America Latina

Venezuela

LA "RIVOLUZIONE PACIFICA" DI HUGO CHAVEZ

 


Mentre scriviamo il presidente venezuelano Chavez va ad incontrarsi con Saddam, primo capo di stato straniero a visitare 1’Iraq dalla guerra del Golfo del ’91. Quando, per tutta risposta, dal Pentagono qualche uomo dell’imperatore fa sapere che gli USA "stanno perdendo la pazienza", la risposta del Caudillo è a tono: "Io, se voglio, vado pure all’inferno". Di un altro imperdonabile peccato si era già macchiato il suo governo: quello di aver rotto dichiaratamente l’isolamento di Cuba non nascondendo anzi la propria ammirazione per Fidel e per l’esperienza rivoluzionaria cubana.

Qualcosa di davvero intollerabile per l’imperialismo rischia di prendere corpo in America Latina: lasciar strada ad un governo che rivendica la propria dignità ed indipendenza nazionali, la non sottomissione all’impero, può avere un effetto moltiplicatore in tutto il continente. Un esempio sia per settori di borghesie dominate sempre più schiacciate dai meccanismi della globalizzazione capitalistica che per settori degli stessi militari ai quali può schifare la pura e semplice funzione di mercenari per la "Patria del dollaro" cui sono chiamati dall’imperialismo e dalle oligarchie indigene ad esso collegate, come s’è visto durante la sollevazione contadina ecuadoregna supportata appunto da una parte dell’esercito. Ma, soprattutto, l’imperialismo ha paura che si inneschi una dinamica che metta in moto le masse, il suo vero problema è se e quando dovesse iniziare la riscossa di classe delle masse oppresse operaie e contadine latinoamericane. Come pensano infatti gli Chavez, se davvero vogliono essere conseguenti nella loro rivendicazione di dignità ed indipendenza nazionali e non scendere prudentemente a compromessi con l’impero, di affrontare le manovre e gli attacchi di ogni tipo che l’imperialismo inevitabilmente porterà loro, se non chiamando alla lotta antimperialista diretta le masse degli oppressi?

Il tentativo nazional-borghese di Chavez, a cui sino a quando è coerente riconosciamo piena dignità (come salutammo con un "ben fatto!" la decisione di Saddam di prendere a cannonate gli infami sceicchi kuwaitiani), e che egli definisce di "rivoluzione pacifica", consiste proprio nel credere possibile una politica di difesa antimperialista senza lo scatenamento di una lotta di classe all’interno stesso del paese e tanto meno al di fuori dei confini nazionali. L’appello ad un "vero patriottismo" contro gli uomini corrotti e traditori del regime precedente, contro la "rancida oligarchia" legata all’imperialismo, dovrebbe essere il collante sufficiente per liberarsi dal giogo yankee e ricostruire l’economia e il tessuto sociale devastati dagli anni del liberismo selvaggio senza bisogno di una lotta di classe che si aborrisce e si teme.

La genesi di questo tentativo che si è imposto alla fine del 1998 per via democratica sulle ceneri di un regime ultracorrotto ci aiuta a capire come esso sia stretto fra l’incudine della pressione imperialista e delle sue basi interne al paese ed il martello della rivolta "anarchica" delle masse oppresse. Il primo tentativo di "salvezza nazionale" attuato da una parte dell’esercito guidata da Chavez risale al febbraio ’92, ma esso fallì e gli autori di quel "pronunciamento" si beccarono alcuni anni di galera. Ora, quel pronunciamento ovvero quella scelta di campo "patriottica" fu possibile e necessario dopo il "pronunciamento di classe" del proletariato venezuelano che nel marzo ’89, a pochi giorni dal varo del governo socialdemocratico Perez e la sua accettazione delle "ricette di salvezza economica" imposte dal FMI, si levò in rivolta a Caracas ed in altre città del paese, rivolta sedata nel sangue dall’intervento delle forze armate. Chavez stesso ricorda e riconosce quel movimento di collera popolare ma per dire che esso lo portò all’azione del 1992, e "senza l’azione del febbraio ’92 il Venezuela si ritroverebbe in una guerra civile. Perché il popolo cerca una via d’uscita dalla dittatura e dalla miseria"; "il merito del febbraio ‘92 è di aver evitato al Venezuela il bagno di sangue che è toccato a tanti paesi fratelli", cioè a significare: nessun movimento spontaneo degli oppressi, nessuna loro organizzazione autonoma in difesa dei propri interessi di classe ed in offesa degli interessi della borghesia venezuelana, "ci pensiamo noi" veri patrioti a "servire il popolo".

