Da una Francia come sempre livida di rancore verso le masse arabe, è venuto nei mesi scorsi lo squillo di tromba di una nuova crociata anti-araba ed anti-islamica. Per essa ha parlato il ministro della polizia Pasqua accusando, con l'"Islam algerino", l'intero movimento islamico di essere "fanatico", "aggressivo", "conquistatore" e "assassino". Parlano, soprattutto, i provvedimenti repressivi che Parigi ha preso sul proprio territorio. E quelli che ha "consigliato" da tempo al governo di Algeri per il territorio della ex-colonia. Lì, secondo Le Monde Diplomatique di settembre, la "lotta" ai militanti dell'islamismo radicale si fa, sotto la supervisione degli "esperti" francesi, italiani, etc., a suon di "torture sistematiche, esecuzioni sommarie, arresti di giovani in massa, raffiche di mitragliatrici sulla folla, uso del napalm" ed altre piacevolezze del genere (nel mentre si ha cura di mantenere aperto un canale di dialogo e di collaborazione con i capi delle tendenze più moderate).
Gli attentati "xenofobi" in Egitto ed Algeria, le elezioni in Turchia, l'opposizione (morbida, peraltro) di Hamas all'accordo Rabin-Arafat, un Gheddafi che annuncia (chissà poi cosa ne seguirà) l'adozione integrale della shari'a in Libia, gli accordi in India tra i musulmani "estremisti" dell'Islamic Sevak Sangh e le formazioni "marxiste", il rafforzarsi delle influenze islamiche in Nigeria, nello Yemen del Nord, in Somalia, etc.: tutto serve, in Europa e negli USA, per far materializzare lo spettro dell'Islam come rischio mortale incombente sulla civiltà e sulla democrazia occidentali. E per promuovere il consenso di massa ad un'altra puntata della guerra senza soste che l'imperialismo conduce contro gli sfruttati islamici.
E' un copione perfettamente sperimentato fin dai tempi delle crociate feudali. Urbano II, anno di grazia 1095: "Vi esorto (...) non io, ma il Signore, che a tutti, di qualunque classe sociale, sia cavalieri che fanti, sia ricchi che poveri (...), voi araldi di Cristo, istilliate la persuasione che si diano da fare per sterminare dalle nostre regioni (la Palestina -n.) quella stirpe nefanda". Anche le modernissime crociate dell'imperialismo capitalistico si svolgono sotto il medesimo segno interclassista (ricchi e poveri insieme, a beneficio di chi è inutile chiedersi) e con la medesima consegna: annientare la "stirpe nefanda". Due soltanto le variazioni sul tema: Signore-Cristo del 1994 è il Signor Capitale, di cui il Signore-Cristo del 1095 è ora l'umile araldo; secondo, le "nostre regioni", nostre dell'Occidente imperialista aggressivo e conquistatore, fanatico del dio profitto e assassino per suo conto, abbracciano oggi, ben oltre la Terrasanta, l'immensa area afro-asiatica di diffusione dell'Islam.
Cosa motiva questo rilancio della mobilitazione anti-islamica che, al di là dei contrasti non di principio emersi al vertice dei Sette a Napoli, accomuna gli stati imperialisti?
Il bilancio recente dell'islamismo non è, dopotutto, esaltante. Anzi. Ne mette in luce più le debolezze che la forza.
La guerra del Golfo fu una occasione d'oro per quella unità in chiave anti-occidentale dell'Islam e per quella jihad "anti-imperialista" che sono i due cavalli di battaglia dell'islamismo politico. Una opportunità largamente sciupata dalle forze islamiste. Infatti, la mobilitazione delle piazze, per la quale esse spinsero solo fino ad un certo punto, non riuscì a mandare in crisi nessuno dei regimi pro-occidentali. Sì che l'Iraq rimase isolato ed esposto ad una punizione terribile da parte degli USA-ONU per il suo gesto di insubordinazione. Non minore prova di impotenza ha dato, nella primavera del '92, il FIS algerino quando si è lasciato scippare una schiacciante vittoria elettorale quasi senza colpo ferire.
Né si può dire, poi, che i due soli regimi islamici al potere godano ottima salute. Tutt'altro. Teheran è alle prese con una situazione economica molto grave. E, sotto il ricatto dei suoi creditori internazionali, sta progressivamente intaccando le modeste provvidenze per i diseredati prese negli anni del khomeinismo e moderando le sue intemperanze "anti-imperialiste". A Kabul la esplosione dei conflitti (a sfondo etnico e tribale) tra le fazioni vincitrici sorelle nella fede, ha fatto naufragare da subito le speranze di un paese islamico unito e pacificato (stimolando, almeno nella capitale, qualche rimpianto per i demonizzati governi "comunisti"). Così stando le cose, non è il caso di meravigliarsi se la forza attrattiva di Iran ed Afghanistan sulle popolazioni musulmane dell'ex-URSS è da qualche tempo in calo.
