Da un recente viaggio in Russia ricaviamo queste note sulla situazione sociale ed economica di questo paese e sulle condizioni del proletariato. La ricognizione in loco ha fornito riscontri interessanti a quanto sosteniamo da tempo, innanzi tutto sul procedere della riorganizzazione economica del capitalismo russo. Del resto, dopo anni di litanie sul caos imperante nell'ex-Urss, anche sulla stampa nostrana sta affiorando l'impressione che "il malato dà segni di ripresa". El'tsin non è venuto a Napoli per chiedere aiuti, constata Il Sole in occasione dell'ultimo G-7, analizzando i motivi per cui "di questa Russia è meglio fidarsi", ovvero è necessario per l'Italia un rinnovato intervento che recuperi il ritardo accumulato nei confronti degli altri paesi occidentali.
Preoccupazioni di bottega a parte, constatiamo con piacere come, da tutt'altro punto di vista, questo dato si faccia strada anche qui. Ma avvisiamo in anticipo: la "ripresa" dell'economia russa non prelude affatto a un rilancio in grande del capitalismo a scala russa e tanto meno internazionale, bensì a un approfondimento, nell'immediato e soprattutto in prospettiva, di tutti gli antagonismi economici e tra le classi.
Da parte nostra, se evidenziamo ciò, è per tracciare le direttrici di rimessa in moto della classe operaia russa a partire dal procedere in avanti del corso capitalistico. E leggiamo nell'apparente stasi attuale del proletariato segnali di quell'accumularsi di fattori che lo debbono risospingere, finalmente da protagonista, sulla scena. Quanto segue non pretende di offrire un'analisi approfondita degli ultimi sviluppi, bensì di confrontare quel che si è di significativo osservato con la nostra visione complessiva delle vicende russe.
A chi si reca oggi in Russia da Occidente il panorama non può che apparire mutato rispetto anche solo a un paio di anni fa. Se lasciamo da parte il periodo gorbacioviano, che oggi sembra distantissimo, basta il raffronto con il '92, all'indomani della fine dell'URSS e dell'insediamento di El'tsin, per rendersi conto di ciò.
Due anni fa a regnare erano il caos economico e sociale, il disorientamento delle masse, le difficoltà del nuovo governo, in uno scenario contrassegnato dalla terapia-choc e dalla comparsa dei "nuovi ricchi". Oggi Mosca e S.Pietroburgo presentano una situazione per certi aspetti più "regolarizzata", sicuramente più simile al modello occidentale, da cui continuano comunque a segnare una distanza. Allora le prime impressioni che queste due metropoli lasciavano erano segnate dalle donne anziane accovacciate all'uscita del metrò a vendere per quattro soldi oggetti sottratti al misero arredamento di casa, dalla miriade di chioschetti sorti come funghi -minuscoli spacci delle scarse e care merci occidentali-, dalla gente preoccupata di comprare il necessario in negozi già statali dalle scorte esigue a prezzi inflazionati. Era l'immagine di un paese allo sfasci, in via di accelerato impoverimento, nel quale sembrava prosperare una sorta di economia da "bazar", con annessi "compradores", destinata inevitabilmente ad aprire il paese alla "colonizzazione" occidentale.
Oggi, si può dire, l'"occidentaliz-zazione" ha fatto passi da gigante: nei negozi non più scaffali vuoti, bensì il più vasto assortimento di merci provenienti da Ovest, il cui prezzoè spesso indicato in dollari; non più (o non ancora) masse di gente impoverita, bensì folle di persone indaffarate ad apprendere le "nuove" regole del mercato; infine l'emergere, sotto gli occhi di tutti, di uno strato di arricchiti che, da buoni ultimi, non tralasciano occasione di metter in mostra l'acquisita posizione. Su tutto, il fiorire delle mille microattività commerciali, che attraversano e interessano, con alterne vicende, un po' tutti gli strati sociali. Si comincia dalle attività connesse alla piccola distribuzione, già completamente privatizzata, per finire con le imprese finanziare e con i servizi ad esse collegati (v. la miriade di cambiavalute e di piccole e piccolissime banche). Senza dimenticare l'immancabile compagno dell'accumulatore di ricchezze: il poliziotto, la guardia del corpo, ecc. (spese improduttive, ma necessarie), il cui proliferare è una delle cose che più colpiscono.
