguaglianza e degli antagonismi sociali e Trotzkij non teme di parlare di "appropriazione mascherata del lavoro altrui", di un passaggio di proprietà allo Stato che "non ha cambiato che la condizione giuridica dell'operaio", di Stato "padrone" incompatibile col "lavoro libero" in senso socialista. E il discorso coerentemente continua sino alla denunzia della regressione in senso borghese nei campi della famiglia, della gioventù, della cultura, dell'impostazione dei problemi nazionali etc. Qui Trotzkij non abbisogna né di correzioni né di aggiunte, perché parla il nostro linguaggio, il puro linguaggio marxista.
Eppure, "paradossalmente", proprio a questo punto insorge un problema di fondo, che non è di semplice "definizione" letteraria dell' Urss, ma del contenuto che vi presiede. Trotzkij dice, in sostanza: è vero (al contrario dei molti suoi scimmiottatori attuali, che non l'hanno mai compreso) che la questione della natura sociale dell'Urss è condizionata ad una somma di fattori interagenti dialetticamente tra loro nell'ambito di uno scontro internazionale di forze di classe e non un dato "giuridico" a sé risolvibile maneggiando codici formali; nondimeno, si dovrebbe poter dire che. con l'Ottobre, l' Urss ha "acquisito" uno status strutturale non più capitalista, o postcapitalista che dir si voglia, in relazione alla avvenuta presa di possesso "collettiva", via Stato, della proprietà. Non sarebbe un dato fisso, ché anzi la "burocrazia" ne prepara lo smantellamento, malo è fin tanto che ed a condizione che il proletariato (russo e non solo) lo sappia "difendere" dalla "restaurazione" capitalista in agguato impedendo il "ripristino della proprietà privata"
Su questo punto fondamentale d'interpretazione, ci sia concesso di dissentire completamente da Trotzkij, non solo sulla base del lavoro di un Bordiga di ristabilimento dell'abc marxista in materia, ma di Lenin e Marx, che Bordiga non fa che "semplicemente" riprendere e ribadire.
Trotzkij assume che la proprietà statale e la conseguente pianificazione rappresentano già di per sé una fuoriuscita economica dal capitalismo. Di lì si passa, egli scrive, come la crisalide deve passare per il bozzolo per diventare farfalla; il bozzolo, quindi, rappresenta un"acquisizione" da difendere anche se parassitata dalla burocrazia. Ora, è ovvio che il proletariato, impadronitosi del potere politico, debba tendere al controllo collettivo dell'economia e non possa farlo altrimenti che attraverso il bozzolo del potere economico statale. Ma, come spiega Lenin, "l'espressione repubblica socialista sovietica" altro non significa se non "che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosciamo come socialisti i nuovi ordinamenti economici" (siamo noi che sottolineiamo) definiti dal potere e controllo formali dello Stato proletario sull'economia, perché -nelle specifiche condizioni di arretratezza e dispersione economica sovietica di allora- tale potere e tale controllo possono, al massimo, consistere nello sviluppo di un'economia meno arretrata e dispersa e non possono farlo se non transitando, potere politico alla mano (sempre ricordando che la decisione politica non è mai una libera, indipendente sovradeterminazione in grado di violentare a piacere la base economica reale), per forme economiche che Lenin non ha tema di definire capitaliste. Dice Lenin: il "bozzolo" è la via per cui passa un moderno capitalismo e per cui siamo costretti a passare noi, è un bozzolo capitalista che ci sforziamo di controllare e dirigere, ma che chiamiamo col suo nome senza indorare in alcun modo la pillola. L'asse centrale non è costituito da una supposta acquisizione economica, ma dal tipo ed indirizzo del potere che ad un dato tessuto economico si applica: "Senza una giusta impostazione politica, una determinata classe non può mantenere il suo dominio, e non può quindi neppure assolvere il suo compito nella produzione" (Lenin, Ancora sui sindacati...).
La differenza tra Lenin e Trotzkij in materia emerge chiaramente nella discussione sui sindacati del '20, laddove Lenin è costretto a ricordare a Trotzkij che "il nostro Stato attualmente è tale che il proletariato interamente organizzato deve difendersi, e noi dobbiamo utilizzare queste organizzazioni operaie per difendere gli operai contro il loro Stato, e perché gli operai difendano il nostro Stato". Ed all'obiezione' Perché difendere la classe operaia, da chi difenderla, visto che non c'è più borghesia, visto che lo Stato è operaio?", egli replica che questa è una imperdonabile astrazione, perché "questo Stato non è completamente operaio", ma "operaio-contadino" con, in sovrappiù, una deformazione burocratica, e quando si parla di burocratismo si deve ricordare che esso dipende dal frazionamento e dalla "dispersione del piccolo produttore": un dato fisico correlato alla arretrata realtà economica di un paese al di qua dei traguardi capitalistici avanzati, non un'improvvida "escrescenza" sul corpo sano di un presunto "collettivismo" assicurato dalla statalizzazione.