Dato comune a questa serie di scacchi (o di difficoltà) è il fatto che il movimento islamico, per la cauzione posta su di esso dalle classi borghesi (o pre-borghesi) che lo dirigono, non può essere conseguente fino in fondo nella sua lotta all'imperialismo e nella sua sfida alle borghesie ed alle "feudalità" compradore. Ed i governi islamici, inclusi quelli per così dire doc, in quanto governi capitalisti, quando non essi stessi semi-"feudali", non possono essere realmente coerenti con le loro promesse di egualitarismo e giustizia sociale per gli oppressi.
Questa impasse dell'islamismo politico, e non soltanto di quello più disposto al compromesso con l'imperialismo, ha fatto ritenere che "l'islamismo rivoluzionario terzomondista e politico" stesse sul punto di tramontare. E di cedere il passo ad un "neo-fondamentalismo puritano, predicatorio, conservatore", dai tratti socio-educativi e culturali più che politici (così O. Roy su Esprit di agosto-settembre 1992). Un islamismo sul tipo di quello del FIS dei primordi. In effetti, è proprio in questa direzione che, dopo la guerra del Golfo, hanno moltiplicato i propri sforzi sia le petrolmonarchie, che i regimi arabi (Tunisia, Egitto, etc.) ed asiatici (Pakistan) decisi ad un uso statuale dell'Islam per tentare di disinnescare "dall'interno" la bomba della radicalizzazione anti-istituzionale e anti-imperialista delle masse islamiche.
Da parte sua, l'Occidente non è affatto ostile ad una simile evoluzione dell'islamismo. Continua, certo, a preferire la "laicità" di certi stati arabi, in quanto anche il più vago e "ufficiale" dei riferimenti all'Islam contiene pur sempre il richiamo ad un elemento potenzialmente unificante delle lotte a scala sovranazionale. Non c'è dubbio, però, che tra un islamismo alla Khomeini ed un islamismo "alla saudita", i circoli imperialisti considerino quest'ultimo il male minore. E nulla gli cale, in questo caso, del fanatismo: s'è mai sentita una sola voce di protesta contro l'applicazione integrale della shari'a nel regno saudita o nel Pakistan (o contro l'uso della tortura nelle sanguinarie cerimonie della schiavistica religione del Dalai Lama)? Il "fanatismo" è condannato solo quando contiene un germe di anti-colonialismo ed è davvero di intralcio all'accumulazione capitalistica.
L'essenziale, per gli imperialisti, è che l'islamizzazione "apolitica" dall'alto possa fungere da morfina nei confronti della lotta rivoluzionaria degli sfruttati (ecco la loro bestia nera!). Ma il problema è appunto questo: esiste davvero la possibilità di diffondere a livello di massa un islamismo del genere come sostituto dell'islamismo radicale, e suo antidoto?
A noi pare di no.
In tutto il mondo arabo-islamico, la polarizzazione sociale ed il malcontento degli
sfruttati e delle stesse mezze classi impoverite verso le classi dominanti e verso il nord
imperialista continuano ad acuirsi. E quando il terreno sociale scotta, anche la
più "neutra", "spirituale" ed "apolitica" delle ideologie e
delle organizzazioni inesorabilmente si politicizza (senza con ciò, comunque, cambiare
segno di classe). Un chiaro esempio è dato proprio dalla evoluzione del FIS, nato come un
movimento interno al filone wahhabita e ai libri-paga di re Fahd, e divenuto, volente o
nolente, per la pressione materiale degli sfruttati, un canale di espressione (deviante,
pavido!) delle loro istanze di lotta.
