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Speciale elezioni

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HA VINTO LA SINISTRA?


Indice

 

Questo "speciale-elezioni" è un invito a discutere sugli esiti del 21 aprile con la dovuta ampiezza e razionalità. Ad andare al di là delle apparenze: mai come questa volta, infatti, i vincitori reali sono diversi dai vincitori formali.

Sulla situazione post-elezioni tre diverse e contraddittorie illusioni sono presenti nella classe e nelle avanguardie. I proletari e i militanti che si riconoscono nella sinistra vedono nel governo Prodi un’opportunità "mai avuta in 50 anni"; per converso, i proletari attratti dalle sirene leghiste sono anch’essi speranzosi di veder arrivare buoni frutti dal successo "indipendentista" di Bossi; nel mentre una mini-frazione di lavoratori "anti-riformisti" inclina a pensare che finalmente stia per scoccare l’ora decisiva in cui il riformismo si smaschererà per sempre.

Non c'è da stupirsene, dato il corso precedente della società e del riformismo, ma, per parte nostra, mettiamo decisamente in guardia dalle insidie e dai pericoli insiti nei processi sociali e politici in atto. Al fine di incardinare su solidi indirizzi di analisi e di programma il che fare del proletariato e dei comunisti nelle battaglie politiche e sindacali che ci attendono. Di essi diamo qui gli elementi fondamentali, mentre in altre pagine del giornale ne precisiamo le implicazioni per le lotte immediate e contro il governo Prodi.

I risultati di questa puntata elettorale hanno fatto esplodere di gioia il "popolo di sinistra": finalmente, dopo decenni di attesa, ce l’abbiamo fatta; finalmente abbiamo la possibilità di governare... Era dal ’48 che fremevamo, si è lasciato improvvidamente scappare Berlinguer, rivestitosi quasi dei panni del vecchio PCI e dimenticando -come subito gli ha ricordato "La Stampa"- che questa vittoria è la figlia di quella del De Gasperi allora. Il PCI è stato definitivamente tolto di mezzo, e quel che resta della sua discendenza nell’Ulivo stia bene attenta a mostrarsi perfettamente degasperizzata: "Sulle scelte operate dall’Italia 48 anni fa non si torna indietro e la sinistra, se vuole avere possibilità di successo, deve tenerne conto in modo inflessibile. (..) Altro che bandiere fiammeggianti, altro che rivincite inaccettabili sul piano dei principi e improponibili sul piano dell’opportunità!". E, attenti!, "La partita è appena all’inizio". I mandanti della vittoria dell’Ulivo avvertono i sicari: picciotti, non si montassero la testa!

A brindare al successo non è stato, stavolta, un solo e riconoscibile "popolo di sinistra". Hanno festeggiato sì i Cipputi e chi direttamente li "rappresenta" -i D’Alema, i Bertinotti, i cicisbei del salotto Rossanda-Pintor etc. etc.-, ma a capotavola, bottiglia dello champagne a portata di mano, abbiamo trovati seduti i vecchi caporioni democristiani, i vecchi ruderi del garofano (a proposito di frequentazioni craxiane del Berlusca!), da Del Turco ad Amato passando per Benvenuto, persino decrepite facce dell’edera e del partito liberale; e c’erano i pezzi grossi dell’industria e della finanza, da Agnelli e De Benedetti ai vertici del sistema bancario nazionale. Su di tutti il sorriso di Dini e della sua lady, nota per i suoi investimenti nazionali in... Costarica, dove per un pugno di dollari sfrutta una manodopera locale poco meno che schiavizzata. Cipputi, ci sbagliamo noi , o non sei tu in preda a una crisi di rincoglionimento quando canti vittoria assieme (leggi: al guinzaglio) di simili "compagni"?

Un "popolo" strano, a dire il vero. E per fortuna che il popolo vero del proletariato e dei ceti bassi non ha avuto troppo modo di accorgersene dal momento che, noblesse oblige, i festeggiamenti si sono svolti in separate sedi, come dire: da Gualtiero Marchesi gli uni, alla bettola del "sor Nando" gli altri, tanto da non indurre indelicati sospetti sul significato reale di questa insolita comunanza di gaudio e l’improbabile accoppiata d’interessi che dovrebbe giustificarla.

