La guerra del Golfo è, salva la ventilata coda "anti-atomica", passata, ma le questioni che essa ha sollevato rimangono in tutta la loro incandescenza, nel Golfo ed ovunque (a cominciare dalla vicina Jugoslavia) si faccia sentire la morsa strangolatoria dell'imperialismo. Anche e soprattutto per questa ragione può essere utile dare una sommaria replica alle contestazioni che da alcuni raggruppamenti della "Sinistra Comunista" sono venute alle nostre posizioni sulla guerra del Golfo. Prendiamo spunto da esse per tornare sui punti centrali della nostra linea, almeno per quel che serve a chiarire il senso letterale dei testi (non di rado stravolto) ed a riconfermarne il contenuto. Risalterà, per converso, quanto un "internazionalismo" che si pretende "puro" si palesi, se appena se ne confrontano le analisi e le indicazioni con i processi reali in corso interpretati alla luce del marxismo, per null’altro che una forma di preventiva abdicazione dal lavoro di unificazione strategica del nostro fronte di classe a scala internazionale.
Inviamo questa circolare interna anche ai nostri "contraddittori" (con l’ovvia eccezione della CCI), a documentazione del fatto che non trascuriamo di "dialogare" con le altrui posizioni, secondo le finalità ed i modi opportuni. Abbiamo escluso e continuiamo ed escludere di farlo "in pubblico", perché siamo convinti che a quel tanto (o pochissimo che sia) di "movimento reale" che la nostra stampa riesce a toccare , non possa venire, dalla qualità delle "critiche" di cui siamo stati -per lo meno fino ad ora- destinatari, alcun apporto chiarificatore.
***
Non v'è dubbio che tanto per la CCI e "Battaglia com." quanto per "Programma com.", "Il Partito com." ed altri ancora, il nocciolo delle divergenze con l'OCI sia il medesimo: il superamento -ovvero la perfetta attualità- della teoria marxista dell'imperialismo. La nostra unitaria contro-replica ruoterà, quindi, necessariamente intorno a questo problema. Tuttavia, per non fare torto né alle (davvero secondarie) differenziazioni del presente, né alle (pressoché scomparse) linee di demarcazione che in passato separarono queste formazioni anche e specificamente per quel che riguarda la valutazione dei "fattori di razza e nazione", e neppure -infine- alle differenze di tono e (forse) di intenzione delle diverse risposte, provvederemo a tenere distinti nostri "interlocutori" dando a ciascuno il suo.
Partiamo dal livello infimo: la CCI. Costoro hanno abbondantemente tralignato dagli argini della polemica politica anche la più accesa, per indossare i panni (disonorevoli per dei "comunisti") di "suggeritori" agli organi dello Stato di temi di indagine nei nostri confronti. Sfortunatamente per loro, le pezze di appoggio esibite per "provare" che saremmo "sergenti reclutatori" del "terrorismo" di stato iracheno (!?!) sono a tal punto risibili che perfino il più malintenzionato dei magistrati non saprebbe che farsene, a parte congratularsi con loro per lo zelo demo-pacifista messo in mostra. "R.I." falsifica completamente la nostra posizione. L'OCI non propugna né sostiene altro "terrorismo" all'infuori del terrore rosso di classe. Ne abbiamo scritto ripetutamente (nei nn. 2, 4, 7, 11 del "Che fare"), assumendo non per caso a testo classico di riferimento "Terrorismo e comunismo" di Trotzkij (n. 18). Epperò il nostro "rifiuto" della ideologia e della prassi del terrorismo piccolo-borghese non ha assolutamente nulla a che vedere con la rinuncia, comunque connotata, a forza, violenza e dittatura di classe, che in quanto tale equivale all'abbandono della prospettiva riv. del comunismo.
Ciò che ci ha reso e ci rende alieno, in generale, il "terrorismo" è, da prima ancora del 1848, ben altro che il suo ricorso alla violenza contro gli apparati borghesi: è la sua mania cospirativa; le sua pretesa di "fare una rivoluzione su due piedi senza le condizioni di una rivoluzione" (Marx); la sua pochezza in fatto di programma riv. ed il suo disprezzo per l'attività teorica volta a "chiarire ai 1avoratori i loro interessi di classe"; è il suo ambire a liberare gli sfruttati senza sapere minimamente come favorirne l'organizzazione; è il suo (disarmante...) feticismo per i mezzi e le tecniche d'azione presuntamente "più efficaci" cui s'accoppia una stolta trascuratezza verso la forza d'azione realmente decisiva, la lotta della massa del proletariato; e così via. Detto in una: il "terrorismo" ci è nella sua globalità (in quanto data concezione del processo riv.) alieno per la sua natura extra-proletaria.
