[che fare 39]  [fine pagina] 


IL GOVERNO PRODI NON CI E' AMICO.
QUINDI, NESSUNA NEUTRALITA'.


Indice

La crisi della "sinistra" non apre, di per sé, a soluzioni "più a sinistra"
Lotta di massa
Programma sindacale e politico
Rischio di ulteriore deriva
Contro il riformismo, battaglia a tutto campo

"Si respira un’altra aria tra i lavoratori. C’è maggiore serenità. Di questo sentimento il nuovo governo deve fare tesoro e le forti aspettative non vanno disattese". Così Cofferati, segretario nazionale Cgil, dopo il "successo" dell’Ulivo (l’Unità,1.5).

Forse tra i lavoratori si coltiva l’aspettativa di un "risarcimento" almeno parziale di quanto sottrattogli dai precedenti governi (e accordi sindacali); tra i sindacati, è certo, simili aspettative non ve ne sono. Il massimo di aspirazione sindacale (sempre Cofferati, l’Unità, 23.4) è che continui la "politica dei redditi" per "risanare il paese", che si "creino occasioni di lavoro" e si "riorganizzi lo stato sociale" (al modo in cui si sono "riorganizzate" le pensioni,...).

Risanamento del paese e rilancio delle imprese. Gli obiettivi corrispondono a quelli di Confindustria. Con una differenza. Per padronato e destra liberista i lavoratori debbono rinunciare velocemente -e senza condizioni- allo stato sociale e a ogni "rigidità", Cgil-Cisl-Uil hanno una politica più "moderata", che rilanci i profitti senza penalizzare eccessivamente i lavoratori: una "concertazione", con relativo bilanciamento tra le varie classi, dei sacrifici.

Le promesse dell’Ulivo davano speranza ai sindacati di un "rispolvero" della "concertazione", ma la speranza ha già vacillato quando Prodi ha annunciato 18 mesi di "rigore", manovrina subito, due finanziarie di "lacrime e sangue". I toni sono stati decisi, e immediatamente ripresi da FMI e UE, per i quali 18 mesi son pochi. A chi applicare il rigore? Alle aziende? Escluso, quelle vanno "rilanciate", mica le si può gravare di ulteriori pesi fiscali! Sui padroncini e sui ceti medi? Difficile, durante la campagna elettorale l’Ulivo si è impegnato a lasciargli invariato il carico fiscale, e se mancasse all’impegno il mitico "centro" abbandonerebbe la coalizione con la sinistra. Se non bastasse, Bossi si è posto, al nord, a baluardo della loro difesa: ogni nuovo balzello su ceti medi, padroncini, artigiani del nord, sarà, d’ora in poi, una potente spinta all’indipendenza della Padania.

Insomma, il cerchio (o il cappio?) si va stringendo di nuovo intorno alla classe operaia e al proletariato tutto. Gli stessi dirigenti sindacali l’hanno intuito e alle dichiarazioni di Prodi han fatto seguire le proprie (l’Unità 30.4): nessun taglio alle prestazioni pensionistiche e sanitarie, e alle risorse per gli investimenti. I lavoratori "hanno già dato abbondantemente" ha aggiunto con (verbale) combattività Larizza, segretario Uil.

Impegni seri di rispondere con la lotta a nuovi "tagli" ai danni dei lavoratori, o promesse da marinaio? Le seconde, senza dubbio. La previsione è facile non perché i vertici sindacali siano per vocazione "traditori", ma perché le loro scelte future sono iscritte nel loro passato e nel loro presente, nella loro linea politico-sindacale. Questa è fondata sull’assunto che le condizioni dei lavoratori possano migliorarsi solo se l’economia complessiva del paese e quella particolare delle singole aziende godono di buona salute. Del tutto normale, quindi, proporre ai lavoratori i sacrifici necessari a risollevare le sorti dell’una e delle altre.