V'è chi a questo punto, principalmente da "sinistra" (ma ne è buon esempio l'articolo su S.Pietroburgo di Le Monde diplomatique di settembre), allinea questi dati a quelli catastrofici su calo della produzione, chiusure di fabbriche, ecc. e tira la conclusione: quale prova migliore del processo di "colonizzazione" della Russia non più "socialista" da parte dell'Occidente capitalista? Il caos precedente ne diventa allora la premessa necessaria. Le cose però non sono così semplici.
Certo, le merci che ammiccano dalle vetrine dei negozi alla moda non parlano alle tasche della massa della popolazione, relativamente impoverita e, soprattutto, precarizzata dalla nuova situazione. Chi se ne è avvantaggiato è lo strato dei nuovi ricchi -quelli che, come dicono i russi con un residuo di diffidenza, "fanno business"-, un fenomeno appariscente della formazione di una moderna borghesia degli affari, spesso legata a doppio filo al capitale occidentale. Ma se leggiamo i dati su redditi e consumi complessivi in Russia, vediamo rispettivamente un +20% e un +11% rispetto allo scorso anno, il che vuol dire che il livello di vita si è un po' innalzato - oltrechè differenziato - rispetto ai picchi degli ultimi anni. L'inflazione ha al contempo frenato la sua corsa (dai ritmi latino-americani precedenti). Lo stesso corso del rublo si è relativamente assestato (2000 rubli circa per un dollaro), se è vero che il mercato nero delle valute è praticamente scomparso. Ciò indica chiaramente non solo che è terminato il periodo del caos monetario, ma anche che ormai siamo oltre i fenomeni speculativi tipo stoccaggio di merci in attesa del loro rincaro. Assistiamo piuttosto all'assestarsi di una circolazione mercantile di beni di largo consumo in cui all'invasione del mercato da parte dei prodotti occidentali inizia ad affiancarsi la vendita di merci prodotte in loco, finalmente competitive.
Una riprova del mutato "clima" l'abbiamo anche sul versante del rapporto prezzi-salari. Se è vero che la maggioranza della popolazione lavoratrice deve arrabattarsi tra salari nominali bassi, utili appena per il sostentamento minimo, e prezzi in relazione piuttosto alti, è altresì vero che le paghe sono già molto differenziate a seconda del settore e della professione (dai 200.000 rubli in media per l'operaio, circa 170-180.000 lire , al milione e oltre per impiegati di banca, assicurazioni, servizi, poliziotti, ecc. oltreché per alcuni settori industriali che tirano). E' inoltre assai diffuso il fenomeno del secondo lavoro (dalla piccola attività artigianale al commercio al minuto) che, senza essere registrato dalle statistiche ufficiali, va a incrementare il flusso dei redditi e degli scambi.
Non è inoltre senza significato per le tendenze che si vanno affermando il fatto che nell'ambito del piccolo commercio, il settore più anarchico e più ostico al controllo dall'alto, è in atto una regolarizzazione, anche a seguito dell'intervento statale. Gli assemblamenti di chioschi e bancarelle all'uscita dalle stazioni del metrò - l'analogo dei nostri mercati rionali - che rappresentano il fenomeno che prima e più colpisce l'osservatore straniero per l'atmosfera prettamente "orientale" che vi regna, sono oggi qualcosa di diverso dall'anarchico riunirsi e scomporsi di punti di vendita che si potevano osservare due anni fa, simili più a mercatini delle pulci che non a moderni mercati. Le "normali" leggi economiche hanno, dunque, portato a una prima scrematura di queste attività (e ancor pi lo faranno in futuro) insieme all'intervento statale di regolamentazione amministrativa e di controllo capillare attraverso la milizia (che abbiamo visto attivissima nelle grandi città).
Quanto poi all'emergere del fenomeno della criminalità -dalla "mafia russa" che secondo i nostri giornali avrebbe in mano i gangli della vita economica, al crimine di strada di cui sarebbero vittime gli ingenui turisti stranieri (al punto che le agenzie di viaggi si sentono in obbligo di informarne l'ignaro visitatore)- il punto è che l'intreccio tra affari e criminalità è un prodotto tipico non solo e non tanto delle situazioni capitalisticamente arretrate (e la Russia resta tale se confrontata con i campioni occidentali), ma raggiunge il massimo grado nei capitalismi più sviluppati e in decomposizione (vedi USA, Giappone, e, non ultimo, Italia). Del pari, la messa in crisi della divisione dei lavori tra stato e crimine, con il tentativo da parte del primo di andare a riprendersi le zone prima "appaltate", è un dato costante degli svolti critici dell'economia capitalistica. Sotto entrambi gli aspetti Mosca ha sicuramente molto da "recuperare" rispetto a "noi". (Del resto, vi immaginate qui le donne tornare a casa da sole, nei desolati quartieri di periferia, all'una di notte?).