Un altro esempio della inesorabile politicizzazione delle stesse tematiche apparentemente solo "morali e religiose" è dato dalla posizione di boicottaggio assunta da diversi stati islamici verso la recente Conferenza ONU sulla popolazione al Cairo. Questi stati hanno agitato temi e motivi "nello specifico" (sulla posizione della donna nella società, il controllo delle nascite, la legalizzazione dell'aborto, etc.) del tutto reazionari. Singolarmente, però, anche la difesa della tradizione islamica non si è espressa solo in una polemica culturale con il modernismo ed il laicismo, ma si è colorata politicamente di ostilità all'"imperialismo". Proprio perché la disputa sulle politiche demografiche, anche se combattuta con formule teologiche, sottende uno scontro di interessi materiali tra imperialismo e mondo dei paesi dominati. Sicché questi stati, inclusa un'Arabia Saudita schierata per la prima volta con Iran e Sudan, hanno accusato Occidente ed ONU, in ciò a ragione, di voler imporre all'Islam ed al Sud del mondo le politiche demografiche più consone agli interessi del Nord. -(Rilevarlo, sia chiaro, non suggerisce la benché minima convergenza tra ideologia islamica ed ideologia comunista, che sono tra di loro antagoniste, in generale e nel particolare. Nulla è più sideralmente distante dall'"ideale" comunista della riproduzione consapevole della specie umana riconciliata con la natura umanizzata, delle concezioni falsamente "naturalistiche" e privatistico-bigotte sulla procreazione dei Khamenei, dei Wojtyla o di ceffi quali il berlusconiano Guidi).-
Quel che intendiamo affermare è che la politicizzazione in senso radicale dell'islamismo (e delle masse islamiche) potrebbe essere soppiantata da un processo globale nella direzione inversa, che privasse il riferimento all'Islam di ogni elemento di contestazione sociale interna o internazionale, solo a condizione di uno stabile superamento dell'attuale dissesto economico del mondo islamico e di una progressiva attenuazione in esso dei contrasti di classe. Il fatto è che, però, perfino la casa madre del "fondamentalismo puritano, predicatorio, conservatore", l'Arabia saudita, inizia, a ruota del "liberato" Kuwait, a dover fare i conti con gravi problemi di deficit di bilancio e di indebitamento inimmaginabili fino a ieri, e conosca i primi momenti di attrito con l'Occidente. Che il sogno di esportare in tutto l'Islam un islamismo "alla saudita" si rovesci nell'incubo della sua crisi, con l'apparire, pure in quel di Ryad, delle istanze anti-imperialiste? Non ce l'aspettiamo per domattina, ma così avverrà.
Se gli scacchi che l'islamismo ha subìto negli scorsi anni non si sono tradotti in una rotta; se, al contrario, le tendenze islamiche più radicali continuano a guadagnare terreno, anche in zone prima non toccate dell'Africa e dell'Asia; se l'islamismo "alla saudita" non riesce -nonostante gli appoggi statuali- a sfondare; è perché fattori strutturali e politici di lungo periodo portano grandi masse di sfruttati e di oppressi ad impugnare l'Islam come l'arma del proprio riscatto sociale. Da qui derivano tanto le perduranti ragioni di forza dell'islamismo, quanto la necessità, per l'imperialismo, di tenerlo costantemente sotto tiro.
Il primo di questi fattori è la continuazione e l'inasprimento della dominazione e del saccheggio imperialista del mondo islamico. Limitiamoci alla sola questione del petrolio. Dopo la guerra del Golfo, il prezzo del petrolio non ha fatto, fino a qualche settimana fa, che scendere, dimezzandosi ad inizio '94 rispetto al suo livello del '90 (12-13 dollari a barile contro 25; ora siamo sui 17-18). Per ogni dollaro perso sul prezzo del barile, i paesi produttori vedono contrarsi i loro introiti di 7.500 miliardi di lire l'anno (12 punti in meno equivalgono a 90.000 miliardi di lire l'anno). La maggiore vulnerabilità economica dei paesi produttori ha offerto alle compagnie petrolifere "una magnifica occasione di rivincita. Cacciate dai deserti intorno al Golfo Persico venticinque-trenta anni fa, le multinazionali del petrolio possono ora contrattare il rientro da posizioni di forza, avendo dalla loro non solo gli strumenti tecnologici ma sopratutto i mezzi finanziari (nonché un rafforzato presidio di proprie truppe in loco -n.). Ed è esattamente quello che stanno facendo." (L'Espresso, 12 dicembre '93).
Rispetto agli anni '60-'70 le parti si sono rovesciate. Ora sono le compagnie petrolifere a pretendere garanzie dai governi arabo-islamici in fatto di investimenti, joint-ventures, quote di proprietà, diritti di ricerca, detassazione dei profitti, etc. etc. La misura del loro successo è nelle cifre relative all'incremento della produzione di petrolio delle "sette sorelle" nei paesi dell'Opec tra il 1988 ed il 1992. La B.P. è passata da 214 migliaia di barili al giorno a 322, la Total da 275 a 386, la Exxon da 47 a 66, la Mobil da 124 a 181, la Chevron da 307 a 443, la Shell da 211 a 494, la Texaco da 236 a 347. Le conseguenze sociali di questa intensificata rapina? In paesi come l'Algeria, l'Egitto, l'Iran, la Nigeria, etc. siamo alla più nera miseria di massa. E lo stesso governo saudita ha dovuto tagliare del 20% le voci non militari del bilancio statale.
