LA BORGHESIA ITALIANA TRA CENTRALIZZAZIONE
E TENDENZE CENTRIFUGHE.
E IL PROLETARIATO?

Indice


La posizione del capitalismo imperialista italiano è al presente particolarmente difficile. Il suo problema è, seccamente, se riuscirà a rimanere nei ranghi imperialisti del pugno di potenze mondiali che partecipano allo sfruttamento e alla spartizione del mondo intero o sarà, semplicemente, ricacciato alle dimensioni di un capitalismo -o di più capitalismi micro-nazionali- dipendente, economicamente e politicamente, da uno dei leader dei blocchi (in formazione) sul campo della nuova e più acuta contesa che si prepara. Un declassamento le cui ricadute non sarebbero unicamente di prestigio, ma riguarderebbero tutte le condizioni, di profitto, sociali, politiche, con cui la borghesia si è abituata, fino a qui, a convivere.

Il particolare crinale su cui l'italo-imperialismo è, al momento, collocato lo sospinge oggettivamente, con una drammacità che non ha eguali tra i suoi competitors (come amabilmente li chiama il cavaliere), ad accelerare in sommo grado il processo di centralizzazione nello Stato di tutte le risorse economiche e finanziarie, e al conseguente processo di centralizzazione sociale e politica. Si tratta, da un lato, di disciplinare il proletariato, togliendogli tutte le conquiste sociali, sindacali e politiche che gravano oggi come ipoteche sullo slancio competitivo del capitale, ma, anche, dall'altro, di disciplinare tutte le mezze classi, costringendole a cedere la disponibilità di buona parte dei redditi (o delle rendite) tenute in dotazione a fini di consumo o di arricchimento monetario per destinarle tanto a un cospicuo investimento industriale per limitare il gap tecnologico-produttivo nonché quello militare, quanto all'acquisizione di aziende estere e delle loro quote di mercato (livello di concorrenza cui ormai si è giunti: i mercati non si acquisiscono più incrementando di una frazione all'anno la vendita dei propri prodotti, ma rilevando, appunto, intere aziende e relative quote mercantili) o, puramente, a costituire argini di difesa finanziaria contro l'invadenza dei capitali stranieri, sempre più dediti allo shopping di imprese italiane, grazie anche alla...svalutazione della lira. Una buona dose di disciplina tocca anche al grande capitale, chiamato ad abbandonare l'abitudine a pensare in ristretti orizzonti aziendalistici, e ad assumere orizzonti più collettivi nel senso nazionale.

A che punto è la centralizzazione capitalistica ?

Nelle precedenti occasioni in cui ci siamo occupati del "problema italiano" abbiamo già avuto modo di rilevare come le necessità oggettive si siano da lunga pezza manifestate, quali passi innanzi la borghesia abbia compiuto, quali difficoltà si sia trovate di fronte e come si sia al loro cospetto impantanata dimostrando di non esser ancora riuscita a trovare il "bandolo della matassa". Berlusconi -dicevamo- ha lanciato un segnale soggettivo al capitale italiano che, nella sua formulazione di massima, corrisponde alle sue esigenze oggettive, ma tra questa enunciazione e la sua realizzazione a breve ce ne corre. Se è scontato che vada in crescendo l'organamento statale antiproletario, quel che non emerge in corrispettivo è una facile e prossima soluzione del problema concentrazione-centralizzazione economica, sociale e politica. Al contrario emergono svariati segnali che rendono sempre più palpabile un processo di "jugoslavizzazione" delle forze sociali ed economiche del paese.

Il motivo che ci spinge a sottolineare questa tendenza non è, ovviamente, la pretesa di indovinare come andrà a finire all'immediato (su questo piano la sbagliamo quasi sempre, da un secolo e mezzo a questa parte), ma analizzare correttamente le forze in campo, studiarne i movimenti per dare a essi una puntuale risposta di classe.

La cosa apparirà ostica ai più, tanto nel campo "rivoluzionario" che in quello "riformista". Per questo ci torniamo su per approfondirla e, soprattutto, per richiamare l'attenzione sui reali movimenti delle forze sociali e politiche in campo e sull'urgenza per il proletariato di rispondere a essi salvaguardando la propria tenuta di classe e ricostruendo la sua indipendenza politica e organizzativa.

Ritagli, tagli e scontri

Cominciamo con il porci una domanda: quel che abbiamo di fronte è un tentativo omogeneo e coerente di rafforzamento delle strutture portanti del capitalismo italiano (su cui commisurare un altrettanto coerente ed omogenea offensiva proletaria)?