Certo, l’autentico "popolo" che ha votato per l’Ulivo lo ha fatto per una petizione reale di sinistra, e contro una destra vera, la cui sconfitta era giusto (lo è anche e soprattutto per noi) prefiggersi, ed è a partire da queste premesse che esso ha manifestato la propria soddisfazione per una "vittoria" di cui si sente artefice, trascinandosi dietro nei festeggiamenti, presumibilmente, persino coloro che, nell’urna, si erano in qualche modo ribellati all’abbraccio ecumenico con le "altre componenti" più indigeribili dell’Ulivo.

Noi non irridiamo affatto queste buone intenzioni ed, anzi, è proprio prendendole sul serio, per l’esigenza giusta che pongono, che ci prefiggiamo di svolgere il nostro compito di comunisti, per mostrare che sono incompatibili coi programmi, i "compagni di viaggio" ed i mezzi che esse si danno. Da comunisti, abbiamo indicato, con una precisa azione militante, prima delle elezioni, che la via perseguita per battere la destra non portava utilmente da nessuna parte. E lo riconfermiamo conseguentemente oggi, pur di fronte ad un "pubblico" generalmente incredulo, preso com’è da una sbornia solenne che gli fa vedere quadruplicati i risultati conseguiti. Non c’è stata -come non ci poteva essere per questa strada- nessuna reale vittoria per sé dei lavoratori, neppure sul piano limitato e contingente dello stop per intanto imposto alla destra (per stare all’immagine cara al contorsionista Bertinotti).

Non c’è stata alcuna vittoria di sinistra. Al contrario, non una, ma tre destre hanno segnato dei punti forti a proprio vantaggio, e lo vogliamo qui pianamente spiegare, non in spregio ai sentimenti profondi della classe (che sono anche i nostri), ma proprio per attrezzarla ad affrontare le vere sfide, le vere battaglie a venire. Il discorso che qui abbozziamo, beninteso, ha poco a che fare coi soli numeri elettorali (già di per sé non esaltanti) truffaldinamente presi a solo e dirimente criterio di giudizio. E’ al di sotto ed al di là di questi numeri che si deve un tantino scavare.

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Habemus governum. Di chi?

Prima considerazione, partendo dai vincitori.

L’Ulivo ha conseguito sulla carta la maggioranza parlamentare. L’ha conseguita con l’apporto determinante dei voti di Rifondazione, sicuramente dati per un’opzione "popolare" (non propriamente proletaria e meno che mai comunista, neppure nelle più lontane intenzioni) sul governo a venire.

Ma, intanto, questi voti sono stati usati come utile, e fin qui decisiva, ruota di scorta nell’ambito di una politica tutta mirata al "centro", programmaticamente conforme ai dettati del sistema capitalista nazionale, dalle cui esigenze di ristrutturazione, accresciuta competitività in ambito internazionale, riduzione degli spazi di contrattazione del proletariato non ci si discosta di un millimetro. Voti utili, quindi, per stringere attorno ad una politica pienamente ed esclusivamente capitalista il consenso del proletariato con lo spauracchio della destra-Polo, e immobilizzarlo nel momento cruciale dell’avvio delle conseguenti misure concrete che detta politica comporta. Perché se un pugile si presenta semiaddormentato al match, per quanti titoli abbia, non può aspettarsi che il k.o. Grazie all’allenatore Bertinotti per il sonnifero dato al suo campione!

Quale classe può cantare per questo vittoria? Si è battuta con ciò la destra? Quello che è stato in primo luogo battuto, senza neppur bisogno di battaglie cartacee, è l’antagonismo di classe proletario, deviato a tirare la volata dell’Ulivo senza neppure il premio-ingaggio che, nel ciclismo, si concede ai gregari. I portaborracce avranno ben modo di accorgersene, con l’arrivo dei primi calci alle volonterose natiche. Ma sarà alquanto difficile, allora, mettersi in corsa in proprio: primo, perché si son già consumati, nella triste bisogna, fiato e muscoli; in secondo luogo perché la vocazione gregaria non verrà meno neppure allora. La classe, sì, ha la possibilità di fare vittoriosa il suo gioco. Purché si liberi, però, degli attuali allenatori e manager!