Alla diretta osservazione si presenta dunque una Russia un tantino differente da quella qui propinataci. Non nel senso che ci troveremmo di fronte a un paese definitivamente uscito dal caos, vuoi per combattere da pari a pari con l'Occidente (versione nazionalista) vuoi per aprire a quest'ultimo un immenso mercato che possa ovviare all'asfissia produttiva che lo attanaglia (come tornano qui a sperare certuni). Sì, invece, nel senso di una relativa riorganizzazione e stabilizzazione dell'economia a partire dagli impulsi provenienti dall'infrastruttura (in primis industriale) esistente, in via di riconversione verso le "civili relazioni di mercato", sciolte da qualsivoglia amministrativismo centrale sì da poter sfruttare un potenziale altrimenti destinato ad essere dilapidato.
A leggere i crudi dati statistici sul forte calo della produzione industriale russa degli ultimi anni (dell'ordine del 20-30% annuo) si rimane giustamente colpiti. Un'impressione che risulta rafforzata al transitare in auto per esempio a S.Pietroburgo, davanti agli immensi stabilimenti Svetlana o Kirov (aree vaste come un paio di Mirafiori) e osservare o venire a sapere della dismissione di parte degli impianti, della chiusura provvisoria di molte officine, del numero di licenziamenti di cui corre voce. L'ipertrofica (soprattutto per numero di operai in rapporto al capitale fisso) industria russa sta iniziando ad attraversare un processo complessivo di ristrutturazione che punta a potare drasticamente l'occupazione, adeguare costi e volumi produttivi al mercato (non più filtrato dal "piano"), riconvertire laddove necessario il tipo di prodotti. Sull'altare di queste necessità (imposte dall'impatto con la concorrenza occidentale che, la non più rinviabile apertura del mercato interno, ha reso diretto) va sacrificato quanto residua di imprese antieconomiche. Questi processi che colpiscono la grande industria statale, sono ciò che sta dietro il crollo della produzione industriale. Questo va comunque in parte ridimensionato se si considera che le imprese già privatizzate e le nuove attività spesso sfuggono alle statistiche ufficiali.
Del resto, su alcuni giornali russi già si parla di una inversione di tendenza che potrebbe portare all'arresto di quel calo, mentre per alcuni settori la ripresa è già in atto. L'industria militare (che rimane in gran parte statale), grazie alle notevoli infrastrutture e tecnologie, può ora riaffacciarsi sul mercato mondiale, utilizzando il differenziale di costi (in primis della forza-lavoro). L'attività dell'edilizia è in piena ripresa: Mosca e S.Pietroburgo pullulano di nuovi cantieri per la costruzione di case popolari e di centri residenziali o per il restauro di vecchi palazzi (con manodopera precaria e in nero, spesso ucraini e bielorussi che si "vendono" a meno). In altri settori, quali le telecomunicazioni, gli investimenti sono in ascesa.
Parte integrante di questo processo, il corso delle privatizzazioni va avanti. La distribuzione (negozi, ristoranti, ecc) è stata quasi completamente privatizzata, con parziale presenza del capitale straniero nelle imprese di import-export. Privatizzate anche il 70% delle piccole aziende (erano circa il 50% nel '93) e circa 15.000 delle medie e delle grandi; sicché il settore privato occupa oggi fino al 60-70% della forza-lavoro complessiva (dal 20% di un anno fa), se vi si comprendono anche le aziende nelle quali lo stato mantiene parte del pacchetto azionario.
Diverse le forme che la privatizzazione assume: la vendita di azioni si rivolge a privati (meno del 10%), cooperative, collettivi di lavoro aziendali (in parte rilevante), società per azioni vere e proprie. Ammonterebbero a 40 milioni i cittadini a tutt'oggi in possesso di azioni.
Parallelamente abbiamo l'emergere di un ceto "finanziario" che va strutturandosi nella rete dei cambiavalute, delle piccole banche, dei fondi di investimento (con quote di partecipazione oramai tra i 50 e i 100.000 dollari). Le borse merci e valori stanno uscendo dalla fase di rodaggio per affermarsi come centri di raccolta e centralizzazione dei capitali. In questa direzione è andata l'operazione governativa di due anni fa: la distribuzione alla popolazione dei "voucher" (validi per l'acquisto di azioni delle imprese privatizzate) -prontamente accaparrati da intermediatori, società finanziare, strozzini- ha impulsato l'emergere di uno strato di proprietari e di un mercato finanziario. Quanto al rischio "speculazione" -aspetto del resto perfettamente connaturato all'economia capitalistica- il punto, per la Russia d'oggi, è di indirizzarla e subordinarla alla ripresa e sviluppo, su nuove basi, dell'apparato produttivo, sottraendo le risorse ai mille rivoli improduttivi. Il che ancora una volta richiama l'intervento statale. Con l'avvertenza che il maggior ostacolo alla riuscita di questa operazione sta comunque negli appetiti dei briganti occidentali, che hanno in dotazione ben altri strumenti finanziari per l'accaparramento di risorse sul mercato mondiale.