Tra le misure del fascismo tese a realizzare la centralizzazione del capitale nazionale e il disciplinamento a esso di tutta la società e quelle del "polo delle libertà" ci passa una bella differenza. Questo secondo è molto più rivolto ad "aggiustamenti" utili a rilanciare un'attività competitiva sui mercati entro i ritagli (pericolosissimi alla distanza) derivanti dal deprezzamento della lira che stimola un export -tutto sommato- da barzelletta, piuttosto che a reali aggiustamenti strutturali, che rischiederebbero ben altre decisionalità, razionalizzazioni, tagli e...scontri. E, pur su questo ultimo punto, come non vedere che, in fin dei conti, la stessa offensiva antiproletaria procede -se rapportata alle esigenze oggettive del capitalismo "nazionale" ed alle stesse "sollecitazioni" di Confindustria e Bankitalia- a passo di lumaca, combinandosi col più tradizionale dei compromessi social-consociativisti, in nulla sostanzialmente diversi da quelli di Amato e Ciampi?

Naturalmente, la souplesse (relativa) nei confronti del proletariato non è destinata in nessun caso a stabilizzarsi o addirittura rafforzarsi in futuro. Se da parte proletaria non arriva una risposta decisa, si va sempre più in discesa. Questo è certo. Ma ciò non produce di per sé la soluzione al problema della concentrazione-centralizzazione capitalista; può, anzi, indurre a soluzione pasticciate dal punto di vista capitalistico, senza, peraltro, che da ciò derivi alcunchè di buono per il proletariato.

Lotta di classe: il lievito della storia

Ci si potrebbe chiedere: come potrebbe mai darsi che un capitalismo come l'italiano d'oggi, a un livello enormemente più avanzato di quello del tempo fascista, manchi ai compiti all'ordine del giorno? I motivi fondamentali sono almeno due.

Primo: il livello comparativamente più alto del processo internazionale globale di accentramento capitalista. A prezzo del durissimo disciplinamento interno tra le classi e all'interno della stessa classe borghese, il fascismo aveva, sempre comparativamente, più possibilità di quante non ne abbia oggi Berlusconi. Lenin ha scritto alcune cosine su ciò a cominciare dall'Imperialismo. La competizione si fa sempre più stretta e acuta, oggi, anche all'interno delle potenze arrivate allo status imperialista. Il processo di concentrazione-centralizzazione resta una regola, che diventa anzi sempre più inoppugnabile; ma ciò non va banalmente letto nel senso che essa si manifesti all'interno delle singole isole nazionali -quand'anche già imperialiste-, bensì alla scala internazionale coi suoi continui effetti di redistribuzione della gerarchia del potere nel quadro di uno sviluppo sempre più combinato e diseguale. E questo comporta necessariamente anche retrocessioni di paesi imperialisti in "serie B", a conferma, e non smentita, della regola.

Secondo. L'uscita dal fascismo con l'entrata in un ciclo espansivo "pacifico" nel secondo dopoguerra ha prodotto alcuni effetti perversi: il capitalismo italiano si è tranquillamente adagiato in questo ciclo traendone tutti i frutti possibili, ma senza contemporaneamente attrezzarsi alla fase successiva, ipercompetitiva all'interno del capitalismo imperialista, accontentandosi (e credendoli eterni) dei successi "graduali" e "progressivi" propri di un ciclo di boom immaginato infinito. Non si è propriamente trattato di una borghesia servilmente al traino del più potente centro mondiale dell'imperialismo, quello statunitense, ma certamente i suoi conati d'indipendenza sono venuti per lo più a rimorchio passivo dei maggiori partner europei a cominciare dalla Germania (capofila vero della "resistenza" agli USA) senza rafforzare, però, in modo realmente incisivo le strutture d'attacco dell'apparato produttivo-finanziario.

Su quella base si è verificata una "vantaggiosamente reciproca" demuscolarizzazione tanto della borghesia che del proletariato. Senza nulla togliere agli scontri di classe post-bellici, i rapporti tra le due parti si sono, infatti, costantemente evoluti nel senso di un compromesso rammollente per entrambe. Orbene, la lotta tra le classi costituisce, come Marx insegna, il lievito della storia, e non a caso il maestro lasciava aperta la porta all'ipotesi di una "comune rovina delle classi in lotta"... se non c'è lotta vera (e non a causa di essa, come taluni intendono).