Va dato atto a Chavez in quest’anno e mezzo di "rivoluzione" pacifica di non essere indietreggiato dal punto di vista politico nella sua linea nazional-borghese di fronte all’imperialismo. Ma dato che la politica non si mangia, ora occorre dare conseguenza e pratica alla "rivoluzione" anche sul terreno economico e sociale. Gli intendimenti sono quelli di diversificare l’economia dalla "monocoltura" del petrolio, di bloccare le privatizzazioni e di rimettere in marcia un apparato industriale distrutto dalla speculazione finanziaria con la creazione di 11 poli industriali cui si promettono sgravi fiscali. Vi è poi "l’emergenza della terra", la necessità di una vera riforma agraria che colpisca il latifondo ("Non permetteremo più che esistano milioni di ettari lasciati inutilizzati da ricchi proprietari che se ne stanno magari a vivere in qualche città europea"), senza peraltro arrivare all’esproprio tout-court ("Non sono più questi i tempi degli espropri guidati dal generale Zamora"...). Inoltre vi è la messa in cantiere di una serie di misure di welfare su sanità ed istruzione a beneficio degli strati popolari. Insomma uno schietto programma nazional-capitalistico in difesa del popolo e del paese venezuelani stravolti da anni di rapina liberisti.

Questa agenda per il 2000 è, per il momento, solo sulla carta, ma il solo averla dichiarata ha provocato una massiccia fuga di capitali dal paese verso "patrie" più tranquille, segnatamente ...la Florida, ed una levata di critiche da parte dell’opposizione filoimperialista. Ad esse il Caudillo ha fieramente risposto: "Io vi dico che al piombo rispondo col piombo", alludendo agli imprenditori, alla stampa (che in larga parte lo osteggia) ed alla chiesa cattolica. Non si è avveduto il Caudillo che in questa sua fiera risposta vi è la smentita alla sua stessa "rivoluzione pacifica", che in tanto la rivoluzione è reale, in quanto tocca interessi borghesi interni ed internazionali ed è, di conseguenza, costretta a difendersi con la lotta. E qual’è la vera forza da mettere in campo se non quella delle masse contadine ed operaie? Con il che addio al pacifismo ed ai sacri principi democratici.

Se questo piano di ricostruzione nazionale è nei programmi a venire del governo, una misura di carattere economico è stata attuata da subito: il blocco per 10 mesi del rinnovo contrattuale nel vitale settore petrolifero. In pratica sacrifici da subito per i lavoratori del settore e ciò non ha mancato di offrire il destro agli uomini del vecchio regime, attraverso i corrotti capi sindacali, di approfittare del malcontento operaio per tentare di immettere contraddizioni nel "popolo" sull’unità del quale Chavez deve fondare la propria politica. Questo tentativo al momento non è riuscito, ma rappresenta una delle principali carte nelle mani della "oligarchia" venezuelana e dei suoi reggitori imperialisti, l’approfittare cioè delle contraddizioni e delle inconseguenze del governo "rivoluzionario" per sovvertirlo dall’interno. Chavez stesso ne è pienamente cosciente al punto da chiamare la classe operaia venezuelana ad organizzarsi e a distruggere i vecchi sindacati.

La questione non è da poco e non può essere glissata da un’avanguardia di classe. Il vero problema non sono i sacrifici in sé, quasi si trattasse di rifiutarli con un’ottica tutta economicistica (o, sul versante opposto ma speculare, di accettarli chiamando le masse a subordinarsi alla politica di Chavez). Il vero problema è: sacrifici per che cosa e in quale prospettiva politica complessiva? Servono nella battaglia contro l’imperialismo? Bene, ma allora l’unica garanzia per il proletariato è il suo diretto controllo sulle aziende e sullo stato esercitato attraverso la sua organizzazione indipendente e la richiesta di andare fino in fondo nella lotta contro gli interessi della "oligarchia" industriale, finanziaria e terriera venezuelana, e dunque contro l’imperialismo. E se è assolutamente vera l’affermazione del presidente Chavez che al piombo si risponde con il piombo, quale migliore difesa del processo rivoluzionario dai suoi nemici interni e da sempre possibili provocazioni imperialiste esterne dell’armamento generale delle masse operaie e contadine? Questo è il terreno sul quale l’avanguardia di classe venezuelana, con una propria organizzazione indipendente, deve chiamare le masse. Il governo "rivoluzionario" deve sentire il fiato proletario sul collo in modo che ogni suo compromesso, ogni sua inconseguenza nella lotta non si traduca in un arretramento per le masse lavoratrici.

La rivoluzione "pacifica" di Chavez si trova dunque di fronte ad un problema: andare fino in fondo oppure essere destinata a cadere. Se essa saprà proseguire fino in fondo nei suoi compiti nazional-borghesi, di necessità non potrà essere pacifica e di sicuro non sarà il Caudillo ad esserne il soggetto principale. È verosimile che per salvare e portare avanti il suo tentativo senza chiamare alla lotta di classe, Chavez barcamenandosi nelle contraddizioni e nelle conseguenze del "suo" movimento ricerchi come via d’uscita la costituzione di un "blocco" di stati renitenti al dominio imperialista (oltre a Cuba si pensi alla Colombia, all’Ecuador della rivolta india e campesina…), ma la battaglia fra imperialismo e masse oppresse avrà allora come teatro tutto il continente latinoamericano.