CONTRO IL VERTICE DEI 7


La vigilia del vertice di Venezia coincide con una accelerazione del processo globale della crisi capitalistica. L'economia mondiale, dopo aver cercato per qualche tempo un punto di assestamento provvisorio in attesa di fantastiche "nuove locomotive", fallita anche questa staffetta, si avvicina sempre più ad una nuova recessione. L'inizio della guerra commerciale aperta tra USA e Giappone - vengano mantenute o meno le sanzioni rivela quanto a fondo e con metodo la crisi abbia scavato sotto i piedi del massimo baluardo del sistema imperialista e quali scosse devastanti per il vecchio "ordine internazionale" stia producendo.

"Per i Giapponesi la festa è finita", proclama Baldrige, ministro del commercio estero degli USA, mentre la Camera approva un "Trade Bill" di netta impronta protezionista. "L'interdipendenza mondiale è una realtà. Chi spara, rischia di colpire se stesso", gli replica da Tokyo un boss della finanza. L'America non vuole cadere da sola. Ma, trascinandosi dietro il concorrente più agguerrito (che è stato anche uno degli alleati più fedeli), non fa che moltiplicare su tutti i piani, per sé e per tutti, la portata dei rischi e dei futuri tracolli.

Il declino degli USA, e soprattutto della loro capacità di essere la guida dell’Occidente, è visibile ad occhio nudo. La "direzione collegiale" è un bluff. Per problemi-chiave come il commercio mondiale, i rapporti tra le monete, il debito dei paesi dominati, il deficit commerciale americano, la sovrapproduzione agricola, né sono valse le soluzioni spontanee del mercato né quelle manovrate dei consessi internazionali. Mai come ora sarebbe possibile e necessario un piano mondiale dei consumi e della produzione subordinato ai bisogni delle masse proletarie. Il capitalismo, invece, ancora una volta, si mostra organicamente incapace di concertare e cooperare oltre i confini della singola azienda. La vecchia metafora di Marx sull'"apprendista stregone" che ha evocato forze che non può controllare, calza a perfezione su questo caos di dimensioni planetarie.

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Nondimeno i capitalisti, mentre si predispongono all'arrivo del peggio, rafforzano l'insieme dei propri strumenti di sfruttamento, di propaganda e di dominio per impedire che l'ulteriore corso della crisi determini la loro rovina politica e sociale.

Se insieme con il ciclo di sviluppo post-bellico stanno via via assottigliandosi le basi per le "terze vie", le ipotesi riformistiche, le soluzioni pacifiche dei conflitti, negli arsenali borghesi si rilucidano le armi controriformistiche e contro-rivoluzionarie.

La borghesia annuncia - e questa volta nientemeno che dagli USA - una nuova, lunga fase di sacrifici per la classe operaia, finalizzati ad incrementare produttività e competitività nazionali. Con questo annuncio si intrecciano veri e propri "messaggi di guerra" al "nemico", si tratti del tradizionale "orso russo" da tenere a bada (con o senza "accordi di disarmo"), dell'infido Giappone da punire per la sua "slealtà", del Nicaragua che attenta alla sicurezza nel "patio di casa" ovvero degli "illegali immigrati messicani".

È la vecchia, sperimentata ricetta: colpire a fondo le condizioni di vita e le capacità di organizzazione autonoma del proletariato, dividerlo, e sottometterne sezioni decisive agli imperativi delle "esigenze nazionali" per farne un elemento della lotta borghese tra stati concorrenti tra loro anziché un elemento di lotta antagonista contro il capitale.

È una legge universale che, non a caso, coinvolge a pieno i paesi dell'Est. In URSS la "grande riforma" di Gorbaciov parla la stessa lingua: innalzare la produttività, subordinare più strettamente il salario al profitto, rendere più flessibile, stratificata, divisa e disciplinata la classe operaia; ridurre gli "assistenzialismi" sociali e potenziare invece le leggi di mercato nell'uso della forza-lavoro.

In Italia, intanto, è solo l’incombenza elettorale a suggerire a Fanfani che tutto ciò che è in arrivo è un raffreddore. Curioso per davvero che, per curarlo, l'Europa tutta, sulle orme di una Thatcher di nuovo in sella e di Chirac, si predisponga con l'intensificazione del proprio riarmo (e la DC, con la sua viscida "modestia", facendo entrare in Parlamento i massimi esponenti dell'Esercito)...

La nuova escalation -della crisi porta con sé l'ulteriore spaccatura in due della società da un lato, il definitivo tramonto dell'ordine di Yalta dall'altro.