Un saggio di ciò i sindacati lo stanno, peraltro, offrendo, nei confronti di Confindustria che per "creare occasioni di lavoro" al sud rivendica ulteriori "flessibilità" fino alla deroga dei minimi contrattuali nazionali. Gabbie salariali? No, risponde il vice-presidente Callieri (il mondo, 27.4) sono troppo "rigide", meglio "un vestito su misura per ciascuna impresa"! Cisl e Uil sono disponibili a discuterne. La Cgil alza un muro contro la deroga ai contratti per paura (sacrosanta!) che ne consegua una tale generalizzazione da distruggere anche questo legame unitario dei lavoratori, ma per bocca di Cofferati (l’Unità, 21.4) ha dato la propria disponibilità a discutere, caso per caso, le "flessibilità", sull’esempio di Melfi, Gioia Tauro e Marzotto di Praia a Mare. Callieri -ed è tutto dire- le ha definite "soluzioni ipocrite"...

La condizione posta dai sindacati è che la quota di sacrifici dei lavoratori non sia "eccessiva" e sia bilanciata da quote di altri strati sociali. Quando questo non avviene (come con Berlusconi) allora parte la lotta.

Se l’equilibrio lo infrangesse Prodi, partirebbe la lotta? Qualche iniziativa sindacale probabilmente ci sarà. Mai e poi mai, però, arriverà a opporsi duramente al governo. Si può prevedere il refrain che sarà intonato ai lavoratori che si scaldassero troppo per gli "eccessi" dell’Ulivo: calmi!, un'aspra lotta contro il governo lo esporrebbe alla crisi, spianando la strada alle destre che lancerebbero attacchi anti-operai ben più duri.

 [indice] [inizio pagina] [next] [fine pagina]

La crisi della "sinistra" non apre, di per sé, a soluzioni "più a sinistra"

Per tenere, dunque, in vita un governo "meno ostile", i sindacati sono pronti a ingoiare peggioramenti delle condizioni dei lavoratori maggiori di quelli già da loro preventivati.

La disponibilità sindacale e quella della stessa "sinistra", non è, però, senza limiti. Non è immaginabile che il centro-sinistra possa attuare una politica anti-operaia alla stregua di un qualunque governo di destra. Per questo esso finirà col deludere entrambe le classi: la borghesia avvertirà l’insufficienza delle sinistre nel sottomettere completamente la classe operaia alle sempre più pressanti esigenze del mercato; la classe operaia non si vedrà difesa dal governo di centro-sinistra e dagli stessi sindacati. Ma, se la prima potrà trarre dall’insufficienza del centro-sinistra nuova spinta per riorganizzarsi, conferendo alla destra, senza ulteriori remore, il compito di passare all’attacco deciso delle postazioni proletarie, la seconda rischia di uscire dall’esperienza del governo "amico" con le ossa rotte, diminuendo il suo grado di adesione alla "sinistra" e al sindacato, ma diminuendo, nel contempo, il suo stesso grado di organizzazione e di tenuta unitaria.

E’ alle viste, insomma, un probabile scollamento tra "sinistra", sindacati e vasti settori proletari. Sull’eventualità contano in molti. Lo fa Rifondazione, che spera di beneficiare dal ruolo di partito che è fuori dal governo pur appoggiandolo. L’ambiguità può portar voti in qualcuna delle tante elezioni, ma gli impedisce di raccogliere coerentemente la "disillusione" dei lavoratori perché non può realmente impegnarsi a costruire un vasto movimento di massa contro Prodi. E’ probabile che il Prc non duri molto a fianco del governo, non per colpa sua -segnali "moderati" ne sparge già-, ma perché i "mercati" scopriranno di non tollerare neanche l’"operaismo" educato, "simpatico" (e tanto salottiero!) di un Bertinotti. In tal caso le avances del Prc ai lavoratori crescerebbero, ma la sua azione rimarrebbe, lo stesso, condizionata dalla paura che una radicalizzazione contro il centro-sinistra aprirebbe le porte alla destra. Nulla di nuovo, d’altronde. Non s’è già per lo stesso motivo "desistito" alle elezioni, auto-moderando il già morbido programma?.