I mercati finanziari internazionali, si è detto, premiano l’Ulivo. Vero (e di sicuro non avrebbero premiato un visibile antagonismo proletario, ove si fosse manifestato!). Il perché ce l’ha subito spiegato La Stampa: i mercati in questione guardano con favore ad una politica di "risanamento" del capitalismo italiano che si compia con la disponibilità delle organizzazioni sindacali e dei partiti di sinistra, evitando lo scontro in campo aperto cui avrebbe portato la vittoria del Polo.

Sennonché, proprio questo è il problema. Le misure da prendere da parte dell’Ulivo dovranno essere sostanzialmente le stesse cui si richiama la destra. Senza alcuna attenuazione sostanziale rispetto agli ulteriori oneri da addossare sul groppone del proletariato. Semmai soltanto, e sarebbe il massimo, con una minore disponibilità nei confronti degli interessi particolaristici straccioni dei ceti declinanti della piccola e media borghesia cui occhieggiava "corporativisticamente" il Polo, così da "equilibrare" la distribuzione degli oneri. Noi dubitiamo persino di ciò.

Mentre scriviamo non possiamo sapere quali saranno le concrete misure della finanziaria-Prodi a venire, ma i suoi connotati fondamentali ci sono già ben chiari, e li vedremo poi all’opera (l’annuncio dato da Maccanico che sarà necessario licenziare anche nel pubblico impiego è un primo assaggio delle novità a venire). Certo: non si vorrà passare sul corpo del proletariato come un rullo compressore (come "sognava", senza averne i mezzi, di fare la destra), anche perché lo stesso PDS non potrebbe permetterselo. Il guaio prevedibile, però, è che ciò si tradurrà in un flaccido tira-molla in cui tutti e nessuno pagano subito, col conto sempre più alto rinviato al domani. Ed allora saranno guai...

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Il comunismo: uno spettro da esorcizzare.

Basterebbe aver sottomano il video di Tempo Reale del 2 maggio per comprendere la sostanza dei problemi. Il Nobel Modigliani, dopo aver brindato alla vittoria dell’amicone Prodi, avvertiva che è tempo di passare ai fatti per armonizzare l’Italia alle sfide del "mercato globale", indicando trucibaldo in Bertinotti (leggi: nel proletariato) un inciampo di cui liberarsi al più presto e senza remore. Lezione economica da Nobel: si deve prima passare al torchio il proletariato per rendere competitiva l’economia italiana (salari, diritti e stato sociale si devono adeguare agli standard mondiali, cioè alla concorrenza dei mezzi-schiavi dei "paesi emergenti"); di qui, e solo di qui, può sorgere nuova occupazione (se e quando...., e sempre e comunque ridimensionata a tali standard).

Faceva pena, nel salotto di Santoro, sentire Bertinotti richiamarsi, contro l’idolatria delle leggi di mercato, all’alta parola del... papa, al bisogno di "pensare", "sognare" un "diverso tipo di sviluppo", rigorosamente entro i confini del capitalismo -ma un capitalismo "liberal", prego!-, con tanta bella nuova occupazione per il soddisfacimento dei bisogni sociali no-profit, il tutto autarchicamente all’interno della sola Italia. La pena si tramutava in disgusto quando, evocando con esempi calzanti e coi giusti toni, la sorte cui il "libero mercato" condanna "la povera gente" (ah, linguaggio marxista!), il Fausto avvertiva i colleghi: attenti, se non ci poniamo rimedio, possono scoppiare rivolte devastanti che metterebbero in crisi la stessa società. Noi rifondatori, che questo non vogliamo, vi invitiamo a riflettere prima che sia troppo tardi; per il vostro come per il nostro comune interesse.

"Uno spettro s’aggira per l’Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi". Oggi, Marx ed Engels aggiungerebbero: e rifondatori "comunisti" che, non paghi di essersi tolta di dosso la macchia della rivoluzione e della dittatura proletarie, la agitano come spettro (per l’appunto!) di un disordine distruttivo che essi sono lì a scongiurare. Buona battuta di caccia, signori!