Per questa medesima ragione di principio 1'OCI non fa né "sente" proprio il "terrorismo" mediorientale. Questo, infatti, si tratti di "terrorismo" di classi, nazioni o stati oppressi (fenomeni che non vanno, comunque, confusi tra loro), si inscrive di necessità entro la prospettiva dell’ "anti-imperialismo" borghese che, pur sollevando questioni che ci riguardano a pieno, non è la nostra e con la prospettiva del socialismo internazionale confligge. Non parteggiammo, a suo tempo, neppure per le iniziative dei "commandos" palestinesi sull'Achille Lauro" o all’aeroporto di Fiumicino, pur assai più prossime delle ventilate rappresaglie di stato irachene ad un "terrorismo" semi-spontaneo di matrice plebea. Non, però, perché fossero azioni "violente" o -peggio- criminali, ché la loro violenza, opera di oppressi, era appena "una parte infinitesimale rispetto a quella che il popolo palestinese è costretto a subire da decenni col beneplacito e l'intervento diretto delle risentite 'vittime' dell'Occidente". Non le rivendicammo come nostre, perché la strategia di cui esse sono strumento è subalterna agli interessi ed alle manovre delle borghesie arabe ed è perciò incapace di far avanzare quella unità internazionalista tra masse palestinesi (ed arabe in genere) e proletariato della metropoli dalla cui realizzazione dipende la sconfitta dell’imperialismo.
Quella del "terrorismo" mediorientale è via e strumentazione inefficace e, in ultima istanza, controproducente rispetto al fine della liberazione riv. dalla dominazione imperialista. Ma se davvero vogliamo evitare che gli sfruttati mediorientali (e del "Sud" del mondo) brucino la propria brama di riscatto sociale lungo l’illusorio tracciato del nazionalismo borghese e nell’effimero del gesto "terrorista", c’è bisogno che si levi alta qui la solidarietà di classe con la "loro" lotta. A questa condizione soltanto potrà essere infranta la sua separatezza che la soffoca nelle spire di un "antimperialismo" sempre più inconsistente e ci imprigiona entro una "pace" metropolitana appestata di reazione e di sciovinismo. Nessuna "invenzione" targata OCI: questa è la direttiva comunista di sempre, a partire per lo meno dall’incondizionato sostegno che la 1° Internazionale accordò alla causa dell'Irlanda è della Polonia oppresse (anticipato dagli scritti anti-colonialisti di Marx ed Engels degli anni '50).
Il passo incriminato dai togati della CCI non faceva altro che ribadire che l’appoggio alla insorgenza delle masse sfruttate arabo-islamiche non avrebbe dovuto essere messo in discussione per nessuna ragione, e "meno che mai" con il pretesto del ricorso al "terrorismo" da parte di esse. Se i "nostri fratelli di classe arabo-islamici" saranno indotti e ciò, sarà, dicevamo, "esclusivamente per l’isolamento cui noi li avremo condannati. Noi non conosciamo altro mezzo utile a scongiurare il ricorso al "terrorismo" che le costituzione di un reale fronte unitario di lotta che disarticoli gli steccati divisori "nazionali" o "razziali" e renda evidenti, in luogo di essi, quelli di classe".
Riscriveremmo parola per parola. Ci ponevamo di fronte alla eventualità che l’infame "massacro nel deserto" generasse atti di ritorsione "terroristici" in Occidente e, ben conoscendo la perizia della macchina propagandistica nemica nel trar profitto da simili episodi, mettevano in guardia i nostri "ascoltatori" dal sospendere per un solo istante la solidarietà di classe agli sfruttati mediorientali. L’allertamento degli ipertrofici corpi separati d'Occidente e la persuasività dei ricatti del vero superterrorisno internazionale hanno sventato il rischio. Non ci sbagliavano, però, a prendere per tempo qualche precauzione, se è bastato il semplice profilarsi all'orizzonte di qualche attentato perché si scatenasse l’isteria anti-violentista di un certo "estremismo". Questo "estremismo", che "dimentica" da dove viene realmente l’oppressione, rifiutandosi di sostenere la sollevazione delle masse mediorientali contro l’aggressione imperialista, se ne è reso complice. E’ esso, e non certo l’internazionalismo marxista, che concorre a mantenere gli sfruttati arabo-islamici sotto la cappa delle loro direzioni nazionaliste e perfino ad avallare, nei fatti, "a contrario", lo stesso corto circuito "terrorista", dal momento che ostacola il processo di avvicinamento e di ricongiunzione del proletario metropolitano con i lavoratori supersfruttati delle aree oppresse.
Non giova punto alla CCI: il tentativo (ahi, l’incoscienza...) di dare autorevolezza alla propria ripulsa dell’uso della violenza da parte degli oppressi appellandosi niente meno che al "Red Terror Doctor" in persona. Ecco il raccontino: "Quando i patrioti irlandesi nell’800 uccisero per sbaglio alcuni passanti in un attentato destinato a far fuggire alcuni prigionieri, Marx -che pure li sosteneva pienamente- si inferocì letteralmente: 'Ci vuole una bella faccia tosta a chiedere solidarietà ai lavoratori inglesi, quando li si fa saltare per aria!'. Ed in quel caso si trattava di un errore, figurarsi che avrebbe detto Marx a chi gli avesse chiesto solidarietà con dei terroristi intenzionati a colpire coscientemente dei proletari".