Lo stesso fascismo, e cioè la realizzazione di una effettiva centralizzazione delle forze borghesi, fu dovuto al surriscaldarsi sociale e politico, all'apparire di un effettivo "pericolo rosso". I riformisti, di ieri e di oggi, leggono la cosa in questi termini: se non ci fosse stato il massimalismo rivoluzionario non ci sarebbe stato il fascismo -Nenni l'ha ben spiegato più volte-; ammettiamolo, solo che la prosecuzione del giolittismo avrebbe portato in un vicolo cieco tanto la borghesia che il proletariato, rilanciando inevitabilmente la partita e da un punto più basso e più irto di difficoltà per entrambe le classi.

Un compromesso per le sabbie mobili

L'Italia attuale sta marcendo nei postumi imputriditi del secondo giolittismo post-resistenziale. Da un lato il movimento operaio ha raggiunto "sufficienti garanzie" di "potere" e si acconcia a gestirle parando d'anticipo mosse troppo ardite della controparte. Dall'altro la borghesia si mostra contenta delle posizioni acquisite e timorosa nel lanciare affondi ulteriori. Difficile per entrambi i soggetti in gioco uscire da questa melma.

Da nessuna delle parti, insomma, emerge un benché minimo disegno globale, e a confermarlo concorrono due indicatori sicuri. Il primo è l'assenza crescente (dopo alcuni accenni craxiani tipo Sigonella e America Latina) di una politica estera aggressiva in proprio da parte borghese; il secondo è il crescente ripudio da entrambe le parti della "deperita forma-partito" di cui oggi più che mai ci sarebbe bisogno per i due fronti contrapposti, ove si disponessero a essere tali.

In precedenti articoli abbiamo anche detto che i problemi oggettivi esistono comunque, premono e sono destinati, anzi, a farlo sempre di più. In linea tendenziale, quindi, si potrebbe concludere che, prima o poi, in un modo o in un altro, essi dovranno spianarsi la strada alla soluzione, col superamento "inevitabile" per la parte borghese (ma varrebbe anche per la nostra) delle attuali impasses. Quindi, per quanto concerne la borghesia, constatata l'insufficienza dell'attuale procedere a piccoli passi, dovrebbe decidersi a intraprendere la volata (per il proletariato: idem come sopra).

Se questo vuol dire che la borghesia dovrà sempre più decisamente affondare il coltello nelle piaghe del proletariato, siamo allo scontato. Del pari se si vuole dire che il proletariato dovrà a sua volta difendersi da simili amorevoli intenzioni. Ma una volata di questo tipo non condurebbe, di per sè, alla soluzione del vero problema, quella della centralizzazione e del disciplinamento al fine di sostenere la dura lotta per mantenere lo status imperialista.

Il caso jugoslavo può fornire delle utili indicazioni al proposito. I due paesi non sono, naturalmente, assimilabili sul piano della potenza economico-finanziaria, ma ciò non comporta necessariamente che qui sia impossibile la ripetizione di quanto lì avvenuto. Può, al contrario, comportare una ripetizione... moltiplicata per il maggior grado di potenza.

Lezioni jugoslave

In Jugoslavia c'era in concreto per la borghesia l'utilità di mantenere e sviluppare la propria forza sul terreno "comune" jugoslavo, a cominciare proprio dalla borghesia slovena e croata. Ma quel che era concreto da un punto di vista oggettivo si è rivelato astratto per i singoli spezzoni borghesi, cominciando proprio da quelli delle "nazioni" più sviluppate e maggiormente favorite dallo sviluppo combinato e diseguale interno. L'integrazione sloveno-croata (verificatasi proprio sulle basi predisponenti del "comune" sviluppo) al capitale tedesco, in primo luogo, ha indotto non a un maggior compattamento del quadro jugoslavo, ma al suo esplodere, con l'accecamento in direzione secessionista delle sezioni borghesi più sviluppate, con tutto quel che ne è seguito. E' ovvio che quando si dice accecamento non s'intende un semplice errore ottico, ma si rimanda al grado di attrazione (del capitale più grande sul più piccolo) indotto dal livello del progressivo processo internazionale di concentrazione-centralizzazione capitalistico. Contestualmente, l'attacco antiproletario si è dovunque intensificato, ma -qui il punto- ciò non ha comportato in alcun modo un passo avanti del rafforzamento in proprio dei singoli spezzoni borghesi così esplosi dalla disintegrazione della Jugoslavia.