Gran conto ci fanno i Cobas, Cub, Rdb, ecc.. Ma una "speranzella" la coltivano anche tutti quei gruppi di "estrema" ricomparsi, dopo anni di assenza, ai cortei del 1° maggio. Il risultato elettorale ha, curiosamente, galvanizzato anche le sparse forze anti-elezioniste (dialettico -e diabolico- potere della scheda!), da forze della "sinistra bordighista" ad altre di matrice trotskista o stalino-maoista. Tutti questi gruppi, pur nella completa diversificazione di posizioni teoriche, strategiche, tattiche, ecc., sono convinti che sia giunta l’ora del più classico -e più fesso- "due+due=quattro": il governo di centro-sinistra bastonerà i lavoratori, ciò li allontanarerà dalla "sinistra" moderata e li sospingerà verso la sinistra "più sinistra".

Ma, per realizzarsi questo vero e proprio salto della classe operaia dalle organizzazioni sindacali e politiche riformiste -e dalla sua stessa coscienza riformista- verso posizioni più radicali o, addirittura, conseguentemente di classe, è indispensabile che si realizzino due condizioni. Senza di esse il calcolo è sbagliato, e la speranza del travaso è esposta a cocenti delusioni.

 [indice] [inizio pagina] [next] [back] [fine pagina]

Lotta di massa

La prima è che l’abbandono della "sinistra" avvenga nel fuoco di lotte di massa, perché solo nel pieno di una decisa battaglia di massa il proletariato può sperimentare l’irresoluta contrapposizione tra i suoi interessi immediati e storici e quelli del capitalismo, con ciò revocare la delega alla "sinistra" e abbandonare le sue stesse illusioni riformiste di possibile convivenza tra suoi interessi e sistema capitalista. Il forte protagonismo della classe è una condizione indispensabile anche perché il proletariato, per determinarsi a qualunque più radicale passo, deve avere la convinzione più ferma delle sue proprie forze. Non è sufficiente, quindi, a determinare questa condizione la lotta, foss’anche risolutissima, di qualche settore della classe o di sue ridotte avanguardie.

E’ possibile che dinanzi alle misure anti-operaie del governo dell’Ulivo ci sia qualche settore del proletariato disposto a lottare anche in presenza di controindicazioni sindacali. Potrebbe trattarsi dei lavoratori di una grossa azienda, di un intero gruppo, di una categoria, o un movimento anche intercategoriale, ma che coinvolge solo una parte delle varie categorie. Se questo si darà, sarebbe un grande errore tendere a "radicalizzarne" la lotta. Questa aspirazione si può presentare con diverse argomentazioni. Una è la speranza che la lotta di una minoranza possa da sola bloccare l’offensiva governativa purché si doti della necessaria "durezza". Un’altra è che per chiamare alla lotta la massa "arretrata" si debba usare quella dell’"avanguardia" come "esempio", tanto più efficace quanto più "duro" e "radicale". Una terza argomentazione potrebbe essere quella di usare la radicalità della lotta per costituire l’involucro organizzativo dei "più combattivi", per invocare, poi, l’adesione di quelli che lo sono meno. In ognuno di questi casi non ci sarebbe il rischio, ma la certezza dell’isolamento (dalla rimanente classe operaia) che trascinerebbe anche quell’eventuale settore più combattivo alla sconfitta e alla delusione.

L’unico modo per sostenere e aiutare l’eventuale lotta di un settore limitato è, invece, quello di rivolgerne tutte le energie verso il resto del proletariato, per chiamarlo tutto intero alla lotta, per un fronte unico di tutte le forze proletarie, quelle "avanzate" e quelle "arretrate", quelle già in lotta e quelle ancora attardate a concedere altre proroghe alla "sinistra". Non è questione di intensità o durezza della lotta, ma degli obiettivi, del programma. Il primo degli obiettivi dev’essere proprio quello di estendere il fronte di lotta e di unificare le forze proletarie. Senza di ciò nessuno obiettivo -compreso quello "minimo" di bloccare l’offensiva di un qualunque governo- può mai realizzarsi, maggiormente nel quadro attuale di acutizzazione delle contraddizioni capitaliste, che spingono la borghesia a ridurre ogni spazio di mediazione col proletariato. L’estensione della lotta e l’unificazione del fronte proletario non possono, però, essere il frutto unicamente dell’oggettività, cioè della profondità dell’attacco avversario, né possono essere il frutto di una semplice invocazione rivolta da una, più o meno consistente, "avanguardia". Esse necessitano di una seconda, fondamentale, condizione.

