TORNI IL MOVIMENTO FEMMINILE
DA PROTAGONISTA SULLA SCENA DELLA LOTTA
CONTRO I POTERI MONDIALI!

Indice


Le donne oppresse di tutto il mondo tornano prepotentemente in campo con un’azione diretta in modo unitario contro l’insostenibilità di un sistema sempre più inumano, per la realizzazione di grandi cambiamenti. Le premesse per un movimento veramente mondiale, collettivo, unitario tra donne del Sud e del Nord, ci sono tutte; così come le inevitabili illusioni e limiti. La mobilitazione, proseguendo, radicalizzandosi, approfondendosi, potrà superarli. A questo lavoriamo come comunisti, appoggiando con entusiasmo il movimento in lotta delle masse femminili, fattore essenziale come non mai della ripartenza e del rafforzamento del movimento anticapitalista internazionale.

Il 14 ottobre a Bruxelles, il 15 a Washington e il 17 a New York le donne marceranno manifestando contro la povertà e le violenze da esse subite ovunque nel mondo.

A marciare saranno migliaia e migliaia di donne dell’intero pianeta: del Nord e del Sud, bianche e colorate, di ogni nazionalità e religione. È una decisiva parte dell’umanità, quella femminile, che scende in piazza a urlare la propria rabbia contro il peggioramento generale e progressivo delle sue condizioni -e non solo delle sue!-, a esigere e pretendere cambiamenti radicali e soddisfazione immediata di obiettivi parziali, a far sentire e pesare la propria voce rispetto alle sorti dell’intero pianeta. È una parte estremamente significativa dell’intero universo degli sfruttati, anzi, quella parte che, nella sua schiacciante maggioranza, subisce in modo del tutto peculiare la condizione di oppressione e sfruttamento, caricata dalla fatica e dalla miseria che sono proprie della vita delle donne.

Povertà e violenza contro le donne sono i due temi intorno ai quali si è centrata tutta l’organizzazione della Marcia, temi scelti non a caso che ben rappresentano la condizione unitaria di vita delle donne oppresse di ogni angolo del pianeta.

Più di 4000 Organizzazioni da più di 150 paesi rispondono all’appello alla mobilitazione lanciato dalla Federazione delle donne del Quebec cinque anni fa. Dall’America Latina al Sud Est Asiatico, dall’Europa all’Australia, dal Canada e dagli USA all’intero continente africano migliaia di organizzazioni femminili si attivizzano, si mettono in collegamento via Internet, intessono rapporti e sviluppano dibattiti, rendono patrimonio collettivo una quantità di esperienze, iniziative, lotte, costruendo una rete organizzativa internazionale davvero notevole, e soprattutto facendo propria in modo risoluto la necessità di scendere in campo. Come mai una tale rispondenza?

Mobilitazione mondiale, organizzazione diretta

Il peggioramento delle condizioni di vita delle donne, nell’ambito dell’aggravamento generale dello sfruttamento e dell’oppressione, viene avvertito, a ragione, come un dato comune che interessa le masse femminili dell’intero globo in modo unitario. La risposta si sforza di rapportarsi a questo livello e mette in campo un’azione che supera l’ambito locale, nazionale o continentale.

Non è cosa da poco! Abbiamo davanti un movimento che si "autoconcepisce" come mondiale che lavora per realizzare risultati a questa altezza, che chiama le donne in piazza a una battaglia internazionale per battere l’oppressione. Un livello, che qualunque siano i limiti del movimento stesso e i concreti passi da fare per l’effettiva realizzazione di questo obiettivo, non possiamo non riconoscere come fondamentale. Tanto più se rapportato alle notevoli difficoltà del movimento operaio che stenta a intraprendere con decisione questa strada (pur dopo primi promettenti segnali quali la mobilitazione degli operai coreani, la lotta dell’Ups…)

Assieme al carattere mondiale della mobilitazione un altro dato è per noi da valorizzare: l’invito alla lotta, all’azione diretta e collettiva delle donne.

A cinque anni di distanza dalla conferenza di Pechino, dopo un lungo periodo di aspettative disattese, le donne prendono atto che è necessario scendere sul terreno della mobilitazione e dell’organizzazione diretta.