Ora, lasciamo perdere la fola di un "terrorismo" medio-orientale "intenzionato a colpire coscientemente dei proletari" (salvo rispedirci a casa incolume finanche un Cocciolone...ah, chiaro, perché non proletario...) che sembra estratta più dagli stereotipi della contro-guerriglia anti-araba che dalla pur scombinata storia del "terrorismo" medio-orientale in Europa, e veniamo ai fatti. L'episodio richiamato è effettivamente accaduto, sennonché la citazione di Marx è adulterata al punto che la sua posizione ne appare capovolta.
I1 13 dicembre 1867 i feniani, un movimento che costituiva l’ala rivoluzionaria (piccolo borghese) del nazionalismo irlandese, per consentire la fuga dal carcere londinese di Clerkenwell di due loro esponenti, diedero fuoco ad un barile di circa 250 chili di esplosivo, Risultato: insieme al muro del penitenziario, saltarono in aria diverse case del vicino quartiere operaio. Morirono una dozzina di persone, ed oltre cento rimasero ferite. Il giorno dopo, in una lettera ad Engels, Marx commentava l’accaduto con le seguenti parole: "Quest’ultimo Fenian exploit è una grossa stupidaggine. Le masse londinesi, che hanno dimostrato molta simpatia per l’Irlanda, con ciò diventeranno furenti e verranno gettate nelle braccia del partito governavo. Non si può pretendere che i proletari londinesi si facciano tagliare a pezzi per l’onore degli emissaries feniani. Incombe non so quale fatalità sopra questa specie di congiura segreta e melodrammatica" (Carteggio, vol. V, pp. 117-8; l’identico apprezzamento di Engels è nelle lettera e Marx del 19 dicembre).
Marx, come si vede, non mette affatto in discussione la propria solidarietà alla causa irlandese. Questa è e resta totale in quanto, per nulla condizionata dalle castronerie feniane, essa deriva dalla certezza che la lotta per l’indipendenza dell’Irlanda costituiva "la leva per rovesciare il predominio inglese", ciò che, essendo 1'Inghilterra non un paese capitalistico qualunque ma "la metropoli del capitale" per eccellenza, la rendeva una minaccia per la stabilità di tutte le nazioni più progredite. Neppure è messa in questione la solidarietà della tendenza comunista ai feniani (alcuni dei quali, ricordiamolo en passant, trovarono più volte rifugio alla persecuzione poliziesca proprio nella casa del "Generale" a Manchester). La stizza di Marx (che non è "inferocito" al modo in cui crede la CCI) nasce, al contrario dal timore che quell’avvenimento incrini il crescente sostegno del proletariato londinese alla causa irlandese, gettando le "masse londinesi", -di cui Marx materialisticamente comprende la reazione emotiva, che si guarda bene, però dall’assecondare-, "nelle braccia del partito governativo".
Nella sua presa di posizione non v’è traccia di pacifismo, foss’anche motivato da ragioni "operaie" (il giustificato desiderio dei lavoratori di Londra di non doversi far "tagliare a pezzi per l’onore degli emissari feniani"). E’ solo e soltanto alla stregua degli interessi della lotta congiunta tra l’Irlanda oppressa ed i1 proletariato inglese, che Marx disapprova l’azione di Clerkenwell come "una grossa stupidaggine". Essa danneggiava infatti, ad un tempo, tanto il movimento irlandese quanto l’ala conseguentemente rivoluzionaria dell’Internazionale, offrendo un attimo appiglio alla politica anti-irlandese ed anti-operaia della borghesia britannica.
Ove si guardi al contesto in cui l’"errore" feniano cadde, si dovrà convenire che la "condanna" di Marx fu davvero misuratissima. Proprio in quell'autunno 1867 iniziavano a dar frutti anni di battaglie internazionalista sulla "questione irlandese". Appena qualche settimana prima dell’attentato di Clerkenwell, imponenti manifestazioni avevano solcato Londra (la più grande proprio nel quartiere attorno al penitenziario) ed altre città inglesi per protestare contro la condanna a morte di alcuni militanti feniani. "I proletari londinesi -comunicava 1’8 novembre e Kugelmann un raggiante Engels- con ogni giorno che passa si pronunciano sempre più a favore dei feniani, e quindi -il che è una cose assolutamente inaudita e veramente magnifica, - essi si pronunciano a favore di un movimento, in primo luogo violento e, in secondo luogo, anti-inglese (L'Irlanda e la questione irlandese. Ed. Progress, p.130). p. Ebbene, che ti vanno a fare quegli "asini" dei feniani. Un'idiozia piramidale che pareva fatta apposta -è questo che brucia a Marx ed Engels!- per mettere in difficoltà il "veramente magnifico" schieramento pro-violenza ed anti-inglese del proletariato britannico.