L'Italia non è la Jugoslavia. D'accordissimo. Ma il procedere di taluni fenomeni non è molto dissimile. Intanto: dov'è un centro capitalistico unitario? Su cosa si basano le prese di posizione della Fiat o di De Benedetti? E quali ne sono i risvolti politici? E Berlusconi? E gli altri? Quali sono i capitalisti della Lega e come e per che cosa si muovono? In questo bailamme si vedono tante cose, dal rilancio di una domanda indotta artificialmente dallo Stato al tentativo di un "autarchico" rilancio del mercato interno, dall'attenzione agli interessi di strati-cuscinetto intermedi (sempre a spese del proletariato) alla richiesta di una decisa autonomia microregionale libera di "agganciarsi" ai maggiori volani europei (Germania in primo luogo) sino alla riproposizione di un confuso populismo senza basi su cui marciare speditamente, etc. etc. Molto meno (o per nulla) si vede una tendenza coagulatrice e disciplinatrice in senso imperialista.

Al contrario, le linee centrifughe si vanno approfondendo. A) un settore di grande industria che naviga a vista e si presenta anti o a-berlusconiano non a causa delle "insufficienze" del "polo delle libertà" nella direzione dettata dall'oggettività, ma esattamente al contrario; B) una piccola e media industria del Nord che tende ad autonomizzarsi e contrapporsi al "grande capitale succhione", rivendicando un proprio spazio (di cui il federalismo sarebbe garanzia, ma non certo garanzia italocentrica); C) un Sud sballottato tra il mantenimento (a tempi scaduti) di vecchie forme assistenziali e una "liberalizzazione" conseguente che ne farebbe esplodere tutti i problemi, rendendoli incontenibili in un quadro di "normale gestione" (economica, sociale e politica); D) la massa dei ceti medi non disciplinata (né disciplinabile, a queste condizioni), ma al contrario piena di "rivendicazioni in proprio" cui tutte le forze politiche promettono immancabilmente ascolto; E) un movimento operaio che si sta slabbrando lungo una direttrice regionalista, categoriale, aziendale...

La Lega: unico vero partito, ma contrario al...partito unico

Sul piano politico, ripetiamo, è sorprendente la cecità di Forza Italia nel suo ripudiare il punto centrale (partito, movimento) su cui è concepibile un reale potere forte, e si nota una certa deriva ministerialista anche di Alleanza Nazionale, molto dedita al bon ton governativo a discapito di quelle che erano le sue "qualità" reazionarie.

L'unico con la testa sulle spalle è Bossi. Primo e unico ha capito la necessità di un movimento, di un partito, sulla cui base mandare avanti forze reali e non solo macinare provvisori voti. Molto intelligentemente egli ha suscitato tutti i vespai possibili all'interno del polo per conseguire il risultato stabile (al di là delle perdite immediate) di offrire al pubblico una propria fisionomia indipendente entro il blocco di governo, cui assicura sì il proprio contributo alla stabilità, ma a tempo e condizionata. Questa visibilità si è poi tradotta anche in una presenza, estremamente significativa, al di là dei numeri, alle manifestazioni di piazza contro il decreto Biondi, col che ha conseguito il doppio effetto di riuscire a mobilitare i suoi e a... smobilitare le sinistre (vedere i contraccolpi che sono derivati nella "sinistra"; a brevissimo tempo dal 25 aprile, allorché i pochi leghisti presenti in piazza erano stati duramente contestati, siamo arrivati alla combriccola con essi; ultimi, i verdi hanno dichiarato che la Lega va annoverata tra i futuri partner privilegiati, D'Alema non è da meno, Rifondazione non sa che pesci prendere...).

Da notare due cose, apparentemente antitetiche: nei confronti del proletariato, la Lega è più -e non meno- decisa dei berlusconiani ad andare dura sulla via del "liberismo"; d'altro canto, le radici "popolari" e anche proletarie della Lega sono incomparabilmente più forti, "organiche", che non quelle dei berlusconiani. Anche qui l'esperienza del fascismo dovrebbe insegnare qualcosa.

Il prossimo passaggio potrebbe consistere da parte della Lega in un patto con la "sinistra" dopo l'avvenuto sbaraccamento degli ostacoli attuali al "liberalismo" e, quindi, alle proprie condizioni. La "sinistra" sta precisamente spianando la strada a un tale esito, che non sarà poi quello conclusivo.