Lo stato conserva comunque un peso preponderante nelle grandi imprese "ristrutturate", di cui detiene spesso il pacchetto di maggioranza (energia, trasporti, miniere, produzione di armi, grandi banche commerciali). Ma la proprietà statale attuale non ha più a che vedere con le forme proprie della fase "amministrativa" precedente, essendosi le singole aziende autonomizzate e dovendo realizzare la produzione sul mercato.
Non si tratta di residui del vecchio sistema, ma di una via obbligata per il capitalismo russo. Per passare a una fase superiore di sviluppo è indispensabile, per esso, fare leva sulla grande industria debitamente ristrutturata, e non semplicemente su una sua vendita ai "privati" (quali poi?). Il ruolo dello Stato rimane, dunque, centrale, sia pure per motivi e con funzioni diverse dal periodo dell'"economia pianificata". A maggior ragione quella "centralità" è obbligata in quanto la transizione avviene per l'economia russa in stretta connessione con un mercato mondiale in cui un capitalismo avvitato in una crisi storica e generale rende ancora più famelici gli appetiti dell'occidente imperialista.
Una riprova che la marcia del capitalismo russo procede lungo questo percorso di privatizzazioni guidate dallo stato è data da quanto sta avvenendo nelle campagne. Per cercare di spezzare la stasi delle campagne (aggravata dalla resistenza anti-privatizzazioni della piccola borghesia contadina), che pesa come un macigno sullo sviluppo capitalistico della Russia e non è di poco intralcio allo stesso definirsi dei fronti di classe contrapposti, è più che mai necessario l'intervento statale, sia incentivando finanziariamente la creazione di moderne aziende agricole in grado di competere sul mercato, sia usando la leva di una moderna politica dei prezzi. Gli ultimi dati indicano in questa direzione: all'interno della diminuzione della produzione agricola nazionale cresce quella delle quasi 300.000 fattorie privatizzate (5% delle terre coltivabili, con incrementi della produzione anche del 100%) mentre, finita la fase speculativa caratterizzata da prezzi elevati, il mercato si sta orientando, per i generi di prima necessità, su prezzi bassi e competitività dei costi (sotto la spinta della concorrenza occidentale, tedesca innanzitutto, che sta scardinando la struttura agricola di tutta l'Europa dell'Est).
Il governo inoltre, leggiamo sul Financial Times, ha iniziato una "guerra del grano": "per la prima volta dalla collettivizzazione forzata... acquista grano dai produttori a prezzi di mercato (c.n.) e non ai prezzi stabiliti in primavera".
All'uscita dalla prima fase delle privatizzazioni il capitalismo russo segna dunque, pur tra non indifferenti difficoltà, punti a proprio favore, sia per la ripresa di alcuni settori produttivi trainanti sia per la formazione di un concreto, fisico personale borghese e la diffusione di una classe proprietaria materialmente interessata al procedere delle riforme e base del potere politico.
La seconda fase, il cui varo è previsto per la seconda parte del '94, dovrà negli intenti del governo rafforzare questi risultati. Nel piano è prevista la vendita e l'acquisto di azioni solo in contanti, e non più in voucher. Il fine è quello di creare un moderno mercato degli investimenti per convogliare le risorse verso attività produttive. Il recente episodio della chiusura del fondo di investimento moscovita MMM, le cui operazioni erano puramente speculative, a seguito dell'intervento del governo, è un segnale dell'orientamento del Cremlino al riguardo e insieme un primo colpo a quelle società di intermediazione finanziaria (che imperversano con annunci pubblicitari che offrono interessi altissimi) finora specializzate nella "fuga dei capitali" all'estero (dell'ordine di 15 milioni di dollari all'anno).