C'è di più: a quest'arrembante arraffa-arraffa si accompagna una accresciuta opera di manomissione dell'imperialismo sugli stati arabo-islamici. La guerra esplosa nello Yemen nasce da qui. Assalto delle multinazionali al petrolio yemenita. Acuto scontro d'interessi tra di esse (in particolare tra la Hunt e la Enron, entrambe americane). "Soluzione" dello scontro nel conflitto armato. La guerra civile spacca un paese da poco riunificatosi, e favorisce "l'entrata in forza delle tribù nella guerra inter-yemenita" e nella vita politica del paese (Arabies, luglio-agosto '94). La rovina dello stato unitario yemenita lascia le mani ancora più libere alle compagnie petrolifere e alle potenze imperialiste. A quale altro stato toccherà in seguito?
Fintantoché il saccheggio e lo sfruttamento occidentale del mondo arabo-islamico continuerà a produrre povertà e devastazione su scala allargata, e fintantoché il proletariato mondiale resterà nell'attuale stato di apatia politica, le schiere del movimento islamico, per quanta irresolutezza dimostrino le sue direzioni, continueranno ad essere folte.
Anche perché il fallimento del nazionalismo arabo nel contrastare l'azione dell'imperialismo e nel guidare l'uscita dei propri paesi dal sottosviluppo è ogni giorno di più completo. E trascina con sé, da un lato, quel "laicismo" o "socialismo" delle borghesie arabe che vien visto spesso, a livello di massa, come l'aspetto ideale della loro sottomissione ai diktat occidentali; e dall'altro, la stessa dimensione dello stato nazionale, visto -giustamente- come sempre più insufficiente a resistere, singolarmente preso, alla pressione congiunta delle banche e delle cancellerie imperialiste.
Le borghesie nazionali arabe e più ancora quelle di paesi islamici quali Pakistan o Indonesia, si sono dimostrate costituzionalmente incapaci di portare avanti fino in fondo la causa dell'unità pan-araba o pan-islamica che pure dicono di perseguire e che sarebbe, in linea di principio, nel loro interesse. Essendo arrivate al capitalismo in ritardo, quando questo era nel suo stato di senescenza imperialista, avrebbero avuto un solo modo per farlo: mobilitare le grandi masse degli sfruttati per uno scontro con gli oppressori "esterni" che avrebbe, però, scatenato la lotta di classe all'interno dei loro stessi paesi. Timorose di questi sviluppi, le deboli borghesie arabe ed "islamiche" hanno finito, tra mille contorcimenti "tattici", per dimissionare dalla lotta all'imperialismo. Sebbene un tal dimissionamento non porterà mai ad un puro e semplice appiattimento di queste borghesie sulle posizioni dell'imperialismo, e non fa affatto escludere per il futuro loro obbligati, anche acuti, momenti di resistenza passibili di sviluppi da esse non controllabili.
Non c'è pericolo, invece, che le borghesie imperialiste rinuncino alla propria "missione" di dominazione sui paesi terzi. Per questo la necessità della lotta all'imperialismo resta nel mondo islamico, come in tutti i paesi dominati o controllati dall'imperialismo, più viva che mai. Finanche, a suo modo, per la borghesia. Più ancora per le classi piccolo-borghesi ("lumpen-borghesia"), piene di rabbia per vedersi private di ogni speranza di ascesa sociale. In massimo grado per il proletariato e le grandi masse semi-proletarie, alle prese con livelli di sfruttamento e di indigenza insostenibili.
Davanti all'aggressività del capitale imperialista, in assenza di una iniziativa indipendente del proletariato, l'islamismo resta da solo a coprire il vuoto lasciato dal vecchio nazionalismo che batte in ritirata. Lo fa sollevando la bandiera della lotta unitaria dell'Islam all'Occidente mentre proprio l'unificazione delle lotte è un'esigenza fortemente avvertita dagli sfruttati. Dispongono forse questi, al momento, di un'altra prospettiva più corrispondente alle loro aspettative ed ai loro interessi?
Se fosse stato in campo un proletariato rivoluzionario, per gli ayatollah e gli ulama "rivoluzionari" sarebbero stati cavoli acidi (non ne parliamo poi per i Bush, gli Schwarzkopf & C.).
Quando questo avvenne, quando, con il Congresso dei popoli d'Oriente a Baku nel 1920, l'Internazionale Comunista si rivolse alle popolazioni islamiche, allora al 95% contadine ed estranee alla politica mondiale, per invitarle ed incitarle alla guerra di classe contro l'imperialismo al fianco della Russia sovietica e del proletariato metropolitano, la risposta della avanguardia degli oppressi islamici fu entusiastica. Con l'arretramento e la sconfitta della rivoluzione in Europa, questo grandioso disegno strategico cadde. Ma noi siamo certi che quando il rinato Partito Comunista potrà, da una nuova Baku, rivolgere di nuovo quell'appello alle immense masse degli sfruttati dell'Islam e del Sud del mondo, nel frattempo almeno in parte proletarizzatesi ed entrate in pieno nella scena storica, quella unità rivoluzionaria del proletariato e degli sfruttati di tutto il mondo che negli anni '20 rimase allo stato embrionale, potrà finalmente avverarsi. E il definitivo affossamento del sistema capitalistico sarà davvero vicino.