Gli organismi come l’Onu che precedentemente venivano considerati "dalla parte delle donne", e a cui erano affidate le loro sorti, diventano oggi la "controparte" su cui è necessario, se si vogliono ottenere dei risultati, far pressione, con la lotta. E le istituzioni finanziarie internazionali, Fmi e Banca Mondiale, vengono viste come nemico da combattere in modo unitario!

Le due facce dell’oppressione

La mondializzazione della lotta è accompagnata -e il legame non è casuale- nel programma della mobilitazione dall’unità tra il dato materiale, economico (la lotta contro la povertà) e quello della sopraffazione più generale, non meramente economica (la lotta contro la violenza sulle donne). Povertà e violenza hanno il pregio e la capacità di sintetizzare, evidenziandolo, il carattere globale dell’oppressione della donna, muovendosi in direzione del superamento di uno dei limiti che troppo spesso ha caratterizzato e caratterizza le battaglie che su questi temi si conducono o si sono condotte.

La femminilizzazione della povertà al Nord come al Sud, un processo riconosciuto dalle stesse statistiche ufficiali, dimostra che in prima fila nella drastica caduta delle possibilità di vita, che interessa milioni di proletari, lavoratori, precari, sfruttati in genere, ci sono le donne. Sono loro la gran parte di quel miliardo e mezzo di sfruttati che vivono con meno di un dollaro al giorno. Sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto in termini di povertà e violenza in quell’abisso di miseria in cui il Sud del mondo sta precipitando grazie alla rapina e alla spoliazione operata dall’imperialismo attraverso le politiche della finanza internazionale, i piani di risanamento del FMI e, quando ciò non basta, attraverso la potenza di fuoco delle cannoniere.

Ma nelle stesse metropoli occidentali quelle identiche politiche stanno condannando sempre più donne a una condizione inumana, in particolare quelle di colore, le immigrate cui si riserva un supplemento di oppressione e violenza.

Immesse in misura sempre più rilevante sul mercato del lavoro, al Nord come al Sud del mondo, vi rappresentano la parte più sfruttata e ricattabile, nelle grandi concentrazioni produttive o nelle "fabbriche del sudore", nelle boite o nell’impiego part-time e atipico. Sono sempre e solo le donne a sobbarcarsi il peso dei figli, del lavoro domestico e di cura, nelle stesse cittadelle occidentali. La famiglia rimane ovunque il luogo "sacro" in cui si continua a perpetuare il ruolo di subordinazione e sottomissione della donna alla figura e all’autorità maschile, ruolo che si estende alla società e a tutti i rapporti sociali.

A questa condizione materiale si accompagna un incrudimento della violenza e dei soprusi che le donne subiscono. Non occorre che ci soffermiamo più di tanto sul mercato vieppiù fiorente della prostituzione e pedofilia internazionale o delle squallide industrie del sesso come punta dell’iceberg della mercificazione più generale di cui è oggetto il corpo femminile, né che a essere carne per il profitto -di chi ne tira le fila in Occidente- siano in particolare le donne del Sud del mondo. Nemmeno occorre che ricordiamo come la violenza, in primis domestica, contro le donne sia in ascesa ovunque. Di sicuro la donna, universalmente, è sempre più fatta oggetto di discriminazione, svalorizzazione e vero e proprio disprezzo per il suo corpo, le sue possibilità e capacità, il suo essere complessivo.

Donne bianche e di colore: un’unità di condizione e obiettivi

Povertà e violenza sono, quindi, la sintesi dell’oppressione, della sopraffazione e discriminazione comune alle masse femminili del Nord e del Sud del mondo.

Aver recepito, fino a farne uno degli obiettivi della Marcia, l’invito a "mondializzare la solidarietà" lanciato da alcune donne dei paesi del Sud del mondo nel corso delle mobilitazioni del ‘95 in Canada, è un passaggio importante. Registriamo con soddisfazione che dei primi nuclei di donne occidentali prendono coscienza di questo: si può migliorare la nostra condizione qui se ci facciamo carico di migliorare la condizione generale, mondiale delle donne. Si individua, ai fini dell’efficacia della lotta contro questo sistema, la necessità dell’unità internazionale delle donne sfruttate! Tale necessità non nasce dalla semplice comprensione empirica che sommando le forze si può pesare di più -dato, per altro, non disprezzabile!– ma la conseguenza diretta di un elemento essenziale: l’unitarietà nella sostanza della condizione dell’oppressione femminile internazionale, seppur con forme differenziate, ad Ovest come ad Est, nell’Occidente "sviluppato", come nei paesi pauperizzati (dall’imperialismo) del Sud.