L'estrema misura delle prese di posizione di Marx si spiega con la attenzione a non portare acqua ai mulini del partito governativo e delle tendenze legalitarie e riformiste ampiamente presenti nel movimento operaio inglese, che erano ovviamente assai tiepide verso la causa irlandese. Tre giorni dopo il noto "Fenian exploit", il castigamatti dei filistei di ieri, oggi e domani tenne une lunga relazione sull’Irlanda alla Associazione educativa dei lavoratori tedeschi di Londra (lo schema autografo e la sintesi per la stampa curata da Eccarius sono in L’Irlanda... pp. 112-127). Fu una feroce (qui ci vuole) disamina storica della colonizzazione inglese dell’Irlanda, in cui non è rintracciabile un solo iota di desolidarizzazione né dalla lotta per l’indipendenza irlandese né (nonostante la fresca "bravata") dagli stessi feniani. In essa, senza la minima presa dl distanza dai mezzi d’azione "illeciti" si fissa una volta di più l’alternativa per l'Irlanda nei termini "rovina o rivoluzione" (e "rivoluzione" equivaleva, in quella situazione, a fenianesimo). E’ una importante lezione sul metodo della propaganda rivoluzionaria: se la borghesia ha interesse ad amplificare la portata del "terrorismo" degli oppressi per presentarlo come un grave pericolo incombente su tutte le classi della nazione (onde chiamarle all’"union sacree" anti-emergenza), per il partito proletario si tratta invece di riportare il fuoco dell’attenzione dei lavoratori dagli effetti ultimi dell'oppressione alle sue cause determinanti (onde cementare l’unità degli sfruttati nella lotta anti-borghese al di là degli umori suscitati dall’insipienza dei "terroristi").
Anche nei decenni successivi il marxismo continuò a considerare il "pieno sostegno" alla lotta di liberazione dell’Irlanda dal giogo dei proprietari terrieri e dei capitalisti inglesi come una componente essenziale della promozione della rivoluzione sociale in Gran Bretagna e nel mondo intero, nonostante la classe operaia inglese cadesse sempre più preda, per effetto del monopolio conquistato dalla "propria" borghesia sul mercato mondiale, di un atteggiamento di indifferenza verso le condizioni delle popolazioni irlandesi (e colonizzate in genere). Cosa della quale Marx ed Engels ebbero ripetutamente a dolersi (oltre che a farne oggetto di acuta indagine). La CCI non avrebbe potuto scegliere "testi" e materia a noi più graditi. Non per nulla Lenin ha affermato che "La politica di Marx ed Engels sul problema irlandese è un grandissimo esempio -che ancor oggi conserva un’immensa importanza pratica- del modo in cui il proletariato delle nazioni che ne opprimono altre deve comportarsi verso i movimenti nazionali" (Opere scelte, Ed. Riuniti, p. 528).
Alla CCI va comunque riconosciuto il merito di avere spiattellato nuda e cruda la "verità" verso la quale convergono tutte le gamme dell’ "internazionalismo puro", e cioè che in questa ultimissima fase del capitalismo "tutti i paesi sono (diventati) imperialisti" (così nel n. 67 di "R.I."). Benché la loro stampa sia perfino inflazionata di richiami all’imperialismo, i diversi raggruppamenti indifferentisti sono accomunati dall’abbandono o dalla negazione di fatto della concezione marxista dell’imperialismo. Dietro l’attribuzione all’Iraq della qualifica di "imperialismo minore" ed alla guerra del Golfo di guerra inter-imperialistica" non sta semplicemente un erroneo apprezzamento di un singolo paese e di una singola guerra, ma la convinzione (più o meno consapevole) che il capitalismo contemporaneo è nel suo insieme profondamente mutato rispetto a quel che era ad inizio secolo; mutato nel senso che tutti i paesi del mondo sono divenuti non, soltanto più omogenei, ma anche più "eguali" quanto a rapporti economico-sociali dominanti. E questo cambiamento avrebbe reso desueta e pericolosa la "vecchia" distinzione tre paesi imperialisti e paesi oppressi dall’imperialismo.
Alla base di questa trasformazione epocale del capitalismo starebbe secondo "R.I.", l’impossibilità del capitalismo di "espandersi ulteriormente", il blocco permanente del mercato mondiale. In questo ambiente asfittico "l’intero capitale mondiale è divenuto senile e decrepito" e "tutte le frazioni della borghesia, dai grandi gangster come gli USA ai piccoli gangster come Saddam, (...) ugualmente rapaci ed "imperialisti". E’, ancora a causa bel "mercato mondiale saturo" che, nel contesto di una "rivalità militare permanente tra (tutti gli) stati capitalistici" per il dominio sull’economia del globo, alle "cosiddette nazioni ‘oppresse’" non rimane altra possibilità di competizione se non quella di opprimere a loro volta "quelle ancora più piccole; così si va avanti fino alle più piccole gang (anch’esse, è da credere imperialiste -n.) di delinquenti di Beirut o della Monrovia". La conclusione è pregnante: "Col manifestarsi di questo incubo di una guerra di tutti contro tutti, non può rimanere alcun dubbio sul fatto che oggi qualunque frazione della borghesia è necessariamente imperialista". Scontati i corollari politici: da un lato l’aggressione dell’imperialismo occidentale all’Iraq ed ai popoli del Medio Oriente viene imbellettata quale "conflitto imperialista per entrambi i fronti, come le guerre mondiali"; e dall’altro la resistenza dell’Iraq e la sollevazione anti-imperialista delle masse arabo-islamiche vengono catalogate nel novero degli inutili stermini" e condannate, in nome della "rivoluzione internazionale", al pari di tutte "le altre guerre (anti-coloniali ed anti-imperialiste -n.) di questo secolo".