E' chiaro che questo è possibile solo nella misura in cui i "fondamentali" dell'economia sono tali da richiamare questi capitali per investimenti produttivi, senza di che ogni intervento "politico" cadrebbe nel nulla. E' su questa base che si spiegano i provvedimenti governativi di questi mesi sulla lotta alla criminalità, con l'abolizione di fatto del segreto commerciale e finanziario, e sull'aumento delle tasse sulle importazioni, la stretta statale per il recupero del fisco inevaso e i recentissimi decreti sull'economia (con misure volte a incentivare e garantire il credito alla produzione, anche nella forma del leasing, e a sostenere gli investimenti privati attraverso progetti industriali a finanziamento misto). In questo modo, sulla via della centralizzazione economica e politica, l'arrivo dei capitali esteri (finora molto esiguo, pari all'1% del Pil) può avvenire per la Russia a condizioni di minor strozzinaggio, nel mentre si rafforza la sua posizione economica nei confronti delle repubbliche dell'ex URSS, così da poter usare il differenziale acquisito in quest'area per riequilibrare almeno in parte la sfavorevole struttura dell'import-export nei confronti dell'Occidente.
Tutto, ci sembra, conferma quello che andiamo affermando da tempo sulla necessità per la Russia (e non solo) di una centralizzazione dei poteri in forme tendenzialmente sempre pi autoritarie, funzionale e al tempo stesso espressione della riorganizzazione dell'economia. Il liberalismo da solo non basta; è la lezione che un po' tutte le borghesie dell'Est Europa stanno apprendendo dal recente passato, visto anche di quale tipo sono gli aiuti dell'Occidente (che da noi qualche "compagno" vorrebbe rafforzati). Tra tutte la borghesia russa -pur in un certo senso ancora in via di formazione- è quella che per ragioni strutturali può trarne maggiormente le conseguenze, affiancando alle riforme economiche un di più di statalismo, non senza una politica verso il proletariato volta ad attutire e controllare gli effetti sociali della marcia in avanti del capitalismo.
Questo non significa che i problemi siano risolti. Al contrario. La "stabilizzazione", innanzitutto, non ha di per sé risolto (né potrà farlo) il problema della creazione di una base sociale vasta, compatta, e "popolare" a sostegno del potere e del corso economico. Escluso che questa base possa essere rappresentata dal grosso del proletariato (anche a voler considerare la sua stasi attuale e la sua differenziazione interna), è altresì difficile, per ragioni storiche e strutturali, la formazione di uno strato relativamente vasto di "classe media" coalizzabile intorno agli interessi del capitale nazionale russo (con l'utilizzo, all'uopo, di tutto l'armamentario nazionalista, slavofilo, patriottico).
Ma anche da un punto di vista economico l'attuale fase non prelude ad alcun rilancio dell'economia russa in uno con quella occidentale e internazionale. La "transizione" avviene nel contesto di una crisi mondiale del capitalismo che si avvicina tendenzialmente ai sui tornanti più stretti. La Russia non può sperare nella riedizione della "coesistenza pacifica" con l'Occidente, il quale dal canto suo non può sperare nell'apertura pura e semplice di un immenso mercato. La relativa stabilizzazione attuale della Russia (anche al di là del suo segno di classe) non può che in prospettiva -e già lo sta facendo- acuire i contrasti sia con il proprio proletariato che con l'Ovest. Per intanto possiamo mettere all'"attivo" lo spostamento in avanti dei rapporti di classe, sicuri che la classe operaia dovrà rispondere a questo nuovo, più avanzato livello con l'inevitabile approfondimento degli antagonismi economici e sociali.
Abbiamo provato a toccare con mano, direttamente e discutendo con attivisti sindacali, l'attuale situazione immediata della classe operaia, tenendo conto del quadro complessivo sopra schizzato. Il dato generale è sicuramente quello di una polarizzazione economica e sociale crescente, che si impone sotto gli sguardi per ora disorientati del proletariato. Sicuramente il grosso della classe operaia ha subito negli ultimi anni un forte peggioramento delle proprie condizioni di vita a tutti i livelli, e sta inoltre andando incontro a un processo di scomposizione e, parzialmente, disgregazione che è il prodotto della situazione economica e della ristrutturazione produttiva. Il tessuto operaio esistente nelle grosse fabbriche si è in parte sfilacciato a causa - più che della chiusura vera e propria degli stabilimenti - del rarefarsi delle commesse statali con conseguente funzionamento a basso regime e, per i lavoratori, forme di cig, ferie "obbligatorie", pagamenti ritardati. Ciò rappresenta per i più "intraprendenti" una spinta ad andarsene dalla fabbrica o a svolgere un secondo lavoro. Per gli altri, spesso i più anziani, l'unico modo per integrare il basso salario è quello di lavorare nei piccoli campi di cui sono disseminate le periferie cittadine.
