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Un improvviso "raffreddore" di Gorbacev, con il conseguente rinvio della visita ufficiale in Cecoslovacchia, ha dato la stura alle più disparate interpretazioni dei "cremlinologi" di turno. Che bolliva in pentola? Forse che i paesi "satelliti", un tempo assolutamente incapaci di indipendenza di fronte ad un'URSS immobilista, la cui insegna era quella della sovranità limitata", si sarebbero improvvisamente messi in moto autonomista? E per giunta per riaffermare, paradossalmente, vecchi modelli di relazioni interne ed inter-statali fin qui considerate come "troppo strette"? E perché? E come mai? I pagati un tanto a rigo si sono sbizzarriti nelle più audaci interpretazioni in merito. Sarà bene che noi, "politologi" non pagati neppure un tanto a saggio e men che mai per analisi e previsioni esatte, diciamo la nostra.
Una prima mistificazione corrente consiste nel fatto di presentare il riformismo economico gorbacioviano come un'innovazione "esportata" nel Comecon da parte della Russia d'oggi. In realtà, la linea "riformista" non muove da Mosca, ma arriva a Mosca dalla periferia, con movimento accerchiante che si diparte dall'Occidente. Da uno stretto punto di vista economico, la periferia dell'"impero russo" è già abbondantemente... perestrojkata ante-Gorbacev.
Senza metter nel conto l'anomalia della Jugoslavia (paese emancipatosi sin dal '48 dalla tutela stalinista, e decisamente riconvertitosi, con partenza "da sinistra", sul modello di mercato occidentale), va ricordato come il duplice movimento di apertura - alle "libere" leggi di mercato ed all'Occidente, congiuntamente, e non a caso -, si sia manifestato prima che in URSS alla sua periferia occidentale (Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia... ). È problematico, pertanto, presentare la "perestrojka" gorbacioviana come una "novità" in campo economico di difficile esportazione alle sue frontiere occidentali. È vero il contrario; tant’è che la crisi dell’80 in Polonia è stata preceduta e preparata da abbondanti iniezioni di "libero mercato" (mai venuto meno dall'epoca d'instaurazione della "repubblica popolare": si pensi alla singolare soluzione della questione agraria che vi ha avuto corso) e dal "generoso" ingresso di capitali occidentali chiamati a favorire lo sviluppo di "nuove NEP". Né si dimentichi come in un paese come l'Ungheria, "normalizzato" politicamente sin dal lontano '56, siano stati proprio i "dogmatici" di allora ad aprire successivamente tanto da meritarsi da parte degli attuali esperti "siberiani" dello staff Gorbacev il titolo di campioni di laboratorio da cui "imparare, imparare ed ancora imparare".
Che cazzaccio di novità sarebbe mai potuto Gorbacev andare a presentare a costoro come "merce d'esportazione"? Come s'è detto, il movimento "rinnovatore" in campo economico non procede da Mosca ad Occidente via Comecon, ma in senso inverso. Occorre capirne un poco il perché.
Va smentita innanzitutto la tesi di una pura e semplice "colonizzazione" di stile vetero-imperiale che l'URSS avrebbe attuato a spese dei paesi dell'Est al solo scopo di "depredarli" delle loro ricchezze. Questa è la tesi reazionaria di certo nazionalismo polacco, ad esempio, che parla di "distorsione" delle risorse nazionali a profitto dell'URSS (senza di che chissà quali radiosi avvenire si aprirebbero alla Sacra Madre Polacca; e resterebbe da capire come mai proprio il contrario, l'apertura ai "democratici" capitali d'Occidente abbia coinciso nel paese, con una crisi senza precedenti).
In realtà, l'espansionismo sovietico verso occidente nel corso della seconda guerra mondiale ed immediatamente dopo è dipeso dalla necessità di tutelarsi le spalle dinanzi alle capacità aggressive di un capitale strutturalmente più forte e potenzialmente in grado di vincere sul piano economico la battaglia persa sul piano militare da Hitler. E ciò è stato possibile grazie ad una generosa contrattazione con gli USA, interessati ad una spartizione delle spoglie europee a tutto loro vantaggio sulla base di un'ulteriore frantumazione dell'Europa e grazie - ricordiamocelo bene -, alla sconfitta della prospettiva proletaria rivoluzionaria, che da Mosca a Washington, da Berlino e da Londra, da Roma a Parigi, tutta la Santa Alleanza borghese ha concorso a distruggere.