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In questo quadro il proletariato non è né assente né passivo. Sia pure senza essere arrivato ancora ad organizzare i propri vertici internazionali ed anzi essendone - al momento - lontano, sta dando prova di una crescente capacità di resistenza agli attacchi ed alle pretese borghesi - e, in altro modo, anche riformiste - di subordinarlo alle "compatibilità nazionali". Dall'Inghilterra alla Francia, dalla Polonia alla Yugoslavia, dalla Spagna alla Grecia, l'intera Europa vede la classe operaia riproporre la propria necessità, contrapposta risposta a quella borghese, di far pagare la crisi al capitalismo, mentre maturano le condizioni anche oggettive per il riemergere dell'unico programma capace di curare alla radice il problema: il programma comunista di abbattere questa forma sociale basata sul profitto e sullo sfruttamento del lavoro e sostituirla con quella socialista, basata sulla cooperazione dell'intera forza sociale per il soddisfacimento dei propri bisogni umani.

L'altra grande forza del fronte proletario internazionale, quella delle masse lavoratrici dei paesi dominati dall'imperialismo, si è già messa in marcia, non da ora, a partire dalla rivoluzione nicaraguegna e dall'insurrezione iraniana. La controffensiva imperialista non è riuscita a schiacciarla, nonostante l'accerchiamento, la repressione, la guerra. Anzi, l'incendio si è esteso nella "periferia" e nuove ondate rivoluzionarie si annunciano in Sud-Africa, in America Latina, nel Sud-Est asiatico. L'intero mondo degli oppressi sta entrando in ebollizione, e non basteranno legioni di North, di Sharon o di Angioni per spegnere questo fuoco, come non sono bastati le Aquino, i Tutu, gli Alfonsin a bloccarne al minimo livello le aspirazioni e le "pretese" di rivincita.

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La valanga di nuovi sacrifici in arrivo, ne siamo certi, attizzerà di più ancora una polarizzazione di classe che comincia a manifestarsi perfino negli USA e in Giappone. Ai comunisti spetta "solo" il compito di preparare con il loro lavoro un riferimento programmatico, politico ed organizzativo in grado di favorire la spinta alla organizzazione del proletariato, in modo che questo prenda finalmente nelle proprie mani tutte le questioni, tutte le lotte che lo riguardano, senza più deleghe in bianco e miracolistiche attese elettorali, riconquistando la piena fiducia nella propria immensa forza e facendo i passi indispensabili per dispiegarla sul campo di scontro.

Se il campo di scontro e la posta in gioco sono unitari, mettiamo al bando ogni chiusura nazionalistica, ogni angustia aziendale o settoriale, e battiamoci per allargare in ogni circostanza il raggio della lotta e per unire le forze. L'internazionalismo dev'essere il principio-guida di tutta la nostra strategia anti-capitalista. L'appello alla "solidarietà" che sentiamo lanciato da varie parti deve avere a suo perno la solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli oppressi, se non vuole chiudersi dentro l'orizzonte, borghese ed illusorio ad un tempo, della pura e semplice autodeterminazione dei popoli fine a se stessa. Il nostro incondizionato appoggio alle masse arabe, centro-americane, sud-africane, e così via, ci porta a dire che la completa vittoria, la completa e definitiva liberazione dall'oppressione e dallo sfruttamento imperialista sarà possibile solo liberandoci dal sistema capitalistico nel suo complesso. Che dunque le rivoluzioni antimperialiste non si fermino a metà strada, ma vadano sino in fondo, sino al socialismo!

Diciamo NO ai nuovi sacrifici, un NO ancora più perentorio, se possibile, al nuovo balzo di riarmo che si prepara, NO a qualsiasi forma di mobilitazione sciovinista, NO alla pace sociale necessaria a questi fini. Se sacrifici dobbiamo fare, che siano per noi stessi, per la nostra classe, per le nostre lotte, per la nostra organizzazione, per la nostra causa! Se riarmo deve essere, che sia riarmo proletario, riconquista del nostro programma, della nostra unità militante, della coscienza che la nostra forza val più, se ben disciplinata, delle atomiche borghesi! Se mobilitazione "contro lo straniero" deve essere, che sia contro quella classe straniera e sovrapposta alla nostra, che ci succhia il frutto del lavoro e ci opprime. E, quanto alla pace, rimandiamo l'appuntamento a quando essa non sarà sinonimo di oppressione imperialista, milioni di morti per fame, produzione antisociale, decine di "guerre locali" e così via. Fino ad allora, dedichiamoci con ogni energia all'unica guerra che val la pena dì essere combattuta, la "guerra" per il comunismo!

E questo il senso della nostra partecipazione alle manifestazioni contro il vertice imperialista ed antiproletario di Venezia.