Va altresì detto, per avere una visione realistica della situazione, che nell'ultimo anno anche i salari operai sono cresciuti, in particolar modo nei settori trainanti e nelle imprese che lavorano con l'estero, mentre i prezzi dei generi di prima necessità, dei trasporti e degli affitti sono rimasti molto bassi. A ciò si aggiunge che il governo ha concesso una relativa indicizzazione dei salari più bassi e delle pensioni, nè vi è stato quel drastico ridimensionamento della manodopera che in astratto necessiterebbe con conseguente disoccupazione di massa e rischi di esplosioni sociali.
Tutto ci sta a indicare da un lato la cautela con cui le forze emergenti della borghesia russa si muovono nei confronti del proletariato, dall'altro un certa qual tenuta di questo se non altro come spauracchio che frena un p deciso e diretto attacco antioperaio, che oggi si preferisce prenda le strade della subordinazione alle leggi del mercato. Insomma, a passarsela veramente male sono gli attuali "senza riserve": pensionati, operai anziani non "riconvertibili", operai di aziende in via di dismissione, veri disoccupati (pare, attualmente, tre-quattro milioni su una popolazione attiva di oltre settanta), donne senza lavoro e strati sociali marginalizzati. La massa del proletariato subisce la situazione, in gran parte osservandone passiva le conseguenze, in piccola (ma non irrilevante) parte cercando di "parteciparvi" e migliorare così il proprio livello di vita. Disorientamento e disillusione da un lato, attesa (in misura minore) e necessità di sopravvivere dall'altro, sono dunque tra la massa dei lavoratori le note dominanti dell'attuale panorama.
Può essere significativo degli "umori" presenti il riscontro che l'azionariato operaio ha tra i lavoratori. Se per un verso è sempre più chiaro che questa forma di privatizzazione è in realtà veicolo dell'appropriazione delle aziende da parte della direzione manageriale, sicchè si può dire che l'illusione "autogestionaria" è in gran parte tramontata anche laddove si era potuta affermare in determinate circostanze (p. es. tra i minatori nelle lotte degli anni passati); per altro verso ci è noto che, ad esempio, molti lavoratori questa estate si sono recati in fabbrica, anche con pagamenti ritardati e a produzione praticamente ferma, solo sulla base del richiamo alla "compartecipazione" all'azienda, ovvero delle attese legate alla ripresa della produzione. Questo dovrebbe valere a maggior ragione per i settori industriali che hanno ripreso a marciare.
L'insieme di questi fattori non può non riflettersi sullo stato dell'organizzazione sindacale della classe. Cause prossime e più remote (in primis la funzione controrivoluzionaria che ha avuto lo stalinismo all'interno del proletariato) fanno sì che l'attuale situazione sia caratterizzata da un'assenza di grandi e generalizzati movimenti di lotta rivendicativi (l'ultima grande ondata di scioperi si avuta l'anno scorso nelle miniere del bacino del Donbass in Ucraina) e da un'estrema frammentazione sindacale. L'organizzazione operaia sui posti di lavoro -che esiste- ha dovuto ripartire spesso da zero dopo la cesura del '91 (ma già da prima si era svuotata in quanto possibilità di difesa degli autonomi interessi di classe). Ed è chiaro che i tentativi di riappropriazione degli strumenti immediati di difesa hanno preso la strada del minor sforzo, attestandosi a livello aziendale, settoriale o al massimo di categoria. Quello che è rimasto della precedente struttura sindacale (compreso un buon numero di sinceri attivisti) è andato a costituire la Federazione Russa dei Sindacati Indipendenti (unione di categorie) che formalmente vanta lo stesso numero di membri che avevano i vecchi sindacati dell'Urss, ma è in realtà debolissima e subordinata al governo sia nella linea politica (ricerca della "concertazione" con governo e imprenditori per l'attuazione di un programma di riconversione industriale che rilanci l'economia e permetta di salvaguardare le condizioni dei lavoratori; il tutto escludendo ogni prospettiva seppur minimamente indipendente in contrapposizione a governo e borghesia), sia per i finanziamenti, le strutture fisiche, ecc. Significativo che in occasione dei fatti di ottobre '93 non sia venuta da questa parte spinta alcuna per una mobilitazione della classe operaia (fosse anche contro El'tsin in nome della democrazia violata).