Dunque: la Lega (quella bossista almeno) pare la forza più attrezzata da un punto di vista borghese che voglia arrivare al suo scopo. Solo che questo suo scopo non solo è limitato, ma apertamente incompatibile con l'ordine del giorno italo-imperialista. I numeri di cui essa dispone non sarebbero sufficienti a dar corpo al suo disegno se essa non potesse giovarsi delle risorse altrui -a destra e a sinistra- usufruibili a proprio servizio e se non dovesse aver corso la riforma "federalista" (la quale, una volta messasi in moto, da sé, in qualche modo, leghizzerebbe tutto l'ambiente politico al Nord: anche qui confrontare quanto è avvenuto in Jugoslavia).

Il sogno dell'opposizione: ritorno al passato

Quanto all'opposizione a Berlusconi, quella che viene da una certa parte della grande borghesia sembra più votata a scardinare quel tanto di "buono" (in senso borghese) che il cavaliere ha avviato piuttosto che a lavorare per una contro-soluzione più avanzata (sempre in senso borghese); più intenta a guadagnarsi degli spazi interni incontrollati, costi quel che costi, che a proporsi, rispetto a Berlusconi, come forza dotata di un più complessivo e coerente orientamento nazional-imperialista, preferendo crogiolarsi, anzi, in un puro illusionismo neo-giolittiano, diretta continuazione dei "tempi aurei" della "prima repubblica": sostanziale pace sociale e garanzia di profitti. Sulla attuabilità e sui risvolti di una tale politica evitiamo, al momento, approfondimenti, limitandoci a sottolineare il generale stato confusionale: tipico il caso di un PPI incerto tra "polo delle libertà" e accordi "sulle cose" con la "sinistra", corteggiato dall'uno e dall'altra; è un segno eloquente del marasma attuale in cui tutto si confonde e nulla si precisa (anche Bertinotti "apre" ora ai "popolari", ovvero non sa dove andare a sbattere la testa, finendo col lavorare insieme contro le esigenze del capitale e contro quelle del proletariato).

Nulla di meglio, d'altronde, emerge dalle opposizioni di "sinistra". Non solo queste rinunciano -non da ora- a interpretare le esigenze autonome del proletariato, ma denunciano difficoltà, ormai, anche nell'interpretare quelle del capitale nazionale. Le voci di coerenti riformisti social-imperialisti sono divenute flebilissime e del tutto inascoltate sin dentro il Pds. Chi come Reichlin pone il problema di tendere a salvare il capitale nazionale come condizione per salvare anche la classe operaia, e su questa strada invoca, andando in controcorrente alle mode attuali, più Stato, più unificazione delle risorse economiche per non affrontare sparpagliati e deboli la concorrenza straniera, più centralizzazione delle risorse finanziarie al fine di ricapitalizzare le imprese nazionali, sottoponendo ciò, naturalmente, a un "nuovo patto sociale" tra classe operaia e grande capitale, è destinato al più completo oblìo.

La lotta dell'opposizione per rimanere opposizione

Il resto del Pds è dedito all'inseguimento del "centro" e, soprattutto, a quello dei ceti medi nordici e della Lega cui è disposto a sacrificare molto sull'altare del federalismo. Per ora, comunque, non si sogna nemmeno di proporsi come forza di governo. La vicenda del decreto Biondi, che trattiamo in altro articolo, ha messo bene in mostra come il Pds -e tutta l'opposizione di "sinistra" e di "centro"- abbia accuratamente evitato di mobilitare nelle piazze la vasta protesta sociale raccoltasi contro il decreto. A motivo di ciò non vi era soltanto il solito terrore del riformismo che un "eccessivo" ricorso alla piazza e alla lotta da parte operaia ipotecherebbe troppo le opposizioni - o l'eventuale governo delle "sinistre"-, ma vi era anche il semplice terrore di dover davvero governare! Il rischio che Berlusconi fosse costretto alle dimissioni era, infatti, corposo. Meglio lasciare a lui l'onere di governare nell'attuale marasma sociale e politico, e meglio lasciare a lui il compito di fare l'unica cosa, in questo marasma, certa: quella di dover ulteriormente limare (finchè non si avrà la forza -nel senso di unità, coesione e decisione, in una parola organizzazione- di classe per ricorrere a strumenti ben più devastanti) le condizioni di vita, di salario, di lavoro del proletariato e il suo rimanente "potere" politico e sindacale. Toccasse il governo alle "sinistre", identico sarebbe l'arnese di lavoro e, più o meno, identico anche il versante cui applicarlo. Ben volentieri, dunque, "sinistre" e "centro" lasciano a Berlusconi tale sporco lavoro nella (non percepiscono quanto vana) speranza che quando assumeranno il governo sia sopraggiunta una nuova epoca di crescita che consenta loro di redistribuire e non tagliare il benessere.