Impossibilitata a concorrere con l'Europa occidentale, l’URSS si è trovata nel secondo dopoguerra, nella necessità di "chiudere" ermeticamente le proprie frontiere (allargatesi ad Occidente), per rilanciare la ricostruzione sulla base di un "mercato autarchico". Questo con due conseguenze: l'induzione nei paesi più industrialmente avanzati dell'area di gravi squilibri e strozzature (interrompendo e reinvertendo il tipo di sviluppo precedente) e la creazione di una struttura di controllo burocratico-militare strettamente dipendente da Mosca per assicurare il "normale" funzionamento di questo meccanismo "innaturale".
Con gli inizi degli anni '60 il quadro di ermetica chiusura ad Occidente è cominciato a saltare alla periferia (e non ingannino gli indici, relativamente ridotti, dell'interscambio Est-Ovest, ma si guardi alla sua struttura, che è l'elemento decisivo alla distanza). Ciò si deve non semplicemente a fattori di crisi periferici, ma a difficoltà inerenti al cuore stesso del sistema che si dirama da Mosca. L'"autonomia" dei paesi satelliti non si spiega se non in relazione alle difficoltà incontrate a questo livello centrale, per cui all'URSS stessa veniva a costare troppo il mantenimento del vecchio "modello" autarchico del Comecon, tanto rispetto alle relazioni coi paesi "dipendenti" quanto in relazione alle proprie esigenze di sviluppo.
L'apertura ai capitali occidentali da parte di paesi come l'Ungheria e la Polonia ha pertanto rappresentato l'avvio di un deciso abbandono dei moduli della "guerra fredda", non solo e non tanto rispetto a questi paesi, ma rispetto all'URSS stessa.
Sin dai tempi della rivolta polacca dell'80, d'altronde, abbiamo indicato come un'invasione sovietica fosse del tutto improbabile: il "dittatore" Jaruzelsky rappresentava di per sé un eccellente ed "autosufficiente" campione degli interessi borghesi nazionali polacchi intrecciati con l'Ovest e con Mosca, in buona combutta tanto coi "padrini" sovietici quanto coi Woytila e le banche tedesche (solitamente uniti nello scongiurare la minaccia per tutti e per ciascuno dell'emergere dell'unico antagonista pericoloso possibile, il proletariato polacco ed internazionale).
Flusso di capitali da Ovest ad Est; flusso della controrivoluzione a vicendevole scambio. Questa la sostanza degli avvenimenti di allora.
Un problema che oggi si affaccia è il seguente: come mai certe direzioni dell'Est naturaliter interessate ad una maggior autonomia dall'URSS, non sono montate di slancio sul cavallo riformista di Gorbacev, ma addirittura vi hanno manifestato qualche diffidenza e contrarietà? Per quanto il problema sia stato esageratamente amplificato dalla stampa borghese d'Occidente, nondimeno esso presenta degli elementi reali che c'interessa dipanare.
A spiegare l'arcano, occorre tener presente, come sopra abbiamo sottolineato, che in molti di questi paesi la direzione dello Stato e dell'economia si è realizzata in condizioni di "perversione" dei "normali" meccanismi economici. Ciò ha portato, come logica conseguenza, all'instaurazione di regimi politico-statuali sfasati rispetto alle rispettive basi economico-sociali oggettive. Di qui il carattere "burocratico" e militar-poliziesco dei regimi dell'Est, necessario scotto pagato per "forzare" il quadro oggettivo di riferimento in funzione degli interessi del "blocco sovietico".
Le ricorrenti rivolte ad Est, proprio in ragione di ciò, hanno visto il provvisorio incrociarsi di spinte operaie autentiche e di spinte autonomistiche nazionalistiche.