In un tal guazzabuglio extra ed anti-materialista, il concetto di imperialismo perde, insieme con un qualsiasi riferimento ai criteri fissati (sulla scia de "il Capitale") da Lenin e dalla Terza, ogni contenuto economicamente e storicamente determinato. Non vi è più centrale, infatti, né la concentrazione e centralizzazione del capitale (capitale monopolistico, finanziario, etc.), né la diseguale e combinata divisione internazionale del lavoro che di quelle è ad un tempo portato e precondizione (esportazione di capitali, stati usurai, colonie, etc.). E non vi è più questione né di profitti e sovrapprofitti, né di sfruttamento e super-sfruttamento del lavoro salariato (con i problemi politici connessi: social-sciovinisrno, aristocrazie operaie movimenti nazional-rivoluzionari delle colonie e semi-colonie, etc.).
Nello schemino esplicativo della CCI il complesso gioco di queste categorie con cui il marxismo ha dato conto dell’intricato viluppo di forze costituenti il sistema capitalistico mondiale, è senza gran pena soppiantato dal richiamo risolutivo alla stagnazione del mercato internazionale. Non inganni il carattere a prima vista materiale di questa determinazione, che è in realtà non il risultato, ma il postulato dell’"analisi". E’ giusto in quanto presupposto non dimostrato, funge da vero deus ex machina assiomatico che "spiega" (non spiegato) la globale mutazione genetica del capitalismo mondiale in conseguenza della quale tutti i capitali ed i paesi si sarebbero eguagliati in senso imperialista.
Il blocco permanente del mercato mondiale: donde sorge tale (morta) astrazione? Dalla storia dello sviluppo economico del XX secolo, sembra. Sennonché questa storia mostra un andamento niente affatto lineare (in nessun senso), bensì irregolare, a grandi sbalzi, del mercato mondiale, parallelo a quello dell’accumulazione e da esso alla fin fine dipendente (non è dato, infatti, che la realizzazione abbia strappato il posto di comando alla produzione del plusvalore). Un corso che si può definire catastrofico solo a condizione di intendere questo termine in modo dialettico, dacché la decadenza o putrefazione (sul piano storico) del modo di produzione capitalistico va attuandosi non attraverso un’esclusiva sequela di crisi e guerre generali, ma anche per entro fasi e cicli di eccezionalmente rapido e "pacifico" (relativamente, s’intende) sviluppo. Un aspetto di quest’andamento nell’insieme quanto sai sregolato del capitalismo è rappresentato dall’alternarsi tra periodi di verticale contrazione dei consumi e di universale marasma nei commerci e periodi di fortissima espansione dei mercati e (meno) dei consumi (inclusi, per le metropoli, e a livelli in termini assoluti in precedenza sconosciuti, quelli "di massa"). Il saldo globale di queste anarchiche oscillazioni è tuttora positivo per il capitale nel senso che il mercato mondiale, seppure tra antagonismi e squilibri sempre più esasperati (è questo il punto!), continua ad espandersi, così come prosegue nel concesso la crescita, sempre più stentata e gravida di tragiche conseguenze (certo!), delle forze produttive.
La valida intuizione di Rosa Luxemburg secondo cui le difficoltà nella realizzazione del plusvalore si sarebbero accresciute con il procedere dell’assoggettamento e della distruzione per mano del capitalismo più progredito degli "strati sociali e dei paesi non capitalistici", viene banalizzata da "R.I." in chiave metafisica. Ne "L’accumulazione del capitale" una robusta ricostruzione storica e teorica (benché questa seconda fosse -in parte almeno- dubitabile) dà corpo ad un penetrante "contributo" alla comprensione dei limiti dell’imperialismo ed alla denunzia della sua opera di "civilizzazione" (un processo che Rosa, al contrario del suoi abusivissimi "seguaci", bolla come rapina, sfruttamento e "vivisezione" dei popoli colonizzati). Nel foglio della CCI un concettuzzo privo di qualsiasi forza teorica e spessore storico serve soltanto a confondere le idee sul capitalismo contemporaneo ed a sabotare ovunque, e specie nel "centro" del sistema, la latta rivoluzionaria per il suo rovesciamento. A confronto con le più recenti elucubrazioni, lo stesso testo del ‘75 su "La decadenza del capitalismo", inficiato alla radice da unilateralismo ma ragionante ancora intorno al "rallentamento della crescita delle forze produttive", si fa in un certo qual senso "rimpiangere".