È davvero vitale, per una soluzione reale e non ipocritamente formale dell’oppressione di genere, mettere a fuoco e far proprio fino in fondo, il carattere globale e unitario dell’oppressione femminile a livello planetario, in quanto discende direttamente dalla società divisa in classi ed è indissolubilmente legato al capitalismo e alla sua sopravvivenza ovunque nel mondo.

Ciò è tanto più importante vista la propaganda delle centrali imperialiste che mira, attraverso un’opera incessante e martellante, a negare questa verità sostenendo al contrario la distanza abissale che separerebbe la realtà della "libera" donna occidentale da quella fatta di oppressione e umiliazione della sua sorella di colore -la donna islamica è quella che più viene utilizzata in tale genere di confronti.-

In fin dei conti, impulsando questo tipo di sentire, generalmente diffuso, i media, i governi, le istituzioni (e in sostanza le stesse forze della "sinistra") inculcano lo sciovinismo occidentale, la superstizione nella democrazia (imperialista, affamatrice, sanguinaria e dittatoriale sul proletariato internazionale), il mito della supremazia economica, sociale, "di civiltà" del "nostro" sistema, dei suoi risultati e dei suoi progressi anche in rapporto alla condizione femminile (che al limite necessiterebbe di qualche ritocco migliorativo, ma su una strada di "emancipazione" già in gran parte percorsa). Nel far questo l’Occidente arriva a utilizzare la sacrosanta istanza di miglioramento e di riscatto della donna per legarne a sé le sorti, così dividendole e contrapponendole a quelle delle masse femminili dei paesi "arretrati". Così come, in generale, opera verso il proletariato di qui per dividerlo e contrapporlo al proletariato e alle masse sfruttate della periferia.

Libera ed eguale…?

Per quanto ci riguarda, nel vedere nell’oppressione delle donne del Sud e del Nord una comune oppressione, non operiamo semplificazioni negando forme, modi e intensità differenti dello sfruttamento, della violenza, della possibilità di accesso alla vita sociale e della materialità della condizione di vita della proletaria di Londra, o di Roma rispetto a quella della donna somala, nicaraguegna o della bambina thailandese (così come tra il proletario delle metropoli e della periferia). Dubitiamo, però, fortemente che a queste forme diverse corrisponda anche un grado di emancipazione, di liberazione diverso e, peggio, abbiano cause diverse. 

L’"arretratezza" nei paesi della periferia non sta a sé, non è il prodotto di condizioni locali, ma il diretto portato (tramite le classi asservite di lì) dell’azione dell’imperialismo, dello sviluppo combinato e diseguale proprio del capitalismo. Le forme con cui l’oppressione della donna vi si presenta va riportata in primis all’opera incessante di rapina e oppressione dell’Occidente che vive e prospera proprio grazie al mantenimento di forme economico-sociali precapitalistiche insieme all’introduzione di forme capitalistiche "moderne" nelle loro espressioni più brutali. Non è forse quest’opera che determina il regresso di interi continenti, delle loro economie, delle loro strutture sociali e familiari? Su questo punto non sono da poco alcune lezioni che il movimento per la Marcia, almeno nella sua parte più significativa, inizia a trarre intravedendo il nesso tra "patriarcalismo" nei paesi "arretrati" e la globalizzazione imperialista.

Qualcuno potrebbe obiettare: va bene, ma non resta un dato ovvio che lo sviluppo capitalistico ha reso più "libera" la donna, massimamente nell’Occidente, e che quindi la condizione di questa non è neanche lontanamente paragonabile a quella della donna del Sud del mondo? Può sembrare paradossale, ma non è precisamente così.

Se l’immissione della donna nell’inferno della produzione (e delle relazioni sociali capitalistiche) rappresenta un progresso, questo è vero solo perché, al pari dell’uomo, anche essa viene a far parte dell’esercito proletario, è cioè posta in quella posizione oggettiva e soggettiva di classe, premessa e condizione della sua liberazione.