Soffocato nel sangue l'episodio del '53 berlinese, ultima voce di una situazione pre-seconda guerra mondiale, a forte caratterizzazione operaia "pura" (anche qui senza idealizzare il movimento oltre il dovuto), ci imbattiamo nell'insurrezione ungherese, nella primavera cecoslovacca, nei ripetuti tentativi polacchi. Contro tutti questi movimenti si è abbattuta la repressione di Mosca, nella coscienza che non si trattava di semplici "riformismi" economici (gli stessi cui essa sta oggi guardando), ma di un pericolo di scardinamento dell'intiero assetto politico-sociale del "blocco". Ciò non toglie che l'aspetto "riformista" in campo economico, spogliato delle sue implicazioni politico-sociali distruttive, sia venuto e sia tanto più destinato ad affermarsi per il futuro. Né gli Husak né i Kadar sono ritornati indietro agli schemi "economici" del ciclo precedente della "guerra fredda" una volta eliminati i "riformatori": paradossalmente, essi stessi si fanno i migliori interpreti della "primavera" (capitalista) che spira da Occidente, dopo che è stata schiacciata la minaccia proletaria.
Si legga quanto lucidamente scrive un esponente autorevole della "primavera di Praga", Z. Mylnar ("L’ombra di quel ‘68", in Rinascita, n. 17, 2/5/87):
"Il vertice del PCC si è pronunciato all'unanimità a favore della politica riformatrice del PCUS. Si può anzi dire che, in maniera indiretta, ha fatto propria quella politica. Naturalmente si può dubitare della sincerità di intenzioni di gente che da quasi venti anni soffoca duramente ogni tentativo di riforma. Ma non è questo che è decisivo nell'attuale situazione. Decisivo è che ora anche in Cecoslovacchia, dopo venti anni, l'idea della necessità del cambiamento è tornata linea politica ufficiale".
Cosa significa? Significa che la primavera annunciata nel '68 a Praga - spoglia di ogni implicazione operaia - è la primavera destinata a sbocciare inevitabilmente in tutto l'Est, da Praga a Mosca.
"Per conto mio ritengo che un fattore decisivo, nella situazione attuale, è costituito dai timori della direzione sovietica, quanto meno della sua maggioranza, che si possa arrivare alla destabilizzazione del blocco sovietico".
Esattamente. Solo che oggi la "destabilizzazione" sta arrivando al cuore del sistema, costretto, ad un tempo, ad accoglierne la sfida ai fini della propria, necessaria "modernizzazione" ed a prepararsi a pararne i colpi. Come? Non certamente chiudendo la linea di "libero" flusso di capitali di cui Mosca ha disperato bisogno, né potendo immaginarsi un "doppio sistema" di apertura ad essi in direzione Moscovia e di contemporanea chiusura del Comecon entro schemi "autarchici" propri di un ciclo storicamente chiuso.
Tutto questo certamente induce alcuni problemi non agevoli da risolvere. Le vecchie burocrazie dei paesi "satelliti", condizionate da Mosca ed anche profittanti di questo rapporto di dipendenza a premio, possono legittimamente sentirsi minacciate da un'ondata riformista che inevitabilmente la mette in crisi (anche se il "kadarismo" ha ben mostrato di sapersi adeguare alla bisogna e la fa da modello in questo senso), così come le forze conservatrici interne all'URSS (una burocrazia "stalinista" intenta a parassitare l'eredità dello stalinismo "eroico" nel momento in cui ne vengono meno i presupposti) possono far da fronda anti-Gorbacev.
In ogni caso, resta il fatto che la "cortina di l'erro" è saltata. Ciò rende potenzialmente più unificate anche le realtà operaie dei diversi paesi, e non è forse lontano il momento in cui la rivolta proletaria non sarà appannaggio di singoli paesi dell’"impero" (per sovrappiù, sotto l'influsso delle sirene nazional-borghesi dei singoli paesi), ma dell'intero sistema "sovietico".
Una buona "perestrojka" per noi marxisti!