Ma, caduto il paravento di una stabile stagnazione del mercato internazionale nell’epoca imperialista, tutto ciò che residua è un’accezione di "imperialismo" che ha a che vedere più con il diritto, la morale e la psicologia che con l’economia e, men che meno, con l’economia marxista. Scrive in modo rivelatore "R.I.": nella guerra del Golfo gli Usa sono stati mossi, prima che da limitati calcoli circa la vendita di armi (fin qui nulla da dire), dall’interesse più complessivo di "dare une lezione a Saddam, di ridimensionarlo, perché consentire che in una situazione come questa ognuno possa seguire (fate attenzione! -n.) il proprio istinto imperialista, invadendo il proprio vicino di casa (!), significa permettere che si sviluppi il caos a livello mondiale". Privata del suo preciso contenuto materiale, la categoria "imperialismo" viene rimessa in circolo dall’ "estrema sinistra" indifferentista (non è un’esclusiva della CCI, cui spetta comunque un primato) come l’omologo di generica "rapacità" borghese, di (naturale?) attitudine a risolvere le controversie con metodi violenti, di propensione all’espansione territoriale ai danni del "vicino di casa" (la politica mondiale osservata attraverso il prisma delle liti condominiali...), fino al punto di tirare in ballo addirittura un "istinto imperialista" che starebbe prendendo possesso di "ognuno" (parola che in italiano vale: ciascun uomo). Il n’y a qu’un pas (o due) e siamo all’imperialismo come malattia dell’animo umano in generale. In ogni caso, ben oltre Marx e Lenin, in prossimità di Schumpeter e della sua spiegazione psicologica dell’imperialismo (se non pure di un Konrad Lorenz).
Certo, per Schumpeter l’aggressività" e l’ "istinto" espansionistico errano "impulsi atavici provenienti da società e rapporti pre-capitalistici mentre per "R.I." l’epidemia di questi medesimi fattori è dovuta alla "decomposizione" senile del capitalismo. Tuttavia, la parentela filosofica tra le due concezioni è stretta essendo entrambe da cima o fondo idealiste. E paradossalmente un pizzico di "materialismo" in più è rimasto proprio nel teorico austriaco. La cui definizione -"l’imperialismo è l’assurda tendenza da parte di uno Stato a perseguire un’espansione illimitata e violenta- contiene, infatti, almeno un paio di aspetti della realtà vera del capitalismo imperialista 1)soltanto degli Stati (borghesi) e non già una "qualsiasi frazione" o "gang" della borghesia possono essere imperialisti; 2) appartiene all’imperialismo non la tendenza a sconfinare nelle terre del "vicino", bensì quella a regnare senza limiti nell’arena del mercato mondiale.
Ancora: per la CCI si deve a "certe errate concezioni" di Lenin e della III Internazionale" la tesi secondo cui "la dominazione del mondo da parte dell’imperialismo comporta una forte resistenza sotto forma di rivolte delle colonie e guerre nazionali da parte delle ‘nazioni oppresse’" Altrimenti andrebbero le cose: la decrepitezza (ecco altro termine che è stato svuotato di ogni definito connotato storico-sociale per ridursi ad un che di naturalistico) del capitalismo tutto intero spingerebbe le nazioni oppresse, invece che ad insorgere contro l’oppressore imperialista e le classi e gli aggregati pre-borghesi che ne puntellano il dominio in "periferia", a vessare imperialisticamente le nazionalità ancora "più piccole".
Ci vuole davvero una stupefacente noncuranza verso il processo storico per non vedere quanto ricco sia stato il nostro secolo di insurrezioni e guerre delle giovani nazioni e (anche: le due cose non si identificano) delle rispettive borghesie contro il giogo metropolitano. E bisogna essere impregnati fino al midollo di "pacifismo" da società affluente per declassare ad "inutile sterminio" la grandiosa opera compiuta col ferro e col fuoco dalla democrazia rivoluzionaria afro-asiatica. Questi giovani capitalismi hanno avuto, certo, sempre minore consequenzialità rivoluzionaria per timore di destabilizzare l’intero ordine imperialista; e, altrettanto certo, non soltanto essi (in talune circostanze), ma anche le prime e più radicali rivoluzioni borghesi non sono state aliene dall’usare oppressione nazionale ("la repubblica inglese di Cromwell è naufragata in Irlanda", ebbe a dire Marx). E però è sommamente sciocco ed anti-rivoluzionario prendere ciò a pretesto per cancellare in quanto non immediatamente comunista internazionalista, la realtà dell’ "incandescente risveglio delle ‘genti di colore’" che da un secolo batte i rintocchi delle crisi capitalistiche. Se lo si fa, ci si vieta (per non dire altro) di comprendere meccanismi che incidono in profondità sul proletariato metropolitano e sui lavoratori supersfruttati dei paesi oppressi, e dunque sul soggetto stesso della rivoluzione proletaria.
Altra balordaggine è confondere le nazioni oppresse -ed in particolare le classi sfruttate e le masse diseredate di esse- con la borghesia di queste nazioni. Ma è esattamente quanto fa "R.I." . Se scriviamo "masse sfruttate arabo-islamiche", "R.I." traduce: Saddam. Se "fratelli di classe arabo-islamici", li si capisce: "imperialismo iracheno". L’"appoggio alla ribellione antimperialista" degli sfruttati medio-orientali si trasforma, va da sé, in appoggio al nazionalismo iracheno. Che dire? Contendere con tipi del genere che ignorano la grammatica, la sintassi e l’alfabeto stesso del marxismo, la lotta di classe reale e poi anche la logica più elementare e tutto il resto, è tempo perso.