Entrando in fabbrica essa conquista, in una posizione comunque di inferiorità rispetto all’uomo, la propria "indipendenza economica", ma in quanto donna e persona non ne trae alcun vantaggio: il capitale sostituisce alla frusta del dominio dell’uomo nella famiglia patriarcale, dominio comunque mitigato dalle relazioni personali, il flagello di un rapporto puramente e assolutamente mercificato. L’industrializzazione capitalistica non rappresenta altro che una nuova, e più totale, fonte di schiavitù per la donna; pone le premesse ma non rappresenta uno strumento di emancipazione per essa.

Di più, il capitalismo -quanto più estende il suo dominio dalla produzione all’insieme dei rapporti sociali, e questo processo è di gran lunga più avanti in Occidente- non estingue ma lascia inalterate e approfondisce le ragioni e le forme concrete del dominio dell’uomo sulla donna, della sua oppressione di sesso, nel mentre nasconde e mistifica al massimo grado tale forma di sopraffazione. Sotto le vesti di una presunta parificazione dei diritti e del massimo di "libertà e opportunità" maschera forme di oppressione più raffinate proprie del dominio totale del capitale. Spoglie più che mai di dignità e attributi umani, oberate dalla mole di lavoro e responsabilità quotidiane che rendono irraggiungibili i modelli proposti dalla società occidentale, apparentemente libere sessualmente, le donne delle metropoli vivono nel micidiale inganno di non aver nulla da cui liberarsi, inconsapevoli di quanto il controllo sulla totalità delle loro vite sia globale e profondo.

Entro questo sistema la donna rimane schiava e oggi perde persino molte delle guarentigie conquistate (con la lotta) o concesse, a seconda dei casi, nel periodo di affluenza del capitale e in un ristretto ambito del globo.

Il nodo centrale, dunque, è che non si può dare reale soluzione della questione femminile senza lo sbaraccamento del sistema capitalistico, e che per questo tutto ciò che divide le oppresse del Nord e del Sud, tutto ciò che divide e isola la lotta delle donne dalla più generale lotta del proletariato, è un ostacolo contro cui combattere.

Non fermarsi a metà

La nostra attenzione a questa iniziativa, la valorizzazione del percorso che una parte di queste donne sta facendo, derivano dalla convinzione che questa mobilitazione rappresenta un anello importante di una catena che va compresa e utilmente indirizzata. Sappiamo perfettamente che questo movimento non è affatto omogeneo. Una sua parte ha cominciato a cogliere i nodi della questione. Non solo rispetto alla denuncia degli effetti dell’attuale assetto sociale sulla condizione femminile ma anche, risalendo in qualche modo da questi effetti alle cause strutturali dei processi che riguardano la vita delle donne e il funzionamento della società nel suo complesso, a individuarne, in qualche passaggio, il vero responsabile nel sistema socio-economico (capitalistico) in quanto tale ("sgominare l’ordine stabilito"). Un’altra parte sembra rimanere, invece, ancora attardata (particolarmente in Europa ivi compresa l’Italia), su soluzioni stataliste, confidando nell’azione dei propri governi (si tratta pur sempre degli stati del "civile" Occidente!), dell’Onu, cui si rivolge con petizioni piene di fiducia. Al tempo stesso, non ponendo al centro la questione dell’azione diretta, accentua una sorta di "separatismo" individualistico che riduce la soluzione dei problemi delle donne alla "libera scelta individuale".

Ciò nonostante noi appoggiamo completamente la mobilitazione effettiva, la salutiamo come un elemento di ripresa. Ma proprio per questo non sosteniamo, ma combattiamo le illusioni presenti che alla fine renderebbero vani gli sforzi intrapresi. Dalla Marcia (come da Seattle…) affiora un’esigenza di "socialità" -la ricerca cioè di una soluzione collettiva a problemi collettivi, sociali, contro i guasti "globali", profondi, di un mercato sempre più mondializzato- che è in misura crescente costretta a fare i conti con gli ostacoli oggettivi, con le barriere anti-sociali tirate su dal capitalismo. Di qui la necessità di una battaglia e, in essa e grazie ad essa, la possibilità di una chiarificazione, di un bilancio, per andare avanti con una mobilitazione che sappia mettere meglio a fuoco i nemici, individuare gli alleati, affinare gli strumenti di lotta. L’azione diretta, la mobilitazione mondiale, la disillusione verso gli stati, un certo "anticapitalismo", tutto ciò ci dà la possibilità di porre un cuneo utile alla decantazione delle sole posizioni conseguenti. Queste donne si interrogano concretamente sul da farsi, e qui saltano fuori tutti i problemi che devono essere risolti sulla base di una chiarificazione entro un movimento allargato.