 [indice]  [inizio pagina] [next]  [back]  [fine pagina]

Programma sindacale e politico

La seconda condizione è che si affermi all’interno stesso della classe operaia una tendenza, sia pur minoritaria, che delinei un programma sindacale e politico realmente alternativo alla logica perdente della "sinistra", e che sappia fornire le risposte alle domande che la classe è costretta a porsi nel mentre sperimenta la delusione di quella.

Il riformismo è riuscito per un lungo periodo a dimostrare alle più larghe masse la realizzabilità del suo programma, conquistando miglioramenti reali delle condizioni di lavoro, di vita, in campo sociale e politico, nell’ambito del sistema capitalista. Il suo impianto ha cominciato a vacillare con l’irrompere della crisi del capitalismo. Da allora esso non ha avuto più "nuove" conquiste da sbandierare dinanzi al proletariato (e con ciò ha perso pure i caratteri veri e propri di "riformismo" assumendo sempre più quelli di "sinistra del capitale"). Ma non per questo ha esaurito ogni suo ruolo e funzione "per la classe", anzi si è riproposto come elemento di mediazione dell’attacco che il capitalismo ha iniziato contro tutte le precedenti conquiste operaie. Senza di esso gli effetti di tale attacco sarebbero stati molto più devastanti. Esso è riuscito, da un lato, a moderarli, e, dall’altro, a renderli accetti alla classe operaia, rinforzandone la subordinazione all’andamento dell’economia capitalista.

Ma con l’approfondirsi della crisi e l’esplodere della concorrenza inter-capitalista anche questo ruolo di mediazione diviene sempre più precario: la più minima difesa delle condizioni del proletariato cozza sempre più violentemente con le necessità capitaliste. Non sono scomparsi soltanto gli "spazi riformisti", quelli per riforme "progressive", vanno scomparendo anche tutti gli spazi di difesa degli interessi immediati della classe nell’ambito del capitalismo. Viene, insomma, emergendo l’impossibilità di far coincidere la difesa delle condizioni proletarie con la difesa dell’economia nazionale e delle imprese. Per liberarsi di questa contraddizione la classe operaia deve potersi confrontare con una critica esplicita di essa, che sia in grado di fornirgli, anche, un piano sindacale e politico per fondare solidamente la stessa lotta di difesa dei suoi interessi immediati.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back]   [fine pagina]

Rischio di ulteriore deriva

Se (e fino a quando) queste due condizioni non si realizzano, uno scollamento tra proletariato e "sinistra" è molto più probabile che produca uno sfiduciato abbandono del terreno dell’organizzazione e della lotta, o, addirittura e come sta già avvenendo, un rafforzamento -elettorale, e non solo- delle forze di destra, tanto di quelle micro-nazionaliste come la Lega, quanto di quelle macro-nazionaliste à la Le Pen.

Bossi già si candida a raccogliere un consenso operaio al nord maggiore di quello di cui già gode, e, soprattutto, ha già iniziato un’attenta campagna per trasformare il consenso elettorale in militanza politica e sindacale degli operai al fianco della Lega. Egli sa che il governo dell’Ulivo imporrà nuovi sacrifici agli operai e che i sindacati avranno problemi a raccogliere la protesta operaia, mentre la Lega potrà, invece, raccoglierla per indirizzarla verso un federalismo che prospetti agli operai del nord di sottrarre i propri salari alla falcidia delle tasse per risanare il bilancio senza fondo che "Roma ladrona" destina all’assistito sud.

A intercettare il "malcontento" operaio si candidano anche Rauti e la "destra sociale" di AN (sull’onda dei vasti successi operai di Le Pen) per inserirli in una prospettiva di difesa e rilancio della "nazione Italia".

