Non c'è stato presidente statunitense, democratico o repubblicano, progressista o conservatore, che non abbia, a partire dal '59, tenuto ben in evidenza nella sua agenda il capitolo Cuba, con l'annotazione: liberarsi del "castrismo". Diversità ve ne sono state quanto alle forme, ma non sempre alla qualifica "progressista" ha corrisposto il loro ammorbidimento, basti pensare alla tentata invasione del '61 alla Baia dei Porci di Kennedy e all'impegno di Clinton nel sostenere la "legge Torricelli" di indurimento dell'embargo e per aggravarne la crisi interna onde accelerare l'avvento della "democrazia".
La continuità nella politica dei vari presidenti sarebbe sufficiente da sola a rivelare la vera natura dell'interesse USA verso Cuba: una grande potenza imperialista non può tollerare -per di più nel patio di casa- l'esistenza di un paese, pur minuscolo, che oppone resistenza al libero e democratico dispiegarsi delle leggi del capitalismo imperialista, ossia la completa soggezione al dominio economico e finanziario del capitale (immensamente) più forte, con la conseguente rapina di tutte le risorse, naturali o sociali, assoggetabili allo sfruttamento per fini di profitto. Quale altra "libertà" preoccupa la Casa Bianca se non quella del mercato? Quale altra "democrazia" se non quella che consenta alle forze economiche (e, quindi, a chi le possiede) di operare senza i vincoli di una struttura sociale e politica orientata, per quanto debolmente, a una protezione assistenziale, economica, sociale della "comunità nazionale" e, in essa, della classe lavoratrice?
Verità lapalissiana e, naturalmente, negata da ogni coerente sostenitore dell'imperialismo, ma respinta anche dal tipo di "sincero democratico" di cui è pestilenzialmente ammorbata l'aria negli ambienti della "sinistra". Costui pur temendo che le mire americane siano di natura piattamente imperialista, è convinto che la democrazia che domina in occidente sia la perfetta forma di organizzazione sociale da esportare nell'universo mondo, sia pure, a parer suo, con strumenti non violenti. A seconda dei casi questi sarebbero: non i carri armati americani, ma i più rassicuranti onuisti (Somalia); non le bombe, benché questa volta onuiste, ma un rigido e duraturo embargo (Irak); non un embargo ma una "pacifica" trattativa tra le parti (Cuba). Il campionario è vario e ammette eccezioni -ad Haiti va bene anche la sola armata americana con pochi figuranti d'altri paesi-, la logica è, invece, unica, e posa sul completo asservimento -o, se si preferisce, sulla completa assuefazione- al sistema imperialista, tanto meritevole per la prodigale diffusione di benessere (com'è facile quando si partecipa al "benessere", sia pur da commensali di terza fila, se non proprio da semplici raccoglitori a quattro zampe di briciole, dimenticare che esso si è diffuso solo in occidente e proprio grazie alla "democratica" rapina ai danni del resto del mondo, oltre che a quella ai danni del proletariato occidentale).
L'imperialismo conosce, invece, molto bene il suo funzionamento e sa di non poter lasciare che alcuna isola al mondo pretenda di amministrarsi erigendogli il benché minimo ostacolo. E, nel caso di Cuba, non si è trattato, né si tratta tuttora, di un ostacolo minimo.
Quella cubana fu rivoluzione vera sia sul piano economico-politico che su quello sociale, e nonostante il suo deteriorarsi oppone ancora al completo dispiegamento della rapina imperialista tanto un sistema di guarentigie sociali, che costringerebbero l'imperialismo, pure in caso di vittoria, a un semplice lavoro di "bonifica", quanto una forza internazionale oggettiva, che le deriva dall'importanza che riveste per lo meno per le masse oppresse del Centro e del Sud America.
Sul piano economico-politico si trattava di liberarsi dall'imperialismo americano, giunto a dominare l'isola -anticipando un processo divenuto caratteristico del secondo dopo guerra- in funzione "liberatrice" dal precedente dominio coloniale spagnolo. Il dominio americano non aveva sospinto l'economia a sollevarsi dalle condizioni di arretratezza, confermando l'assoluto prevalere dell'agricoltura, il suo assetto mono-culturale o quasi (canna da zucchero, tabacco, caffè) e la sua costrizione in rapporti di proprietà semi-feudali coi grandi latifondi. A questo aveva aggiunto "solo" il monopolio commerciale e finanziario dei trusts americani, rivelatosi (come ovunque) più rapace dello stesso precedente colonialismo. Aveva, inoltre, trasformato Cuba in una sorta di grande "bordello" per le delizie dei nordamericani arrichitisi più o meno legalmente.