Cosa significa ciò in concreto? Questo movimento è nato su un terreno, se vogliamo, abbastanza istituzionale, ma per proseguire ha dovuto porsi la semplice domanda se confidare negli organismi internazionali o non piuttosto mettere in moto un percorso di lotta. Data quest’ultima, semplice risposta, si pone la questione: le istituzioni internazionali possono fare quello che le donne vogliono raggiungere? Non sono istituzioni organicamente pro-mercato, quel mercato che si sta rimangiando pezzo dopo pezzo tutte le conquiste delle lotte femminili? Fino a che punto l’Onu -quand’anche riformata, "democratizzata"- può fare ciò che non ha interesse a fare in quanto organicamente subordinata alle potenze imperialiste che l’hanno creata (come mille e una vicende della sua storia dimostrano)? E non vale lo stesso per i governi cui la piattaforma si rivolge perché realizzino, pur sotto la pressione della piazza, strategie per l’eliminazione della povertà e della violenza (fino a proposte francamente reazionarie come quella del rafforzamento degli apparati di repressione)?

Fmi e Banca Mondiale vengono visti come i veri detentori del potere mondiale contro cui mobilitarsi. Bene! Ma attenzione a non accreditare l’illusione di poter modificare, quand’anche con la lotta, la sostanza di questi organismi che da ciò trarrebbero una rilegittimazione (dando a vedere di darsi da fare per il "bene" del Terzo mondo "contro" i "corrotti regimi" locali). Attenzione a non cadere nel tranello di denunciare il "ritardo" dell’Occidente (magari nel far rispettare i "diritti umani" nei paesi "arretrati") e non piuttosto il suo organico interventismo imperialista! La stessa fondamentale battaglia contro le guerre, oggi dichiarata, dovrà e potrà essere condotta non solo per le ricadute materiali sulle condizioni di vita delle donne, ma anche e principalmente, per battere l’opera di frammentazione e contrapposizione di sezioni di classe a cui l’imperialismo lavora nella sua azione di rapina e aggressione militare contro le masse del Sud.

Comunque la si mette, diventa vitale andare verso una battaglia aperta contro le istituzioni internazionali, non per riformarle, ma per prepararsi ad abbatterle.

Così come non ci si può fermare a metà strada confidando in una possibile riorganizzazione "equa e solidale" del mercato mondiale. Perché in questo modo si finisce col riproporre proprio la causa di fondo, strutturale di tutto ciò che è all’origine della condizione delle donne (e dei popoli del Terzo mondo e del proletariato). Il bersaglio vero non deve essere semplicemente il "capitalismo neo-liberista" (visto come una specifica forma, una specifica politica del capitalismo), ma il capitalismo in quanto tale. Va abbandonata l’illusione che la soluzione ai problemi denunziati si possa dare senza un sovvertimento generale dell’attuale modo di produzione, bensì "civilizzando gli eccessi del capitalismo emergente" (con presunte panacee come la Tobin tax contro gli eccessi della speculazione finanziaria). Questo il passaggio ineludibile per un movimento che non voglia fermarsi nella battaglia contro un’oppressione che, per parte sua, non si ferma.

Sono limiti, questi, in certo qual modo "inevitabili" di una ripartenza agli inizi necessariamente spuria. Decisivo, però, è che ci sia lotta, che ci si muova su gambe reali con una tensione vera a combattere nella globalità la condizione della donna. Quanto più si andrà avanti sul serio nella battaglia tanto più si svelerà come i poteri economici e politici, mondiali e locali, sono i nostri nemici; tanto più si percepirà come ineludibile l’esigenza di unirsi, contro il capitalismo.

Donne e socialismo

Ecco allora presentarsi l’altra, fondamentale questione: è possibile una lotta a fondo contro l’oppressione femminile portata avanti con successo solo dal movimento delle donne? Se si vuole veramente iniziare a fare i conti con i poteri mondiali, come non vedere che questi poteri sono gli stessi che sfruttano e opprimono lavoratori e proletari? Non si impone allora un "incontro" con il movimento dei lavoratori contro l’insieme del sistema disumano che fagocita uomini e donne, lavoratrici e lavoratori, oppresse e oppressi? Su questo tema -essenziale, non secondario o anche solo aggiuntivo, per le sorti della battaglia che si è aperta - il programma della marcia rimane ancora sul vago.