Nella stessa trasmissione è toccato all’ex-ministro Tremonti, in veste di difensore delle esigenze di competitività del capitalismo nazionale, rimettere marxisticamente le cose a posto. La mondializzazione capitalista, di cui tanto parla anche Bertinotti, chiariva il nostro, significa che oggi non solo non esistono possibilità di mercati chiusi e di corrispettive regole autarchiche in proprio, ma che, corrispondentemente, il proletariato diventa sempre più strutturalmente internazionale. "Si è avverata la profezia di Marx", diceva sgranando incredulo gli occhioni. Non lo diceva, chiaramente, per proporre a questo proletariato le sue storiche consegne; al contrario, con sacro terrore per l’eventualità che ciò possa darsi (e, appunto perciò, poco preoccupato di Bertinotti). Nondimeno, questo sarebbe stato un bel tema da svolgere, e l’unico possibile, per un marxista. Cioè: si possono combattere sul serio gli effetti del sistema mondializzato rinchiudendosi in casa propria, in nome di un "diverso tipo di sviluppo" nazional-autarchico, o non è invece necessario lavorare per l’unità internazionalista di classe, comunista, rivoluzionaria contro l’insieme del sistema e le sue intrinseche leggi? Ma questa era l’ultima delle cose che potesse passare per la testa del telegenico Fausto.

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Destra e sinistra borghesi: un'alternativa tra due forme di schiavitù per i proletari.

Siamo di nuovo quelli che dicono che destra e sinistra sono la stessa cosa?, che l’una e l’altra sono animate dalle stesse cattive intenzioni?

E’ una vita che cerchiamo di scrollarci di dosso questa stupida accusa. Abbiamo ben chiara la distinzione che corre tra lo "spirito" della sinistra e quello della destra, vale a dire, grosso modo, tra due diversi blocchi sociali di riferimento. Questa distinzione la teniamo presente persino quando si tratta di parlare degli stessi USA, dove, non a caso, i confini tra repubblicani e democratici spesso paiono annullarsi ed i due termini di destra e sinistra mescolarsi, travasarsi dall’una o dall’altra parte "indifferentemente". Farlo è indispensabile, per noi, se non si vuol correre il rischio di non essere intesi da chi ci interessa, il proletariato, che questa distinzione sente e fa (sia pure alla maniera riformista, sinonimo di suicida), ed a cui modestamente diciamo non di mettere destra e sinistra tutte nello stesso sacco, ragionando con l’ottica che di notte tutte le vacche sono nere, ma -dopo di aver riconosciuto esattamente le differenze esistenti quali contraddizioni all’interno della politica borghese- di saper tracciare contro di esse una propria via, sulla cui base soltanto sarà possibile mettere anche a frutto per sé tali contraddizioni.

(Quest’ultimo punto è particolarmente delicato e vitale: dovrebbe essere evidente, ad esempio, che diversa sarà l’attitudine del proletariato, agente in quanto classe per sé, nei confronti, putacaso, dei ceti intermedi destinati alla rovina da una parte e della media e grande borghesia dell’industria e della finanza dall’altra. Perciò anche l’indipendenza, la contrapposizione, la lotta a destra e sinistra borghesi non può significare "la stessa cosa", pur e proprio partendo dall’inequivoca definizione di sé in quanto forza indipendente ed antagonista. Quest’ultimo fattore, che è l’essenziale per noi, non ha alcun bisogno di "indifferentismi", né politici -sovrastrutturalmente- né sociali -alla base-. La sinistra borghese ne tiene ben conto, giocando sull’accessorio, sul transeunte, per trascinare alla propria coda un proletariato deprivato delle proprie caratteristiche di classe; ci potrà riuscire, noi diciamo, fin tanto che potrà giovarsi di sufficienti risorse materiali, oggettive, per condurre questo suo sporco gioco e tanto meglio potrà farlo in presenza di un’opposizione "comunista" incapace, da parte sua, di considerare l’insieme dei fattori, come capita all’estremismo infantile).

Quindi: non solo valutiamo appieno le differenze di "programma" tra Ulivo e Polo, poni caso, ma, quel che più è importante, teniamo costantemente presente l’elemento sociale che ne sta alla base, e solo in ragione di ciò, non indipendentemente da ciò, affermiamo la necessità per il proletariato di far da sé e per sé, scrollandosi di dosso ogni fronda d’ulivo che gli dovesse restare appiccicata addosso.

La nozione di destra e sinistra borghesi va intesa storicamente, non in astratto, qualora si voglia capire perché entrambe siano, per noi, un terreno non praticabile.