Su questo punto, Lenin imputa a Trotzkij "una serie di errori" (la sua tendenza a vedere il lato "amministrativo", giuridico-formale, delle cose, come ricordato anche nella cosiddetta lettera testamento) "che riguardano il contenuto stesso della dittatura del proletariato", non propriamente una bazzecola. È un'astrazione parlare di "collettivismo" quando i rapporti di produzione tendono, e non possono che vitalmente tendere, verso le basi di una vera socializzazione, evolvendo da una realtà economico-sociale in stragrande misura addirittura pre-capitalista in direzione di un "capitalismo di stato" ancora lontano: quando la condizione di "lavoro salariato generalizzato a tutta la società" rappresenta ancora un traguardo lontano; quando, in queste condizioni, occorre transitare attraverso il lavoro salariato, la produzione di merci e tutto il resto; quando lo Stato è, in effetti, ben lungi dal deperire passando per le mani dei lavoratori e di un vero piano contabile sociale della produzione -cosa ben diversa dalla sua premessa costituita dalla gestione pianificata di un'economia arretrata da parte di un autentico partito comunista.
Vecchie questioni superate in appresso? Ma, con la sua teoria della difesa delle "acquisizioni dell'Ottobre" del '36, Trotzkij non fa che ripetere ed aggravare questo errore, tanto più nel momento in cui il vero partito comunista appare spazzato via in Urss e non resta più, di conseguenza alcun soggetto in grado di "assolvere il suo compito (socialista) nella produzione", come lo stesso Trotzkij pur vede e denuncia, ma fermandosi a metà.
I presentatori di questa edizione del libro asseriscono che né Marx né Lenin avevano potuto antivedere il problema "nuovo" della transizione. Noi li rimandiamo all'Ideologia tedesca, un "ignaro" scrittarello del 1845-'46 dove Marx in primo luogo spazza via ogni formalismo giuridico quanto alla questione della "proprietà privata" di cui si pretenderebbe dato il superamento attraverso il meccanismo della proprietà "collettiva" ovvero "statale" (due termini che fanno a pugni tra loro): "Divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività"; "con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l'interesse del singolo e l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci... appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo, l'interesse collettivo prende una configurazione economica come Stato separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria" (lo "Stato operaio" contro cui difendere la classe operaia perché esso possa essere da essa difeso e... deperito, n.).
Lo sviluppo produttivo che va in direzione del superamento della divisione del lavoro porta in sé tutte le stimmate del capitalismo, ed è un processo che il potere di classe può, con date misure, a date condizioni ed entro una certa misura, "controllare" e "dirigere" a patto di riuscire a stare in sella (e qui ricordiamo le brucianti sferzate di Lenin nei suoi ultimi anni: la macchina ci sfugge, crediamo di dirigerla e ne siamo invece diretti).
Ancora Marx. Senza "tale presupposto pratico assolutamente necessario (la grande produzione che il capitalismo ha già "socializzato" quale attività produttiva, n.)... si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda"; senza di ciò "1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste "circostanze" relegate nella superstizione domestica. 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale".
Con la degenerazione del potere "sovietico", non poteva che rimanere in URSS la potenza autonoma di rapporti economico-sociali di produzione operanti in puro senso capitalista. Lo Stato "proprietario collettivo" diventa padrone privato sulle spalle di un proletariato alienato non solo del "potere economico" (formula irrisa da Lenin). ma della fondamentale possibilità politica di dirigerlo sino alla saldatura con la rivoluzione in Europa. Se già nel '19 Lenin avvertiva che i soviet proclamatisi "organi di governo esercitato dai lavoratori sono in realtà gli organi del governo per i lavoratori esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici" per porre l'accento sulla centralità della questione dello Stato in relazione ai fatti economici (ben lontani da ogni socialismo in atto!), dovrebbe essere evidente che, con Stalin, viene meno anche il fattore condizionato del governo per i lavoratori, col che il processo economico si autonomizza definitivamente da ogni presupposto socialista, contro i lavoratori.