Che, nonostante queste difficoltà e con tutti i limiti del caso, ci sia un certo fermento di base a livello di riorganizzazione sindacale è però indubbio. Nella sola S.Pietroburgo sono attivi quarantuno sindacati professionali o aziendali, protagonisti anche di significativi episodi di lotta (ad es. quella dei lavoratori della metropolitana). E non è un caso che il governo sia costretto a seguire una politica di riconoscimento del sindacato, ovviamente cercando di favorirne la frammentazione e la divisione (vedi l'autorizzazione concessa a sindacati corporativi, come quello dei lavoratori specializzati del settore aeronautico, o dichiaratamente fascisti, di cui uno tra l'altro riceve fondi dalla Cisnal).
Più volte abbiamo spiegato come non fossero realistiche, all'indomani della fine ingloriosa dell'Urss e del Pcus, le attese estremiste di una ripresa immediata del movimento di classe in Russia sul terreno rivoluzionario e tanto meno quelle trotzkiste in un attestarsi del proletariato a difesa delle "conquiste dell'Ottobre". Contro gli uni abbiamo sostenuto che lo stalinismo (e i suoi epigoni) è stato abbattuto dalle spinte borghesi, interne ed esterne all'Urss, con tutto quel che ne consegue; contro gli altri, che il corso complessivo dei rapporti di classe in Russia escludeva (a ragione!) nel proletariato ogni possibile "nostalgia" per il vecchio sistema, e che quindi nessuno dei suoi aspetti poteva essergli spacciato come "elemento di socialismo". La realtà ha confermato in pieno questa lettura. La classe operaia ha piuttosto la necessità di "transitare" nelle condizioni dettate dal passaggio del capitalismo russo alla nuova fase, dotandosi di strumenti di lotta, sindacali e politici, a partire dalla risposta alle conseguenze che questo passaggio comporta sulle sue condizioni materiali. Compito non facile, stante l'inesistenza -all'uscita dal vecchio sistema che ha immobilizzato le forze, l'organizzazione, il programma autonomo del proletariato- di una base sindacale e politica da cui prendere le mosse (e stante l'inerzia del proletariato occidentale, non dimentichiamolo). Passaggio comunque ineludibile, destinato a mettere in moto una dinamica politica ben oltre i limiti attuali.
Di ciò vediamo già ora i primi, inequivocabili segnali. Se infatti El'tsin e la borghesia russa hanno potuto lucrare sulle "zavorre" del passato che pesano su corpo e mente dei proletari russi per far passare i propri piani (non senza le cautele viste), non di poco conto è che gli entusiasmi pro-eltsiniani della prima ora presenti in ampi settori operai sono in via di dissolvimento. Un elemento questo, che ai prossimi, immancabili passaggi delle "riforme" la classe operaia dovrà ulteriormente approfondire e capitalizzare, per poterlo poi utilizzare quando la maturità della situazione la chiamerà nuovamente in campo.
Per finire, qualche osservazione su cosa si muove tra le organizzazioni e le tendenze che fanno riferimento alla classe operaia. Stante la situazione, non ci si deve ovviamente aspettare da queste un seguito di massa tra i lavoratori. Quello che può essere interessante piuttosto vedere è come vengono presentate alcune questioni politiche che interessano senz'altro il proletariato e i comunisti.
Una delle tendenze presenti, che può essere definita di tipo "laburista", è rappresentata dal Partito del Lavoro i cui membri (in parte provenienti dalla Piattaforma Marxista del Pcus, in parte anarco-sindacalisti) lavorano in contatto con la Confederazione dei Sindacati Indipendenti (la rete di attivisti spesso coincide). Questa organizzazione (per dare un'idea, ha ottenuto l'8% alle comunali di S. Pietroburgo di questa primavera) ha un programma prettamente "laburista" di difesa dei diritti dei lavoratori nel quadro della "democrazia economica" (cogestione, ecc.); contrario alle privatizzazioni "selvagge", che regalano il paese ai predatori esteri, per un capitalismo "regolato" con un mix di impresa statale e "sana" imprenditoria privata. Come si vede, siamo al di fuori delle suggestioni staliniste (e "trotzkiste") di difesa del sistema precedente, ma contemporaneamente del nuovo ordine si accettano tutti i criteri di fondo, solo assumendoli "dal punto di vista operaio" (uno slogan significativo suona : "A prezzi di mercato, salari di mercato").