C’è stato un primo tempo -quello, a suo modo, eroico- della rivoluzione e del consolidamento del capitalismo in cui gli interessi del proletariato potevano convergere (che non significa confondersi) con quelli della borghesia nella lotta contro i tentativi di restaurazione del vecchio sistema ed il permanere vischioso dei suoi resti nella società. In quella fase, era d’obbligo che le due classi combattessero affiancate, per quanto, sin da allora, il compito preminente degli antesignani del comunismo fosse quello di dar sostanza, entro ed attraverso questa lotta, all’indipendenza del proletariato. In quella data situazione storica, la sinistra borghese -pressata dall’incomodo alleato- ha avuto la massima cura, insieme, di cercare di scongiurare l’indipendenza del proletariato, ma anche di stringerlo a sé nella propria lotta "progressiva" accogliendone delle istanze reali, del pari "progressive".

Questa fase si è successivamente esaurita, mano a mano che, tramontato il pericolo di un soprassalto della reazione sconfitta, il sistema procedeva decisamente innanzi rendendo sempre più visibile il nuovo antagonismo di classe borghesia-proletariato. Attraverso un calvario infinito di battaglie, teorico-programmatiche non meno che pratiche, il proletariato giunse a darsi il proprio partito, di fronte al quale venivano ora a misurarsi una destra e una sinistra borghesi. (Tracciamo un quadro storico di tendenza, ovviamente, senza pretendere ad alcuna sincronia. Ad esempio, è ben chiaro che nelle nascenti metropoli imperialiste, come la Gran Bretagna, la particolare posizione del paese sul mercato mondiale permise alla borghesia di "sinistra" di dilazionare ed appannare tale contrasto: una bella complicazione, già rilevata da Engels, che tutt’oggi permane ed, anzi, si ripresenta al massimo grado di virulenza nelle metropoli imperialiste).

Questa linea di tendenza doveva portare alla soluzione cruciale dello scontro armato tra rivoluzione proletaria e controrivoluzione borghese, e così fu. La rivoluzione rossa vinse in una "sesta parte del mondo", ma non riuscì a trionfare nelle metropoli. Qui la rivoluzione fu sconfitta grazie proprio al mix dell’anestetico di "sinistra" borghese (da un Giolitti che si affretta a spegnere le prime fiamme rivoluzionarie a suon di concessioni sino al riformismo socialista, che affetta sì di voler fare la rivoluzione proletaria, ma gradualmente, pacificamente, democraticamente) e delle squadre armate della destra (camicie nere, camicie brune e quant’altre camicie mai!).

Ne è conseguito un rilancio del capitalismo sulle ceneri dell’esercito proletario, da cui, nel secondo dopoguerra, si è ripartiti, sotto ombrello democratico (ma buon capitalizzatore dell’eredità fascista!). Con incredibili nuovi indici di sviluppo, l’Italia si è collocata all’interno della ristretta compagine imperialista mondiale. (Nei paesi già in precedenza saldamente imperialisti, primo fra tutti gli USA, per le ragioni di cui sopra, mai si arrivò seriamente allo scontro diretto tra le classi antagoniste: l’esempio constatato da Engels in Inghilterra non poteva fermarsi lì).

Da allora si è dispiegato un ciclo che è stato insieme di sviluppo incontenibile dello strapotere economico imperialista e del suo corrispettivo strapotere politico. Quest’ultimo non poteva essere materialmente scalfito prima e indipendentemente dall’entrata in crisi del suo fattore oggettivo fondante. Per decenni gruppi molto esigui di iguanodonti comunisti hanno potuto, principalmente, solo preannunziare le future tempeste, analizzandone presupposti e conseguenze, ma... a ciel sereno (per il capitale) e vox clamans in deserto di fronte alla massa del proletariato. Infatti, anche laddove persistevano dei partiti nominalmente comunisti -capaci persino di condurre delle effettive lotte di classe, purché rigorosamente non rivoluzionarie e anti-rivoluzionarie-, era in qualche modo ineluttabile che questi discendessero precipitosamente tutta la china che li separava dalla "sinistra" borghese. Negli ultimi anni questo corso è arrivato definitivamente a compimento. Non solo singoli partiti, ma interi stati "comunisti" sono stati indotti all’abiura di un nome che gravava su di essi come un marchio d’infamia da cui liberarsi al più presto anche all’anagrafe. Nessun tradimento improvviso, nessun colpo di stato, ma semplicemente il riconoscimento della propria datata inserzione nell’ottica e nelle strutture del sistema imperialista.