Ovvia, ma non banale, obiezione: oggi non si vede un movimento operaio forte sulle sue gambe, su posizioni antagoniste al sistema. Certo, non lo si può negare. Ma intanto .a voler guardare un po’ più a fondo le cose- segnali di ripresa delle lotte operaie e proletarie vengono un po’ da ovunque. Non è, però, questione solo di ciò che è all’immediato il movimento operaio. L’unità di fondo del sistema capitalistico di oppressione e sfruttamento richiama ed esige, sul fronte opposto, un’unità di intenti, organizzazione, mobilitazione e programma degli oppressi e sfruttati con le oppresse e sfruttate! Per avere maggior forza, per rompere con le divisioni, per conquistare sul campo quell’effettiva unità uomo-donna che non può che essere il frutto di una lotta unitaria dell’insieme della classe oppressa.

Di più. Nei termini propri dell’impostazione marxista (contro le deformazioni di socialdemocrazia e stalinismo) non si tratta semplicemente di aggregare le donne al movimento operaio, come gli addendi di una somma, bensì di costruire uno schieramento generale anticapitalistico di cui le donne, in primis quelle lavoratrici, siano parte integrante così come oggi sono parte essenziale, e più oppressa, del meccanismo che tiene in moto il sistema. Non dunque fattore da aggiungere, ma protagoniste in prima linea della battaglia per una società finalmente "umana", senza la cui attivizzazione non è possibile neanche rimettere in piedi un movimento di classe degno di questo nome.

Proprio per questo, pur di fronte a una certa "invisibilità", oggi, del movimento operaio, il movimento delle donne non può limitarsi a registrare questa assenza, ma deve sollecitarne la ripresa, assumendosi in prima persona l’onere di un proprio intervento verso di esso per scuoterlo dall’attuale torpore e riattivizzarlo in una battaglia comune.

Si tratta di recuperare il filo di passate battaglie (il cui apice finora ha coinciso con l’ondata rivoluzionaria internazionale degli anni Venti) che hanno visto le prime consistenti conquiste delle donne darsi nel quadro di un movimento operaio all’altezza dei suoi compiti di lotta. E di farlo a un livello superiore imposto dallo stesso sviluppo raggiunto oggi dal capitale.

Con ciò noi non diciamo che le donne non abbiano il diritto (e il dovere) di muoversi inizialmente da sole, in quanto tali; ma questo, se è un buon viatico iniziale, non rappresenta una regola eterna, proprio perché queste stesse donne vedono i nessi esistenti tra la propria condizione, in quanto donne, e il sistema che questa condizione "particolare" determina. Noi ci "limitiamo" a riprendere da qui -di contro alle forze del capitalismo che vogliono dimostrare che le vie alternative a questa società hanno fallito- il filo che conduce dalle questioni affrontate sul campo dal movimento, all’istanza di una soluzione globale di sistema, di un’organizzazione sociale della collettività per la collettività. Solo con questa soluzione, che noi continuiamo a chiamare socialismo contro tutte le deformazioni (tipo l’ir-reale socialismo dei paesi dell’Est), è possibile una vera liberazione della donna.

In questo senso le compagne e i compagni dell’Oci parteciperanno a queste marce: la ricomparsa e il rafforzamento del movimento femminile è da sempre, per i comunisti, elemento vitale per il movimento proletario tutto. "Noi dobbiamo assolutamente creare un potente movimento femminile internazionale, fondato su una base teorica netta e precisa … Il movimento comunista femminile deve essere un movimento di massa, una parte del movimento generale di massa, non solo del proletariato, ma di tutti gli sfruttati e di tutti gli oppressi, di tutte le vittime del capitalismo e di ogni forma di schiavitù…".

Lavoreremo, dunque, dall’interno dello stesso movimento, perché superi gli attuali limiti di impostazione e di pratica. Il nostro impegno sarà affinché questa scesa in campo prosegua e si rafforzi, aumenti la sua forza, chiarisca i suoi obiettivi, individui sempre più chiaramente i suoi nemici, si organizzi, si colleghi e si unisca con la lotta di tutti gli sfruttati e gli oppressi che da ogni parte del pianeta sentono il bisogno di farla finita con questo sistema.