Dal possibile rotolamento nella polvere, via-decreto Biondi, il governo Berlusconi s'è dunque trovato rilanciato dall'inatteso regalo delle "opposizioni". E, uomo fortunato quale si ritiene, di lì a poco, è stato gratificato di un nuovo regalo: le polemiche sulla bufera monetaria d'agosto. A "sinistra" non s'è persa l'occasione per tornare ad agitare il tema dell'inaffidabilità sui mercati finanziari internazionali del governo di centro-destra, lasciando al cavaliere e ai suoi epigoni l'argomento del "complotto internazionale", tanto più realistico (i tentativi di ricacciare indietro l'Italia da parte delle potenze economico-finanziarie delle concorrenza sono tutt'altro che fantomatici ed hanno solido fondamento nello scontro imperialistico che s'è detto) e, persino, a determinate condizioni -per ora carenti o assenti- suscettibile di dare vita a una demagogia anti-complottista che potrebbe avere successo tra le stesse masse.

C'era una volta la riforma e il compromesso

Se il quartier generale dei progressisti vivacchia nella più cupa delle confusioni non da meno, purtroppo, è il quadro attivo operaio di Pds e Rifondazione. Nei decenni trascorsi le lotte immediate del proletariato trovavano nel Pci prima, nel Pds poi, una sponda politica che dava a esse una prospettiva e la certezza di contare sul piano istituzionale tramite la pressione parlamentare sull'azione del governo. Il coronamento di questo rapporto avrebbe dovuto essere la conquista diretta delle leve del potere tramite la vittoria elettorale delle "sinistre". Non solo questa non è giunta, quanto a prevalere è stato uno schieramento programmaticamente contrario a sopportare i precedenti meccanismi "consociativi" di pressione da parte dei partiti legati alla classe operaia, e a prevalere, per di più, in un assetto istituzionale riformato -grazie anche al contributo delle "sinistre"-, e in via di ulteriore riforma, proprio per meglio garantire il completo affrancamento della maggioranza governativa da ogni vincolo condizionante da parte dell'opposizione.

La prospettiva del governo è franata, ma anche il prolungamento del precedente sistema di condizionamento del governo, che pure Berlusconi in qualche modo rispolvera, appare molto improbabile. Quel progetto politico, anche se in grado via via inferiore, dava unità alla classe ed era un progetto generale. Il suo indebolimento invece di indurre all'immediato una radicalizzazione in senso rivoluzionario induce, piuttosto, a una tendenza a ricercare forme di resistenza in ambiti più limitati (azienda, settore, regione), con le conseguenti "aperture" alle istanze federaliste già tanto diffuse nelle altre classi.

A quel settore operaio che, sospinto da una maggior radicalità, guarda a Rifondazione, le risposte che giungono sono tutte interne alla ricerca di forme di abbellimento del capitalismo, magari tramite una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro e l'inseguimento di "lavori socialmente utili", per sostenere i quali, non a caso, Bertinotti & co. continuano a giurare che siano del tutto possibili nel quadro capitalistico e che non causerebbero alcuna "catastrofe" all'attuale sistema, potendo invece inserirsi, come ha detto il segretario del Prc a conclusione della festa di Livorno (Liberazione 23.9), in "una proposta alternativa di risanamento dell'economia nazionale, senza la quale il nostro paese regredirebbe". Gli obiettivi possono apparire più radicali, ma in cosa la logica è diversa da quella di ricerca di compromesso tra le classi che ha dominato la "prima repubblica"? Invece di rafforzare le istanze di lotta tuttora presenti in settori di classe, si finisce, dirigendole verso obiettivi illusori e rivolti all'indietro, col condurle alla più completa impotenza.