Questa conversione comporta di necessità il farsi carico degli onori e degli oneri del proprio capitalismo nazionale, dai cui destini vengono fatti dipendere insieme gli interessi di tutte le classi della nazione. E ciò anche e principalmente quando si affetti di assumere a criterio di rappresentanza politica e di interessi, entro questo quadro dato, la voce del proletariato o, come si usa dire dilatando e slavando il concetto, dei "ceti umili". In altre parole: la democrazia imperialista trova il suo compimento nella realizzazione di quell’"ideale" di corporativismo il cui trade mark spetta ai Benito e agli Adolfo, con la differenza che la democrazia lo attua sul "consenso", mentre il fascismo cercò di attuarlo sulle spoglie del proletariato (com’era, per essi, ineluttabile). La corsa al centro del PDS, ed anche di Rifondazione, va letta, dunque, non solo come un semplice dirottamento politico, ma come un fondamentale accentramento, ideologico e materiale, attorno alle esigenze del proprio capitalismo nazionale, da cui, poi, si possono ben far derivare tutte le (ipotetiche) conseguenze utili "anche" per il "proprio" proletariato nazionale. (Altro è il problema se questa strada potrà essere percorsa senza esitazioni ed impunemente sino in fondo. Noi non lo crediamo, ma è certo che in nessun caso da una contraddizione del genere potrà mai riaprirsi per essi la via dell’autonomia comunista, rivoluzionaria di classe).

Però... Però questo finale bagno purificatore nel Gange del capitalismo imperialista avviene in una fase in cui tutte le condizioni oggettive che l’hanno propiziato stanno arrivando a esaurimento.

Stiamo entrando in una fase in cui mondializzazione e prodromi della crisi del sistema capitalistico vengono a coincidere, una fase in cui sempre maggiormente la competizione internazionale deborda in conflitti bellici che, scaricati dapprima sulla periferia, si approssimano alle metropoli, mordono sin nel suo seno. Una fase che significa per il proletariato anche metropolitano una somma crescente di lacrime e sangue, mentre si raccorciano per forza di cose le distanze reali tra le cose che può (non "vorrebbe") fare la sinistra borghese rispetto alla destra. La parola torna al conflitto di classe, che i collitorti invano si premurano di esorcizzare e scomunicare come "disordine distruttivo".

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La sinistra è invitata al banchetto. Ma le portate sono finite...

Un esempio per tutti. Sino all’altro ieri si prendeva ad esempio, anche all’"estrema sinistra", il modello Germania. Stato sociale intatto, diminuzione d’orario a parità di salario etc. etc. Un’insana mitologia. Proprio in Germania si vede (e rimandiamo allo specifico articolo di questo giornale) come persino una potenza di quel calibro non possa, borghesemente, andare che verso l’attacco allo stato sociale, al salario, al tempo di lavoro, ai diritti operai. Anche e soprattutto una Germania forte deve combattere sul mercato mondiale, pressata dall’"aggressività" gialla o d’altro colore, bianco-USA compreso, e lo può fare a questi soli e determinati prezzi per noi. La Germania capitalista cui, da perfetti lacché borghesi, ci si richiamava per agitare le proprie bandierine di sinistra, non è più quella. Di fronte a ciò si potrà far finta che quello che lì avviene non debba avere alcuna conseguenza per noi? Che la spazzolata tedesca non debba comportare per l’Italia ben altri colpi di ramazza antiproletari? Che ci si possa chiudere in un "diverso modello" autarchicamente italiano? Nessuna persona di minimo buon senso potrebbe crederlo. Quello che un comunista può invece credere è che all’attacco internazionale della borghesia si può rispondere solo opponendovi un contrattacco del pari internazionale del proletariato. Fantascienza ed horror per qualcuno. Ed allora tenetevi pure le vostre sforacchiate cinture di castità nazional-borghesi! Quanto alla verginità che avrete conservato, il responso è già chiaro.