Per l'intanto, però, piedi per terra. E piena aderenza all'opaco "oggi", guardato naturalmente nella luce del domani rivoluzionario.
Oggi il primo passo da compiere in direzione del proletariato e degli oppressi arabo-islamici è comprendere che essi stanno dove stanno per cause non attribuibili affatto, in prima istanza, alla loro "arretratezza culturale" o al loro "fanatismo religioso". Stanno dove stanno, alla fin fine, per "colpa" nostra: di noi classe operaia e comunisti dei paesi imperialisti.
Siamo stati noi, che l'avevamo impugnata a Mosca ed a Baku, ad ammainare la bandiera della lotta rivoluzionaria all'imperialismo. Noi li abbiamo lasciati soli nella sollevazione anti-feudale e anti-colonialista. Noi abbiamo accreditato, quando lodandole quando criminalizzandole, le loro direzioni borghesi, sospingendoli così prima ad "arabizzarsi", ora ad "islamizzarsi". Noi abbiamo consentito, e continuiamo a consentire, all'imperialismo di colpirli senza metterci di traverso sulla sua strada, senza aprire un fronte interno alla metropoli che ne paralizzi l'azione "all'esterno".
Ed a noi ora spetta, anzitutto, comprendere, oltre che le ragioni non meramente contingenti dell'attuale collocazione politica e ideologica di tanta parte delle masse povere dell'Islam, anche le condizioni alle quali essa può essere e sarà superata in avanti.
Dire che questa collocazione si spiega, in ultima analisi, non con motivi religiosi o culturali, bensì con cause economico-sociali e politiche, non significa sottovalutare la diversità delle "forme" ideologiche e culturali, o essere indifferenti rispetto ad esse. L'"anti-imperialismo" islamico non è certo la stessa cosa di quello comunista, e neanche suo lontano parente. E se gli sfruttati arabo-islamici aderiscono al primo e non al secondo, è segno di quanto profondo sia stato l'arretramento del fronte di classe dagli anni '20, anzitutto nel "centro" del sistema capitalistico.
C'è però un rovescio della medaglia: il fatto che essi, pur privi di una direzione rivoluzionaria di classe, pur delusi dal tradimento e dalla disfatta dello stalinismo e del nazionalismo, non disertino il campo di battaglia ma continuino a radunarsi intorno ad una nuova prospettiva di lotta, è indice di quanto potenti siano il loro bisogno e la loro volontà di riprendere il cammino interrotto della rivoluzione. E di come essi, attaccando l'imperialismo nei modi che la congiuntura storica gli consente, tornino di continuo a battere all'uscio della classe operaia della metropoli.
Più la classe operaia metropolitana tarderà a rispondere, più profondo rischia di farsi il fossato che la separa dagli sfruttati islamici. Un fossato che le classi dominanti, qui e lì, si sforzano di rendere incolmabile anche con l'enfatizzare le indubbie diversità di cultura, di religione, di tradizioni, etc. esistenti tra Islam e Occidente.
Giusta l'insegnamento di Karl Marx, l'avanguardia di classe deve sempre mettere avanti, invece, le questioni della proprietà, dei rapporti sociali di produzione, degli interessi di classe, dello sfruttamento, dell'oppressione e della miseria materiali. "Problemi" rispetto ai quali le questioni della cultura, della religione, delle tradizioni, del diritto, etc., sono questioni derivate (che non vuol dire: senza peso, o destinate a sciogliersi automaticamente). Deve mettere avanti, insomma, tutto ciò che unisce, contro il comune nemico capitalista-imperialista, gli operai del Nord e gli sfruttati del Sud del mondo. Ed in nome di questa comunanza di interessi storici di fondo non solo non aderire, ma denunziare e contrastare con vigore la incessante crociata anti-islamica nei suoi reali scopi di sfruttamento e di rapina.