Tutto ciò aveva prodotto la decomposizione dei precedenti assetti sociali, senza sostituirli con nuovi e più solidi, anzi favorendo, con l'economia "del divertimento", un vero e proprio corrompimento di interi strati di popolazione, dipendenti, per vivere, dai dispensatori di dollari.
Il quadro di riferimento dell'iniziativa rivoluzionaria (già annunciatasi tra le due guerre mondiali) non poteva che essere, date le premesse, disegnato sulle direttrici dell'anti-imperialismo al fine di realizzare uno sviluppo economico autonomo dai suoi interessi predatori e di valorizzare in proprio tutte le risorse nazionali, e della democrazia, ossia della diretta partecipazione al potere delle classi nazionali chiamate a quel rinnovamento dell'economia e della società. Un quadro, insomma, completamente democratico-borghese. Non per questo, date le condizioni di partenza, meno rivoluzionario.
L'intervento massiccio e unitario nello scontro di larghe masse di contadini, piccola borghesia e dello scarso proletariato (la borghesia preferiva, per lo più, continuare con la dipendenza dagli americani) consentì di aver partita vinta contro il regime filo-americano di Batista.
Le difficoltà e le opposizioni (interne ed esterne) incontrate dalle prime blande misure del nuovo potere suscitarono un'ulteriore attivizzazione rivoluzionaria delle masse, il cui protagonismo finì con l'esercitare un peso enorme sulla direzione dello Stato, sugli stessi capi rivoluzionari e sui loro programmi. L'impeto e la forza della rivoluzione imposero all'uno e agli altri una "radicalità" che altre rivoluzioni democratico-borghesi, vittoriose con presupposti dissimili riguardo al ruolo delle masse, non hanno avuto o hanno ben presto accantonato.
La rivoluzione cubana aveva in sé, dunque, teoricamente le caratteristiche per rientare nel quadro -di Marx e di Lenin- di una rivoluzione che, nata sul terreno democratico-borghese, trascresca in una socialista. A mancare non fu la determinazione delle masse, né solo la coscienza dei capi, ma la "piccola" condizione dell'esistenza di un bastione mondiale del comunismo, in grado di assisterla e guidarla lungo quel corso, saldandola alla lotta rivoluzionaria del proletariato a scala mondiale. Non più era Mosca tale bastione, né il proletariato occidentale era, al momento, in grado di ricevere il messaggio rivoluzionario proveniente da Cuba e di rispondervi conseguentemente. Vi mancavano, dunque, le concrete condizioni storiche. Nè varrebbe alcunchè imputare ai "capi" di aver "tradito" la vera rivoluzione socialista ripiegando su una dimensione "nazionale", tanto più che la particolare "radicalità" della rivoluzione cubana indusse i suoi stessi capi a compiere passaggi altrimenti impensabili, come, per esempio, i tentativi di Che Guevara di cercare di superare i limiti "nazionali" della rivoluzione cubana con una sua estensione, pur sempre e solo su un piano anti-imperialista borghese, a tutta l'area latinoamericana. Tentativi generosi quanto insufficienti, ma che testimoniano di una forza "spontanea" -non solo e non tanto dell'individuo, ma della rivoluzione che lo sospinge innanzi-, e, proprio in quanto "spontanea", inevitabilmente -nel senso di Lenin- limitata.
Per evitare un isolamento che l'avrebbe esposta alla reazione imperialista, Cuba aderì al "blocco sovietico", in cui fu ben accetta nell'ambito della strategia di "sottrarre" all'avversario americano quanti più paesi possibili -figurarsi un'isola così prossima alle coste USA!-, non perchè l'URSS avesse la potenza per sottometterseli economicamente e finanziariamente, ma, per evitare un dominio USA sul mondo intero, preludio allo scatenamento della conquista dell'URSS stessa.