Mancando le basi oggettive per far marciare l'ipotesi "autogestionaria", quel che resta di questa linea è per i lavoratori un programma di difesa immediata, di reazione agli effetti del nuovo corso. Ma per concretizzarsi efficacemente, tale difesa avrà bisogno, da un lato, di un forte sindacato realmente indipendente, dall'altro di liberarsi dai riferimenti politici di partenza e ricollegarsi a un vero partito rivoluzionario, incubato, per quanto non a breve, dalla situazione. Ancora un'annotazione: lo scontro El'tsin-parlamento ha visto il PdL schierarsi per Rutskoi in quanto rappresentante del parlamento "democratico" contro il "dittatore" El'tsin, dunque alla coda di uno dei due fronti borghesi. Da parte dello stesso segretario cittadino del PdL di S. Pietroburgo ci è stato però confermato che i lavoratori si sono tenuti lontani dai due schieramenti in gioco, tanto meno si sono mossi in nome della difesa della democrazia.
Quanto ai neo-stalinisti (con vari raggruppamenti, dei quali il più forte è quello di Anpilov, il Partito Operaio Comunista Russo con l'appendice di movimento "Russia lavoratrice", protagonista lo scorso ottobre dell'assalto a Ostankino), essi raccolgono il proprio seguito tra pensionati, settori piccolo-borghesi marginalizzati, residui della vecchia burocrazia e, in piccola parte, operai sinceramente avversi al corso attuale. Rispetto ai "laburisti" questa tendenza coglie con maggior precisione sia la sostanza dello scontro in atto tra proletariato e borghesia sia il ruolo dell'Occidente imperialista, ma propone come soluzione una riedizione del "blocco patriottico" già attuato dallo stalinismo, in veste "antimperialista", russa o grande-russa. Conseguentemente si muove insieme a sciovinisti, fascisti e financo monarchici, non certo sospettabili di "antipatriottismo", mettendo il proprio seguito al servizio dei peggiori schieramenti borghesi e degli strati più putridi della ex-nomenklatura. Una prospettiva, questa, che nel tardare la ripresa internazionale del movimento di classe potrebbe transitoriamente colmare il vuoto lasciato dal venir meno delle illusioni sottostanti a programmi tipo PdL.
Lo diciamo non perchè crediamo ad una ripresa in grande dello stalinismo - rispetto al quale il proletariato internazionale ha dietro di sé una cesura in prospettiva fortunatamente non più recuperabile - ma per aprire gli occhi a quei compagni che qui ancora vanno alla ricerca del "baffone" di turno cui relegare la salvezza del "socialismo" (e che in realtà contribuiscono a dissolvere un potenziale di classe a tutto favore dello sciovinismo russo, questo sì con qualche chances a disposizione).
Un'ultimissima nota sulle sparute presenze "trotzkiste". Tralasciamo i trotskisti "importati" da Ovest all'indomani del '91 (corrente del Segretariato della IV, ma anche attivisti di organizzazioni quali il Militant) nella prospettiva di una immediata sollevazione della classe operaia a difesa delle "conquiste dell'Ottobre" e oggi ridotti a un intervento nelle lotte operaie improntato al più bieco economicismo. Interessanti invece alcuni segnali che indirettamente provengono dalle esigue avanguardie "autoctone", per lo meno da quelle a nostra conoscenza. Se infatti, all'indomani del '91, tra di esse aveva ancora corso la vulgata secondo cui proprietà statale = elementi di socialismo e dunque, permanendo la prima, la "controrivoluzione sociale" della borghesia era ancora in alto mare (!), oggi non si fa più cenno di quella equazione nell'analisi del corso delle privatizzazioni (con ciò, sia chiaro, non diciamo che è subentrata una corretta analisi marxista) né si punta in sostituzione di ciò sull'illusione autogestionaria, che anzi è riconosciuta come tale. A ulteriore conferma di ciò la posizione assunta di fronte allo scontro El'tsin-parlamento da parte di questi compagni è stata di contrapposizione a entrambi gli schieramenti borghesi con un intervento nella classe operaia volto a rafforzare la difesa autonoma delle proprie postazioni.
Come si vede, in Russia qualcosa si muove, seppur ancora sotto la superficie, nella direzione da noi indicata, sia a livello di classe operaia sia a livello di avanguardie politiche. In prospettiva è sicuro un tumultuoso ridefinirsi del nostro fronte di classe, al quale sarà indispensabile il "contributo" di lotta e di programma del proletariato occidentale. Se per quello svolto i comunisti di qui avranno saputo seguire con una coerente visione di classe le "cose sociali di Russia", il riavvicinamento oggettivo di queste due sezioni del proletariato internazionale aprirà scenari in cui all'ordine del giorno si porrà finalmente anche la loro riunificazione soggettiva.