Appoggio fattivo ed incondizionato, dunque, alla lotta anti-imperialista delle masse arabo-islamiche. Anche se diretta al momento da forze non proletarie, e ad ideologia -anzi- molto spesso schiettamente reazionaria. Anche se si esprime in forme "xenofobe", colpendo "nel mucchio" (se e quando sia davvero così) gli stranieri bianchi in quanto tali. Anche se prende l'inefficace indirizzo del "terrorismo" contro il mostruoso terrorismo borghese-imperialista. Perché è solo la prosecuzione e la estensione della lotta che potrà svelare agli occhi degli sfruttati arabo-islamici quanto l'islamismo, raffinato o "rozzo", morbido o anche il più duro ed estremo, elettoratista o "afghano", sia organicamente impotente a risolvere le vere, cruciali, questioni sociali e politiche che agita: l'anti-colonialismo, la uscita dal sottosviluppo, la giustizia sociale, l'unità dei paesi islamici.
Questo appoggio vale come invito ai proletari dell'Islam a sfidare i "propri" attuali capi perché portino a compimento i programmi che sventolano e per questa via, se ne sperimentano, come è inevitabile, la demagogicità, a sbarazzarsene. Esso non comporta affatto di dover tacere sulla valutazione di classe di tali programmi e metodi di lotta nell'attesa passiva del responso spontaneo dell'esperienza delle masse. Neanche per idea! Comporta, invece, di prenderli anche noi sul serio, discuterli e disvelarli per quel che sono.
La (sempre più) variegata galassia delle tendenze islamiche ha in comune uno slogan: "l'Islam (il Corano) è la soluzione". La soluzione dei problemi sociali del nostro tempo, a cominciare da quelli dei paesi arabi e islamici. Ma perché lo è, ed in che consiste questa soluzione?
Lasciamo a Sayyid Qutb, il più importante teorico dell'islamismo radicale il compito di spiegarlo, limitandoci al nocciolo economico-sociale del suo pensiero (1).
Per Qutb l'autentico Islam, quello delle origini e quello "integrale" che verrà, è "una totalità (sociale -n.) armonica includente un ordinamento economico equo" ed "un'organizzazione sociale equilibrata". Armonica la società islamica lo sarebbe in quanto "comunità senza classi" in cui "tutti (sono) eguali davanti alle leggi" (ma se bastasse la borghese eguaglianza davanti alla legge a far sparire le classi, le società occidentali dovrebbero essere il regno dell'armonia da quei bei dì: come mai non lo sono?). Equa perché ammette la proprietà privata, inclusa la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma solo entro certi limiti che la renderebbero inoffensiva (questo principio è anche nell'articolo 42 della "cattolica" costituzione italiana). In essa il meccanismo riequilibratore centrale nella distribuzione della ricchezza sociale è l'"equità fiscale", con i ricchi che debbono pagare allo stato di più degli altri componenti della società. L'Islam è infatti -ahi, ci fischiano le orecchie, le sentiamo ogni giorno queste cose da fonti che molto islamiche non ci paiono- per "una equa divisione del profitto tra i lavoratori ed il datore di lavoro". Ammette la "libertà d'azione", di "scambio di servizi" tra i membri della comunità, insomma il mercato capitalistico con il capitale ad un polo e il lavoro salariato all'altro -come dice papale papale l'altro maestro dell'islamismo radicale, al-Mawdudi-. Solo che vuole un controllo sullo sviluppo del capitalismo secondo il principio (non proprio originale) del "profitto moderato", a far valere il quale è chiamato, come in ogni dottrina borghese riformista, lo stato. In breve: sì alla proprietà privata, no al monopolio. Sì al capitale produttivo, no all'usura ("bisogna liberare l'economia dall'usura", dice Proudhon-Qutb) ed al parassitismo, identificato riduttivamente con il capitale finanziario (descritto con concetti rubati al marxismo).
Qutb dice poi cose sensate circa il fatto che la democrazia (borghese) è nei fatti, in regime di monopolizzazione delle ricchezze sociali, una oligarchia di classe, perché il governo effettivo della società, ad onta delle centomila consultazioni democratiche, è nelle mani di quella minoranza dispotica che detiene il capitale finanziario (anche questa l'abbiamo già letta; non ci pare, però, di averla letta nel Corano). Salvo, poi, proporre, in alternativa alla democrazia borghese, il vago principio della shura, della consultazione "islamica", che dovrebbe riguardare tutti i cittadini senza distinzioni. Di questi "tutti", però, e ci risiamo, alcuni sono ricchi e proprietari, la grande massa è fatta di poveri e nullatenenti. Con la shura islamica, insomma, il potere delle oligarchie di classe che si pretendeva di aver cacciato dalla porta, rientra pari pari dalla finestra.