L'integrazione nel blocco sovietico comportò una progressiva de-radicalizzazione della rivoluzione e un definitivo abbandono di ogni pretesa di sua "esportazione", il che rientrava perfettamente negli schemi dell'URSS per preservare l'intero sistema capitalista mondiale, secondo un ruolo ormai apertamente contro-rivoluzionario, conseguenza e applicazione dell'interesse nazional-capitalistico russo.
Per "contenere" la spinta rivoluzionaria delle masse cubane l'URSS profuse notevoli "aiuti" economici e finanziari. Questi non erano in grado di consentire lo sviluppo di un capitalismo cubano autonomo, nel senso di affrancato dalle leggi imperialiste, ma consentirono di realizzare una distribuzione delle risorse e un equilibrio sociale su cui tutte le classi cubane potevano misurare i passi innanzi fatti "con la rivoluzione".
La disgregazione del "blocco sovietico" e della stessa URSS, con la conseguente chiusura del rubinetto di "aiuti", non apparendo più alla Russia necessario sostenere un punto "di confronto" con gli USA così "provocatorio", hanno indotto a Cuba una crisi economica sempre più profonda, non evitabile neanche col -tiepidissimo- aiuto cinese. Agli USA veniva così offerta su un piatto d'argento la possibilità di "prendere per fame" l'isola caraibica.
E l'imperialismo USA non ha lasciato cadere questa occasione. Ha rafforzato il già trentennale embargo commerciale, inasprito la campagna contro la "dittatura castrista", rivendicato -per sostituirla con la democrazia- il diritto all'ingerenza negli affari cubani, iniziato a minacciare persino un accerchiamento navale, per ora solo per difendere le proprie coste dall'invasione dei balseros. Nel frattempo il "pacifista" Clinton ha intascato il consenso della "comunità internazionale" all'intervento armato ad Haiti con causale "ripristino della democrazia"... Qual migliore precedente per spianare la strada a un analogo intervento a Cuba? Ogni mezzo è lecito pur di imprimere la parola fine a una esperienza rivoluzionaria che non solo impedisce di realizzare, all'immediato, "liberamente" dei profitti, ma -ciò che, in una certa misura, è ancor peggio per l'imperialismo- che tuttora rappresenta un esempio vivo, pur nelle difficoltà presenti, agli occhi delle masse di un intero continente, oppresse dall'imperialismo e protagoniste di innumeri episodi di lotta contro esso, unico vincente dei quali è stato proprio la rivoluzione cubana.
Non che gli USA programmino a breve un intervento militare. Ben sanno che la reazione delle masse cubane difficilmente sarebbe simile a quella delle haitiane. Quando una rivoluzione si è data in termini un tantino radicali lascia il suo segno; tuttora vaste masse hanno vivo il ricordo di quel tanto di riscatto che esse si sono dato e capiscono fin troppo bene la pressione "liberatoria" USA. Perciò questi ultimi sono, in qualche modo, obbligati a continuare la "paziente" politica di "prendere per fame" il "popolo" cubano. Ma anche questo potrebbe non svolgersi secondo i piani americani.
Quei piani hanno dalla loro la circostanza che soprattutto le giovani generazioni, prive dell'esperienza e del ricordo della rivoluzione, e perciò incapaci di capire da dove nasca il tracollo delle proprie e "garantite" condizioni di vita (fino ad addebitarle ai privilegi della burocrazia interna), possano recepire l'invito ad ingaggiare una lotta contro il "regime", nell'illusione di poter godere di quei lustrini del "libero occidente" adocchiati, magari, alle finestre dell'industria turistica "socialista". Ma a loro favore pende anche l'abbandono della spinta rivoluzionaria, avveratasi negli anni, da parte degli apparati politici e di potere interni, con il loro crescente distacco dagli interessi e dalla lotta delle masse, col ritagliarsi posizioni di difesa di (piccoli, talora infimi) interessi, sentiti dalle masse come ingiusti privilegi. A questo apparato potrebbe accadere, dinanzi all'aggressione esterna, o di liquefarsi (come nell'ex-Jugoslavia) o di verificare, nel momento in cui chiamasse le masse alla lotta, di non avere più alcun legame con esse.