Questo travaso operaio dalla "sinistra" alla "destra" è meno impensabile di quanto si creda per il semplice fatto che è la stessa "sinistra", inconsapevolmente, a prepararlo. Quando ci si batte per anni affinché gli operai assumano come loro problema la difesa delle aziende e dell’economia nazionale, non ci si può affatto stupire che parte di essi -ricevuta l’ennesima delusione dalla "sinistra"- considerino del tutto logico aderire a quelle forze che risultano persino più coerenti nel sostenere fino in fondo quell’impianto. Quando si è sostenuto per anni la necessità di riconoscere e sottomettersi alle leggi del mercato, prima fra tutte quelle della concorrenza, non ci si può stupire se tanti lavoratori, proprio accettando fino in fondo tali leggi, abbracciano la logica di difendersi entro la Padania, abbandonando al proprio destino il sud, o non ci si può stupire se tanti lavoratori annuiscono alle proposte della destra contro i concorrenti-immigrati, ecc.

Notavamo nel precedente che fare come persino talune correnti sindacali di "sinistra" si battono per la "difesa del lavoro industriale", giungendo, per tale via, alla difesa delle industrie e all’invocazione di una "politica industriale" che salvaguardi l’industria nazionale dalla "colonizzazione" delle merci e dei capitali stranieri. Tutte materie che già Buchanan negli USA, Le Pen in Francia e i vari altri esponenti di estrema destra ovunque in ascesa, dimostrano di apprezzare e usare in modo ben più coerente e convincente.

 [indice]  [inizio pagina]  [back] [fine pagina]

Contro il riformismo, battaglia a tutto campo

Il rischio è, quindi, che un’ulteriore deriva coinvolga il proletariato, portandone significativi settori ad aderire, sulla base delle stesse illusioni "riformiste" di partenza, a forze che ne consoliderebbero la sottomissione alla borghesia e al capitalismo. Questo non sortirebbe l’effetto di decretare la morte della lotta di classe, che riesploderebbe, inevitabilmente, risospinta dalle contraddizioni di classe che il capitalismo non può mai eliminare, e che è anzi costretto ad acuire senza limiti. Ma è, certo, un motivo in più per convincere coloro che aspirano a essere o a divenire l’avanguardia del riscatto della classe operaia a esplicare una iniziativa, una battaglia che sia a tutto campo, che inviti alla lotta, che tenda a estenderne sempre più il fronte, e, soprattutto, che critichi a fondo l’impianto del riformismo, la sua completa subordinazione alle "leggi del mercato", l’orizzonte puramente nazionalistico cui il proletariato è stato finora indotto da esso a ridursi, per fondare, su quella critica, la sua stessa lotta di difesa dagli attacchi della borghesia.

Una battaglia da dare in tutti i luoghi e i momenti dove il proletariato lavora, agisce, si organizza, per riconquistargli la necessaria autonomia di classe, per ricostruirne l’unità all’interno di ogni singola sezione nazionale e, ancor di più, sul piano internazionale. Nel fuoco di questa battaglia e della ripresa del protagonismo di massa potranno correttamente porsi, e coerentemente risolversi, anche tutti i problemi relativi all’organizzazione sindacale e politica della classe. Senza queste due condizioni ogni discussione sul "fuori o dentro" i sindacati attuali, ogni tentativo di "radicalizzare" questa o quell’altra lotta, sono puri esperimenti di attivismo senza costrutto.

E’ quanto con le nostre forze cerchiamo di fare già ora, anche, per esempio, nel modo in cui abbiamo indirizzato la nostra presenza nel congresso della Cgil. Ed è ciò a cui chiamiamo tutti quei compagni che vogliono con tutte le proprie forze contribuire a invertire la rotta di naufragio cui la "sinistra" sta conducendo l’intera classe operaia, per lasciare naufragare il comandante-riformismo, ma per salvare tutta la ciurma-classe operaia e condurla verso la rotta di affermazione dei suoi interessi immediati e storici di abbattimento del capitalismo.

[che fare 39]  [inizio pagina]