Allo stesso modo, la denuncia dello "sfruttamento imperialistico" che l'Europa esercita sull'"Oriente islamico" è sacrosanta. Ma alla proclamazione dell'Islam come arma "per cancellare dalla faccia della terra ogni traccia dell'imperialismo", non segue neppure uno straccio di strategia per operare questa "cancellazione". Anzi, un tale obiettivo rivoluzionario viene immediatamente sostituito da un obiettivo riformistico. Ed ecco che la insorgenza "in blocco del mondo dell'Islam (...) contro la barbara tirannide delle moderne potenze imperialiste"(ben detto!) viene presentata come la forza capace di porre "un termine a tutte le rivalità internazionali" istituendo un nuovo "equilibrio delle forze fra le nazioni del mondo" (capitalistico). E' tutto qui?
Nulla, lo diciamo ai sinceri militanti dell'islamismo radicale, davvero nulla di nuovo sotto il sole. E tanto meno di specificamente islamico o coranico. Si tratta, dalla a alla zeta, della pretesa riformista di avere il capitalismo senza le conseguenze necessarie del capitalismo (sfruttamento, diseguaglianze di classe, monopolio, imperialismo, guerra, etc.). Della solita illusione, e menzogna, riformistica borghese secondo cui lo stato e il diritto, concepiti come super partes, possono mettere le briglie al profitto, alla concentrazione della ricchezza, alla concorrenza, etc., e con alcune misure "riequilibratrici" il capitalismo può tramutarsi da brutto anatroccolo in un "armonico" cigno bianco. Con questa circostanza aggravante: che se già nel Nord imperialista il riformismo borghese ha sempre meno briciole da redistribuire e sempre più sacrifici da amministrare, nel Sud dominato la sua ricetta per lo scioglimento delle contraddizioni sociali è ancora più inconsistente, dacchè la sola cosa che lì può essere redistribuita, capitalismo permanendo, è, piaccia o no, la fame.
Davanti alla putrefazione delle società occidentali ed alla rovina del "socialismo" di marca stalinista, Sayyid Qutb ricorre ad una formula certamente suggestiva per il mondo arabo-islamico quando afferma: l'Islam ha dato, e darà, vita ad una "civiltà superiore di gran lunga (...) alla civilizzazione capitalistica" ed a quella "comunista" perché "abbraccia tutta la vita dell'uomo" e "stabilisce un equilibrio ragionevole fra i diversi aspetti della sua esistenza". Ora, lasciando perdere la mistificazione di identificare il socialismo autentico con il "socialismo" di Stalin e stalinisti che lo hanno palesemente tradito, riconosciamo senza riserve la portata effettivamente rivoluzionaria dell'Islam storico di Maometto. Che fu una "guerra sociale" delle povere popolazioni beduine del deserto "contro l'usura e la prepotenza della ricchezza" della oligarchia mercantile dominante alla Mecca, che portò ad una sorta di rozzo "mercantilismo egualitario", per quei tempi realmente una forma sociale "nuova" e "superiore".
Ma l'economia politica dell'Islam del futuro, come delineata da Qutb, al-Mawdudi, Ali Shari'ati e dagli altri teorici dell'islamismo radicale, nulla ha invece di nuovo, rivoluzionario e "superiore" rispetto al capitalismo. Essa è totalmente modellata sul capitalismo. E' una copia, spesso letterale, dell'economia politica riformista e social-democratica, ed al pari di quella vorrebbe tenere i lavoratori (i mostazafin tanto cari alla retorica islamista) eternamente sotto il giogo dello sfruttamento capitalistico, benché temperandolo. E l'"anti-imperialismo" islamico non ha niente di realmente differente da quello del nazionalismo arabo e del nazionalismo terzomondista in genere, che già hanno mostrato i loro limiti insuperabili in questo dopoguerra. L'islamismo politico è, in ultima analisi, una delle forze che tendono a prolungare l'esistenza di quella decadente "civilizzazione capitalistica" di cui si dice avversario.
Risiede proprio nel non saper e voler affrontare alle radici il problema della lotta al capitalismo e all'imperialismo la congenita debolezza strategica dell'islamismo politico. Esso è in grado di nominare tutti i problemi che la liberazione degli sfruttati arabo-islamici ha di fronte, ma indica una "soluzione" che non ne risolve nessuno, che non porta da nessuna parte: una prospettiva falsa, sia sul piano teorico che su quello pratico. (Con, sotto certi aspetti, anche un quid di reazionario rispetto allo stesso capitalismo.)
Anche se è prevedibile che per un certo lasso di tempo l'islamismo politico continuerà ad espandersi, l'accresciuta aggressività degli stati imperialisti da un lato, l'inasprimento delle contraddizioni di classe nel mondo islamico dall'altro, lo stringeranno sempre più alle corde. Già se n'è avuto un primo anticipo nel corso della guerra del Golfo. Si fonda su questa analisi e su questa previsione del corso futuro del capitalismo il lavoro di lunga lena dei comunisti rivoluzionari volto a svuotare il movimento borghese islamico dalle masse degli sfruttati e degli oppressi per guidarle, nella lotta ed attraverso la lotta, sul solo terreno autenticamente rivoluzionario, quello del comunismo. Un passaggio, questo, perfettamente possibile. Mentre infatti non esiste alcuna linea di continuità tra l'"anti-capitalismo" e l'"anti-imperialismo" islamico (l'islamismo dei capi, che è parte integrante del fronte borghese) ed il comunismo, l'attuale schieramento di lotta delle masse islamiche (l'islamismo delle masse) può, a date condizioni, preludere ad un loro passaggio, non in un solo salto, evidentemente, al comunismo proletario.