Non c'è difesa senza una prospettiva alternativa di sistema sociale

Nella massa operaia agiscono le stesse tendenze e lo stesso disorientamento che nel quadro attivo riformista. Prima delle elezioni la classe operaia percepiva l'attacco sul piano immediato mentre "travisava" quello sul piano politico illudendosi di poter volgere a proprio favore le dinamiche messe in moto da "tangentopoli", il rinnovamento delle istituzioni, ecc. In un certo senso c'era una dissociazione tra piano sindacale e piano politico. Oggi la classe operaia avverte bruscamente che il quadro politico è ostile alle sue aspirazioni di gestione e di uscita dalla crisi. Ciò però non agisce come fattore reattivo sul piano della lotta, della chiarificazione e dell'organizzazione di classe. Al contrario provoca scoramento e depressione sulla stessa tenuta della capacità di reazione a livello di massa.

Questo non vuol dire che essa abbia abbandonato definitivamente il terreno della lotta o che si sia lasciata completamente irretire dall'ideologia del mercato rimanendovi succube e schiava. Un'eventuale chiamata alla mobilitazione da parte delle direzioni sindacali la vedrebbero, più che probabilmente, aderire in forze, come le reazioni alle minacce governative sulle pensioni hanno dimostrato. Ma il quadro generale cui questa eventuale scesa in lotta si riferirebbe sarebbe non quello di una rigida difesa delle sue condizioni, ma, piuttosto, quella di predisporsi a qualche nuovo cedimento a condizione che avvenga nell'ambito di una distribuzione "equilibrata" dei costi del "risanamento", in continuità con la logica di ricerca del compromesso allignata nei decenni post-bellici e della codecisione o codeterminazione tuttora rivendicata e ricercata dai sindacati.

Infatti, pur se l'attacco sociale del governo Berlusconi si presenta a tutt'oggi "diluito", in qualche modo la massa operaia sa che così non si può andare più avanti - come sul vitale tema delle pensioni, su cui le stesse opposizioni hanno ben poche promesse da spandere- e, in assenza di una prospettiva realmente alternativa di sistema, anche ciò che può suonar spiacevole viene inghiottito, casomai con una richiesta tutta interna alla logica del sistema di "equilibrare" i costi tra tutte le classi. Abbiamo sempre parlato del realismo della classe operaia; è chiaro che esso, mancando di reale controprospettiva, può rivelarsi sin troppo...realistico, conducendo a rinuncie sempre più profonde e lasciando, con questo, deperire e sfaldare la sua organizzazione di resistenza sindacale e politica.

Proprio per far fronte alla situazione di così profonda difficoltà attuale (e, ancor più a venire) del proletariato è necessario che i comunisti e tutte le avanguardie di classe diano il massimo di impegno affinchè la classe operaia non si sottragga mai dal terreno dello scontro, ma che, contemporaneamente, attrezzi la sua "difensiva" con un programma autonomo di classe, individui con chiarezza il suo vero nemico capitalista, inizi a coagularsi all'interno di un partito che di quel programma sia interprete e coerente sostenitore. Senza queste condizioni la stessa "difensiva" è destinata a essere nient'altro che un modo per rallentare lo scivolamento verso una sempre più precaria condizione economica, l'indebolimento della forza di contrattazione sindacale e l'annullamento totale della propria forza politica.

Mobilitazione unitaria e programma autonomo

Per i comunisti non è essenziale sapere in anticipo se le forze contrapposte al proletariato (che vanno, però, obbligatoriamente individuate con assoluta chiarezza nelle loro fisionomie di classe, nei loro programmi e nelle loro dinamiche) evolveranno verso la realizzazione delle aspirazioni nazional-imperialiste o si avventureranno, loro malgrado, in una sorta di "jugoslavizzazione". Ciò, tra l'altro, dipende dall'andamento complessivo della lotta di classe, entro la quale i comunisti sono presenti e agiscono. Ma è essenziale rispondere ai colpi anti-proletari sul terreno più pericoloso che si va -in entrambi i casi- prefigurando, quello di una disarticolazione del tessuto connettivo della classe, cui rischia, per di più, di sommarsi uno sminuzzamento, una frantumazione secondo linee di fuga aziendalistiche, categoriali, territoriali. Per quest'ultima lavorano coscientemente forze politiche come la Lega, ma vi lavorano anche, sia pur meno coscientemente, le "sinistre" quando accreditano il federalismo o il regionalismo come soluzioni positive per il proletariato, o quando lo accetterebbero obtorto collo come alleato indispensabile a spazzar via il "nemico principale", la "vera" destra Berlusconi-AN. Ma per la quale oggettivamente lavora anche una sorta di tendenza spontanea che si va affermando all'interno della classe, quella che, in qualche modo, dà per non più proponibile o destinato a sicura sconfitta il ricorso alla lotta generale e si adegua a ridurre l'ambito geografico ed economico della sua presenza organizzata.