Se si è giunti a una disaffezione delle masse e persino all'odio contro il punto terminale -il potere "comunista"- e non contro il punto di partenza della crisi attuale (l'aggressione imperialista) ciò è dovuto proprio al fatto che la rivoluzione ha progressivamente lasciato prive le masse (a loro volta prive esse stesse "per proprio conto") di una prospettiva. A mano a mano che la morsa imperialista si stringeva sull'isola, gli apparati castristi hanno costantemente rinculato dalle iniziali velleità rivoluzionarie, completamente dimenticando persino le "intuizioni" del Che, seguendo le quali si sarebbe potuto chiamare alla difesa di Cuba, in nome di un comune interesse anti-imperialista, almeno le masse oppresse di tutta l'area.
Ma se pure lo scollamento tra apparati e masse fosse già divenuto -o, possa nel futuro più o meno immediato, divenire- completo, non cambierebbe in alcun modo la necessità per le masse cubane di difendersi dall'aggressione imperialista e di poterlo fare all'unica condizione di radicalizzare la propria lotta e di tendere a generalizzarla chiamando a suo sostegno le masse latinoamericane. Questa politica non avrebbe certo il potere di allentare il peso delle sanzioni USA, ma potrebbe cementare nella lotta contro di esse un movimento di classe a Cuba e fuori. Del pari non darebbe la garanzia di poter tranquillamente vincere la partita con l'imperialismo e all'immediato, ma avrebbe il fondamentale pregio, pur in caso di sconfitta, di evitare un tracollo per "decomposizione" interna, senza ingaggiare vera lotta (la sorte del sandinismo in Nicaragua), che produrebbe nelle masse la peggiore delle situazioni, consegnandole completamente disarmate, fisicamente e politicamente, al dominio imperialista.
La difesa della rivoluzione anti-imperialista cubana è perseguibile, dunque, solo a condizione che le masse cubane ne prendano la direzione, nel senso politico e nel senso militare, si determinino a sostenerla aumentandone il grado di autonomia dall'imperialismo e tendano a richiamare a loro fianco, sul loro stesso terreno di lotta, le masse dei paesi sudamericani. E' ovvio che un deciso contributo al suo successo potrebbe essere dato dal proletariato dei paesi imperialisti e, in particolare, da quello americano. Ma della scarsa sensibilità proletaria alla difesa di Cuba, come di ogni lotta anti-imperialista, non è certo alle masse cubane che si possa far carico. E' un aspetto che grava unicamente sulle spalle dei comunisti e dei militanti di classe di quei paesi.
In Nord-America i segnali pro-Cuba sono flebili, ma potrebbero, prima o poi, rafforzarsi a partire da quell'enorme quota che è ormai diventata nel proletariato statunitense la componente latinoamericana. In Europa sembrano esserci segnali (un tantino) più corposi di opposizione alle sanzioni economiche e ancor più a eventuali interventi militari. Tali segnali vanno, però, in stragrande maggioranza, nel senso di opporre a un imperialismo americano "aggressivo" un intervento europeo, magari mediato in sede ONU, diretto a revocare le sanzioni e contemporaneamente a favorire un processo non traumatico di "liberalizzazzione" e "democratizzazione". Come a dire: l'obiettivo è lo stesso, i mezzi sono diversi.
Questa non è una difesa di Cuba, ma è la difesa degli interessi dell'imperialismo europeo, che cerca di ampliare la sua presenza nell'area in diretta concorrenza con quello nordamericano, e che ha già ottenuto dei (parziali) risultati inserendosi nei locali processi di "democratizzazione" avvenuti negli anni 80, e nella stessa Cuba, dove, proprio grazie all'embargo americano, ha trovato il modo di avviare lucrosi affari, come nel turismo (settore monopolizzato dal capitale europeo e canadese) il cui sviluppo lungi dal favorire un rafforzamento dell'autonomia cubana, ne ha acuito la disgregazione sia sul piano economico che su quello sociale, accellerando la sua sottomissione alle leggi dell'imperialismo.
La difesa dell'esperienza rivoluzionaria cubana passa, dunque, inevitabilmente per una radicalizzazione anche qui, nell'occidente imperialista, del conflitto di classe, per una scissione netta tra interessi del proletariato e interessi del capitale imperialista europeo e del proprio paese.