Soltanto un’ultima annotazione, prima di lasciarli al loro destino. La conseguenza politico-pratica della su ricordata "teoria" dell’imperialismo è che nella guerra del Golfo, essendo a conflitto due schieramenti entrambi imperialisti, i proletari avrebbero dovuto attenersi su entrambi i fronti al "disfattismo riv.", consegna -questa- che era particolarmente vitale proprio in Iraq e in Medio Oriente data la capacità di camuffamento "anti-imperialista" dell’"imperialismo iracheno". "Disertate dal combattimento! Arrendetevi!", strillavano costoro alle masse irachene e medio-orientali bestialmente aggredite dal proprio imperialismo. Per loro l’unico proletario arabo (e domani: jugoslavo, cubano, cinese, etc,) buono è quello che, davanti ai compiti della lotta a morte all’imperialismo, se le dà a gambe levate. Con la scusa della "rivoluzione internazionale", l’ "estremismo’’ alla CCI fa l’apologia della resa a discrezione delle masse di colore ed incentiva il proletariato dell’Occidente e dimissionare dai compiti anti-sciovinisti.
Una boccata di ossigeno per poter procedere: "Per il marxismo, la rivoluzione è un fatto internazionale, una catena i cui anelli reagiscono gli uni sugli altri: i movimenti coloniali sul movimento proletario, indebolendo la borghesia delle metropoli e rilanciando ivi la lotta a scadenza più o meno breve; poi l’azione di ritorno del proletariato d’avanguardia sulle masse dei paesi di colore." "I1 proletariato può stringere patti con i popoli in rivolta contro l’imperialismo bianco -qualunque sia la loro bandiera immediata, purché combattano (questo per indicare ai nostri "contestatori" dove 1’OCI ha tratto, pari pari, indirizzi ch’essi giudicano "delittuosi" e che sono, sicuro, contrapposti ai loro -n.)- solo a condizione che ne aspetti, dialetticamente e concretamente, l’azione di ritorno sulla guerra di classe proletaria nei paesi a capitalismo maturo; da questi l’azione deve rifluire verso i paesi coloniali, le cui rivolte saranno allora (idem come sopra: questo é il processo rivoluzionario, di cui il "purismo" ignora sempre leggi) spinte al di la dei limiti economici locali e dunque dei limiti che si presentano alle ‘coscienza’ diretta delle masse combattenti." (Prospettive rivoluzionarie della crisi, p. 196).
La replica che "Battaglia com." ci ha dedicato nel n.1 di "Prometeo" (V serie) si astiene dal vergognoso tralignamento della CCI, ma quanto ad intendimento marxista dei problemi non va certo molto oltre. Essa sancisce anche la nostra defenestrazione dal "vecchio campo politico proletario" da B.C. arbitrariamente tracciato.
Ci saremo guadagnati una cotal punizione per avere:
La questione di fondo è, anche in questo caso, cosa è l’imperialismo e se esista, o meno, uno specifico rapporto tra imperialismo e paesi oppressi. In materia il (per dir così) "vecchio campo politico proletario", quello vero, alias la III Internazionale, prescrisse, ed in modo tutto particolare alle proprie sezioni metropolitane, di "distinguere (...) nettamente le nazioni oppresse, dipendenti e prive dei loro diritti, da quelle oppressive, sfruttatrici e pienamente sovrane, smascherando la menzogna democratico-borghese (fischiano le orecchie a nessuno? -n.) che cerca di nascondere l’asservimento coloniale e finanziario -tipico dell’età del capitale finanziario e dell’imperialismo- della stragrande maggioranza di tutta la popolazione mondiale per opera di una sparuta minoranza formata dai paesi capitalistici più ricchi ed avanzati" (Tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate dal II Congresso, punto n.2).
Per B.C. tale netta distinzione è superata, in una -si deve credere- con l’ "asservimento coloniale e finanziario (...) della stragrande maggioranza etc. etc.". Non è detto chiaro e tondo, come si converrebbe ad un mutamento di così capitale importanza, ma con ogni evidenza non è altri che questo il basilare presupposto su cui si poggiano le posizioni di B.C, e dell’ "internazionalismo puro" in genere . L’aspetto più singolare della faccenda è che da nessuna parte è dato trovare uno straccio di dimostrazione un minimo plausibile del perché e del come si sia verificato un simile capovolgimento nel modo d’essere e di funzionare dell’imperialismo.