Questo spostamento a sinistra delle masse islamiche non è cosa locale, islamica. E' tutt'uno con la riconquista della propria indipendenza di classe da parte del proletariato metropolitano e con la unificazione del fronte internazionale degli sfruttati. Ma proprio perché il proletariato occidentale tarda ad assumere il suo ruolo naturale di traino e di guida, proprio perché a dirigere in sua vece la lotta delle masse islamiche sono forze non proletarie (nel migliore dei casi) esitanti ed inconseguenti, bisogna attendersi ed essere preparati ad un loro cammino molto accidentato.
Il pericolo più grande nell'immediato è, come evidenzia sopratutto l'esperienza algerina, quello della frammentazione della lotta, della sua dispersione anarchica, se non della vera e propria libanizzazione della situazione sociale e politica (un pericolo tutt'altro che remoto anche a Gaza, per es., dove allo scontro tra Jihad islamica-Hamas e arafattiani inizia a intrecciarsi uno scontro tra clan). Operano in tal senso tanto dei fattori oggettivi, quanto l'intervento dell'imperialismo.
In Algeria, la mancata risposta unitaria di classe operaia e diseredati alla instaurazione della legge marziale nel '92 ha prodotto un rinculo delle lotte, che lo sfrangiamento della direzione del FIS ha accentuato. In questo contesto, la spinta alla continuazione della lotta ha preso la forma di centinaia di nuclei di azione armata solo blandamente coordinati tra loro dall'Esercito islamico di salvezza affiliato al FIS (ma quanti FIS esistono?) e dal Gruppo islamico armato. Nuclei e raggruppamenti nei quali sempre più si fa strada l'illusione di poter sopperire con la radicalizzazione delle forme di lotta alla inconsistenza dei programmi politici e delle strategie di lotta per il potere, alla crescente compromissione con l'imperialismo delle dirigenze del FIS ed alla provvisoria passivizzazione delle masse sfruttate.
Nessun sostitutivismo, nessuna precipitazione "terroristica" potrà pagare davvero nella guerra all'imperialismo ed agli spietati regimi compradori dei Zeroual o dei Mubarak. Nessuna autentica, solida ripresa della lotta rivoluzionaria degli sfruttati arabo-islamici potrà darsi a prescindere dall'impietoso bilancio della impotenza dimostrata dall'islamismo in tutte le sue diramazioni.
Per aiutare e affrettare questo bilancio, deve cessare qui quella stolta indifferenza verso l'esperienza di lotta delle classi sfruttate del mondo islamico che ce le fa apparire come un mondo a sé che, per ataviche ragioni etniche o religiose, non potrà mai entrare in fusione con noi proletari "evoluti" e comunisti doc (o sciovinisti inconsapevoli?) del mondo "civilizzato". Dobbiamo far sentire forte, invece, la nostra solidarietà alle masse sfruttate in lotta contro l'imperialismo, in particolare quando esse sono aggredite dal "nostro" imperialismo. E, con questa solidarietà, tutta la forza liberatrice rivoluzionaria del comunismo.
Quando questo avverrà, verrà in chiaro quanto sia stato di danno al nostro fronte lasciare la classe operaia araba ed islamica sola nel suo sforzo di smarcarsi dall'egemonia delle borghesie nazionali e di non farsi fagocitare dal demagogico populismo islamico. E lasciare i proletari islamici immigrati in Occidente, anello fisico di congiunzione con l'insieme degli sfruttati arabi ed islamici, soli davanti alle leggi restrittive, alle misure di polizia ed ai proditori attacchi con cui li martellano i "nostri" democratici governi e la brava gente (non fanatica...) di casa nostra.
Lavoriamo perché questa frattura sia sanata il prima possibile.
(1) Utilizziamo la traduzione della sua opera Equivoci sull'Islam (edita a cura dell'Unione degli studenti musulmani in Italia), Ancona, 1980 e la sintesi delle sue posizioni contenuta in Y.M. Choueiri, Il fondamentalismo islamico, Bologna, 1993. Le espressioni poste tra virgolette sono ovviamente di Sayyid Qutb. Qutb fu mandato a morte da Nasser nel 1966.