Stati capitalisti, partiti e governi capitalistici democratici e di "sinistra" -ripetiamo da Trotzkij- sono dei lussi che solo delle potenze imperialiste affluenti possono concedersi. Ne sta passando definitivamente il tempo. Non c’è più torta in tavola, ma un osso attorno al quale mondialmente sbranarsi. Perciò un coerente "riformista" senile non può oggi propugnare gli interessi immediati dei lavoratori che egli "rappresenta" se non ponendosi appieno su questo terreno di battaglia, contro la concorrenza dei capitali e dei proletari esteri. Ciò che si chiama, dal 1914, social-sciovinismo, ultima risorsa del "riformismo". Se foste coerenti e dotati di muscolatura, questa sarebbe la vostra soluzione. Che tali arnesi tuttora vi manchino per svolgere i vostri compiti a favore del "nostro" capitale non ci conforta più di tanto: di essi già vi servite in modo egregio quando si tratta di agire contro il nostro proletariato!

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Chi ha seminato loglio, non raccoglierà grano.

Il problema è: se le cose da fare sono, per i borghesi, deterministicamente segnate contro di noi, fino a qual punto potrà essere ad esse assicurato il consenso delle masse lavoratrici e quello dei partiti che le "rappresentano"? Non certo all’infinito, perché le mazzate da assestare al proletariato saranno tante e tali da non permetterlo. L’importante, per la borghesia, è che l’operazione possa partire con la controparte provvisoriamente frastornata ed immobilizzata.

A questa stregua, le"ipoteche" poste da Rifondazione valgono un fico secco. Il fatto che i suoi voti siano stati determinanti per la vittoria dell’Ulivo non contribuisce in alcun modo ad orientare la barra del governo a venire a pro’ del proletariato. Quei voti, infatti, in nessun modo intaccano i rapporti reali di forza tra le classi sociali e in nessun modo, quindi, possono mettere in causa gli assi di una politica borghese che ha dinanzi a sé una via obbligata, non mille opzioni qualitativamente diverse tra cui scegliere. Paradosso solo apparente, per chi non vuol capire: dopo e grazie alla vittoria elettorale conseguita grazie ai voti di Rifondazione, l’Ulivo si allarga al centro e vira decisamente a destra. Questi i frutti di quel che Rifondazione ha seminato, per quanto se ne possa dispiacere. La prima destra vincente, dunque, è quella che si afferma nell’Ulivo, con uno spostamento obbligato e progressivo verso chiari connotati di attacco al proletariato. E una...

Recalcitrerà Rifondazione se le sue "pregiudiziali" non saranno ascoltate? Nessun timore. Come ha detto sarcasticamente Fassino, li vogliamo vedere gli eletti di Rifondazione che dovessero esser chiamati ad "irrigidirsi"! Dopo aver decantato la prospettiva di una vittoria delle "sinistre" ottenuta per la via del blocco elettorale con il centro, non sarà possibile proporre impunemente ad essi alcun ribaltone in presenza del ricatto di una "convergenza effettiva con le destre". E, di più, ha aggiunto il nostro, conosciamo bene l’attitudine al governo delle centinaia e migliaia di rappresentanti di Rifondazione negli enti locali (a cominciare da quelli della Toscana, sin d’ora "federatisi" col Pds, popolari, etc.) per temere ch’essi si schiodino con facilità dal ruolo acquisito. E’ gente seria, che ha imparato a farsi carico dei problemi reali, delle reali compatibilità, gente "garaviniana" sin nel midollo, che respingerebbe con sdegno ogni tardivo richiamo a mettersi all’opposizione frontale (con quali prospettive, poi, con quali programmi?). I "garaviniani" se ne erano già andati da Rifondazione, ma il garavinismo è ben dentro quel partito, pronto alla bisogna a replicarsi.

Le masse stesse che si riferiscono a Rifondazione, poi, non è che potrebbero mutar rotta d’un tratto. Una determinata collocazione "tattico-strategica" (che, tra l’altro, implica l’uso di determinate "armi", e non altre) non si cambia a piacimento, neanche quando è l’avvesario stesso a dimostrarcene l’impraticabilità. La sua sconfessione significa la rimessa in causa dell’insieme dei fondamenti su cui la si era costruita, e dell’insieme dei quadri dirigenti che l’avevano promossa. Ciò non è né sarà facile; e, in ogni caso, è cosa che passa attraverso un lungo e difficile travaglio all’interno delle proprie forze, pagando prezzi altissimi perché si possa dare. Lo sanno bene i borghesi, interni ed internazionali, che si fanno sonoramente beffe di Bertinotti calcolando le sue "minacce" non molto più di una sceneggiata d’obbligo.

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