Noi non rimproveriamo a Trotzkij di non aver considerata conclusa la partita nel '36 od anche dopo, in riferimento ad un potenziale rivoluzionario della classe internazionale effettivamente non ancora del tutto consumatosi col trionfo e dentro il trionfo di Stalin. Battaglia andava data, ma non nei termini della difesa di una presunta acquisizione d'Ottobre fagocitata dallo stalinismo controrivoluzionario, bensì in quelli di un attacco contro quello Stato, contro la sua macchina di oppressione classista "covata" attraverso le maglie di una presunta "proprietà collettiva", per strapparla al nemico e rimetterla in riga con la "decisione" del partito comunista mondiale. Non faremo a Trotzkij il torto di dimenticare quello che egli scrive sul mutamento di sostanza che lo sbaraccamento della burocrazia da parte di un rinnovato movimento di classe comporterebbe, ma sta di fatto che la sua ipostatizzazione della "difesa della proprietà statale" in Urss quale "postcapitalismo" valse dapprima a scompaginare le stesse file dell'opposizione e poi ad aprire le porte ad una resa senza condizioni allo stalinismo ("comunque progressivo", unti o post-capitalista), come risulta anche dalle prefazioni "trotzkiste" al presente volume che si piangono addosso sulla "controrivoluzione degli anni '80", non vedendo in essa l'esito finale ed obbligato che 1 '-ignaro" Marx aveva già antivisto quasi cent'anni prima.
L'atto conclusivo di questa dégringolade fu l'atteggiamento di Trotzkij di fronte alla seconda guerra mondiale. Da un lato si definiva correttamente quest'ultima come un "conflitto imperialista", dall'altra si propugnava, dentro di esso, l'eccezione della "difesa incondizionata dell'Urss", cioè di uno dei partecipanti a pieno titolo a questo conflitto, sempre in relazione alla cosiddetta "acquisizione d'Ottobre" della "proprietà statale". Da un lato, correttamente, si chiamava alla fraternizzazione dei proletari tra loro opposti sui campi di battaglia dall'imperialismo (l'Urss esclusa? non diremmo proprio), dall'altro li si chiamava tutti a "difendere 1'Urss" dietro uno dei carri armati imperialisti ed alcuni di essi addirittura ad accogliere come "progressiva" la conquista dei propri paesi da parte di una "burocrazia non capitalista". I risultati? Una valorizzazione indiretta dello stalinismo, una accresciuta divisione tra le varie frazioni internazionali del proletariato (prime fra tutte quelle sottoposte all'amorevole cura "progressiva- del neopadrone "sovietico"), nessuna forza di resistenza, infine, all'inesorabile processo di adeguamento del tipo giuridico di proprietà in URSS ai reali rapporti produttivi e sociali nel frattempo determinatisi e solo sanzionati, non "creati" dalla perestrojka e quel che ne è seguito.
La formula "rivoluzione politica e non sociale" suona stupefacente sulla bocca di un marxista del calibro di Trotskij dopo tutto quello che egli stesso ha detto sull'alienazione crescente del proletariato rispetto ai processi economici ed al potere nel regime stalinista. Come si potrebbe immaginare di rompere quest'ultima al di fuori di una rivoluzione sociale? E cos'altro potrebbe significare l'espressione di Trotzkij relativa al completo mutamento qualitativo che la defenestrazione della burocrazia verrebbe a significare se non una rivoluzione sociale?
Si tratta di contraddizioni, beninteso, che non implicano una rinunzia da parte di Trotzkij agli assi fondamentali di una corretta concezione del socialismo a venire e di una recisa rivendicazione dei cardini essenziali relativi al partito ed alla rivoluzione internazionale. Di qui la sua continua insistenza sui compiti antagonisti dell'opposizione di sinistra rispetto allo stalinismo e l'orizzonte tenuto ben fermo della rivoluzione internazionale, con la sottolineatura che le stesse proclamate "acquisizioni dell'Ottobre " hanno un carattere relativo e condizionato a ciò e che "dobbiamo subordinare gli interessi della difesa dell'Unione Sovietica agli interessi della rivoluzione mondiale" -lue termini non coincidenti "per definizione"-.
Resta la questione del grado di coerenza tra queste asserzioni e le posizioni politiche pratiche assunte: noi non vi vediamo coincidenza.
Contraddizioni pesanti, che probabilmente Trotzkij avrebbe sciolto in positivo alla luce dell'esperienza postbellica, ma su cui si è poi però sviluppato, in mano a somari ignari dell'abc del marxismo, tutto il percorso in discesa del neo-"trotzkismo" teso a rincorrere "da sinistra" lo stalinismo fino ai suoi esiti ultimi -e già inscritti dall'inizio nel suo DNA-. E, come lo stesso Trotzkij ricorda, la storia non perdona il minimo errore teorico.
Non lo diciamo con la boria dei "superatori" a buon mercato. Al contrario: il nocciolo marxista duro che Trotzkij ha sempre difeso, e che in questo libro trova splendide dimostrazioni, è quello che ha aiutato anche molti di noi, se volete, a meglio dipanare le questioni in oggetto e di qui a tirarne un bilancio coerente con l'integralità del marxismo che, scusateci l'impertinenza, va oltre Trotzkij ed i suoi noccioli meno duri.