L'unica risposta a questo pericolo è quella che va nel senso di rafforzare la coesione e la combattività del proletariato a scala quanto meno italiana unitaria. Qui si misura la forza unidirezionale della nostra classe, "indipendente" -entro certi limiti- dalla direzione verso cui va il nemico, anche nel caso che rischi, sia pur senza lucida consapevolezza, di andare verso una disgregazione persino del tessuto connettivo nazionale. A tale scopo è indispensabile non lasciar cadere alcuna occasione di scontro generale, che siano le pensioni, la sanità, o quant'altre delle molteplici misure anti-operaie promesse siano con la legge finanziaria (od oltre) concretizzate. Così come è indispensabile avviare una mobilitazione contro la "deregolamentazione" del mercato del lavoro, tanto contro quella già realizzata col consenso sindacale, quanto contro quella, ancor più profonda, cui il governo Berlusconi -qui assistito senza remore da Confindutria- continua ad aspirare. La lotta per ognuno di questi obiettivi non deve, però, più essere fatta con la predisposizione (esplicita o implicita, poco importa) a cedere comunque qualche pezzo delle precedenti conquiste nell'illusione che la propria salvezza, economica e politica, passi per quella del "bene comune" dell'economia nazionale.

Se questa attitudine da parte della classe operaia proseguisse, diverrebbe impossibile evitare che il processo di disarticolazione organizzativa, sindacale e politica, porti a compimento tutto il suo corso. Tutte le dinamiche già visibili assumerebbero una accelerazione vorticosa. Quella parte di classe, che già ora è investita dai dubbi sull'effettiva utilità a mantenere in vita una struttura organizzativa e delle azioni di lotta unitarie, continuando a constatare che quelle non le procurano altro che ulteriori cedimenti, si determinerebbe a definitivamente disfarsene. In ciò sarebbe favorita anche dagli effetti materiali oggettivi che le misure risultanti da quei cedimenti provocano e provocherebbero. L'altra parte di classe, ostinata, malgrado tutte le esperienze negative, a tenere un livello di mobilitazione e di organizzazione sarebbe ancor più sospinta a perseguire prospettive, nei vari sensi, particolaristiche. Ogni disarticolazione della nostra classe apre al peggio, ed è quello che sta precisamente accadendo.

Nessun altro elemento di unificazione operaia va, dunque, lasciato smantellare; non il sistema delle pensioni "a ripartizione", non l'assistenza sanitaria garantita dallo Stato e senza ulteriori aggravi dei costi per i lavoratori, non le condizioni di accesso e di uscita dal mercato del lavoro, nè la centralità per i salari dei contratti collettivi nazionali. In caso contrario, non ci saranno più barriere al diffondersi del "federalismo" e alla scomparsa della classe operaia come soggetto unitario (è ovvio che si tratterebbe di una scomparsa del tutto momentanea, giacchè il corso naturale delle contraddizioni capitalistiche riproporrebbe, prima o poi, all'ordine del giorno per gli operai la necessità di ricostituirsi in classe, e, sicuramente, su basi ben più autonome di quelle attuali, ma ciò non toglie che sia -per i comunisti e per lo stesso proletariato- essenziale fare tutto il possibile per non abbandonare mai il livello di organizzazione e di coesione raggiunto. Qualunque "ripartita" dallo zero e suoi dintorni sarebbe più difficile e penosa).

Una difesa reale dagli attacchi del governo Berlusconi -e da quelli meno palesi, ma non meno pericolosi, provenienti dal magma "federalista"- può esserci solo a condizione che sia depurata da ogni inclinazione al cedimento. La depurazione si ottiene unicamente con l'abbandono della linea di "collaborazione" delle classi a salvaguardia dei "comuni" destini economici nazionali e del "comune" Stato. Questo passaggio può avvenire solo in presenza di un bilancio dell'esperienza di "collaborazione" fin qui fatta e dalla ripresa di una cosciente tendenza di lotta contro il capitalismo, di cui i comunisti devono rappresentare la punta più avanzata. Per dispiegare, dunque, una vera difensiva persino sul piano delle lotte immediate, è indispensabile che cominci a farsi spazio nelle fila della classe una reale controprospettiva, una reale alternativa di sistema.