L’imperialismo, così sapevamo noi ortodossi, è l’esito storico estremo, "ultimo" del processo di accentramento (concetto dialettico: ipertrofia ad un polo, spoliazione all’altro) del capitale ed in quanto tale inasprisce al massimo grado le diseguaglianze tra le classi, le nazioni e gli stati. Veniamo ora ad apprendere che, a totale smentita delle previsioni della dottrina rivoluzionaria, il "vecchio" processo - accentratore e polarizzante del capitalismo s’è arrovesciato nel suo contrario per sua propria naturale evoluzione (e non già per via insurrezionale), L’accesso al "club" un tempo esclusivo delle nazioni e degli stati imperialisti si sarebbe ormai liberalizzato, democratizzato. Come mai? Si è forse invertito il tradizionale flusso degli investimenti internazionali che esporta "in periferia" i capitali metropolitani eccedenti per reimportarli al "centro" ingrassati di extra-profitti "coloured"? Il sistema bancario internazionale sta forse "riequilibrandosi" a favore del "Terzo Mondo"? Si è forse spostato verso "Sud" il centro di gravità della scienza e della tecnica mondiali? II tasso di sviluppo dell’industrialismo nei paesi ex-coloniali è forse riuscito e surclassare stabilmente (su scala generale) quello dei paesi più ricchi ed avanzati? Nelle sterminate campagne dei continenti dominati, alla disgregazione dei rapporti sociali arcaici e feudali s’è forse sostituita un’iperproduttiva agricoltura intensiva? Stanno forse germogliando dapperognidove, a nostro scorno, capitalismi nuovi "un pochino equilibrati"? Ed attraverso quali meccanismi egualitari (sfuggiti a noi come alla "stragrande maggioranza della popolazione mondiale" che s’ostina ad attardarsi ai limiti della mera sopravvivenza, se pure...) è stato soppresso lo scambio diseguale? Il buio è, in proposito, fittissimo.
Qualche dato all’ingrosso, fresco di stampa (La nuova geografia-Atlante economico, 1990, a cura de "I1 sole-24 ore", sul testo base La puissance économique, Hachette, 1990), può aiutare a comprendere lo stato delle cose, al presente.
"L’attività bancaria internazionale -vi si legge- è caratterizzata da una netta polarizzazione". Circa il 90% di essa è, infatti, nelle mani dei paesi dell’OCSE, che ne detengono direttamente il 70% ed "indirettamente" (tramite proprie agenzie estere quali Hong Kong, Singapore, le isole Cayman e Bahama, etc.) la restante quota. Percentuali iper-monopolistiche caratterizzano anche l’accesso ai crediti bancari a medio termine (l’83% va ai paesi OCSE, l’11% all’insieme dei paesi dipendenti e l’l% appena al complesso del paesi dell’Opec) e più ancora la proprietà delle obbligazioni internazionali (addirittura il 93,7% all’imperialismo occidentale contro l’1,1% ai cosiddetti PVS e lo 0,7% ai paesi Opec). Dando per assodato che si sappia a sufficienza del debito del "Terzo Mondo" verso il sistema bancario internazionale, e cioè nel confronti dei già visti detentori monopolisti del capitale finanziario mondiale, e circa la funzione non propriamente emancipatrice per i paesi arretrati dei prestiti esteri, gettiamo uno sguardo alle monete "più richieste" nel mondo, alle monete che dominano, cioè, su tutte le altre. Ebbene: oltre l’89% delle riserve monetarie detenute dalle banche centrali nel mondo è costituita da sole tre monete: dollari statunitensi (70,2%), marchi tedeschi (13,7%) e yen (5,3%). Ancora quattro monete europee (sterlina, franco francese, franco svizzero e fiorino olandese) coprono un altro 7,8% e nel rimanente 3% sono comprese altre monete occidentali (come la lira). Checché strologhino di "mutamenti profondissimi" i redattori di "Prometeo"-V, è l’enplein dei soliti imperialismi di..."un millennio addietro" (e i mutamenti sono nel senso di un ancor maggiore accentramento totalitario). Vogliamo volgerci alle Borse? Il quadro resta monotonamente polarizzato: "L’assenza significativa (infatti...-n.) di grandi borse nei paesi del Terzo Mondo si accompagna ad una concentrazione del mercato dei capitali (tra i due fenomeni non c’è parallelismo, ma rapporto di causa ad effetto -n.) attorno a dodici principali borse dei Paesi industrializzati" messe a loro volta in fila da una "netta gerarchizzazione: al vertice i mercati americano e giapponese, poi quelli britannico, tedesco, canadese e svizzero". La situazione formale esistente al FMI parrebbe costituire una eccezione: i suoi membri sono passati dai 45 del 1944 ai più di 150 di oggi, e mentre la quota-parte del Nord America si è ridotta e quella dell’Europa è rimasta stabile, sono aumentate le quote del Sud America, dell’Asia e dell’Africa. Ma l’eccezione è soltanto apparente, Anzitutto perché, malgrado il relativo incremento del "Terzo Mondo", i "7 grandi" rappresentano comunque il 49% delle quote-parte. Ed in secondo luogo perché, per ragioni che vanno al di la della ripartizione delle quote del FMI, "a decidere sono i paesi sviluppati" che "hanno un peso determinante nell’organizzazione del FMI". Tali ragioni (limitatamente al solo livello monetario del problema) sono indicate con chiarezza in uno studio dedicato all’argomento. "Se i paesi in via di sviluppo in altri consessi internazionali (Onu, Unctad, Nord-Sud, etc.) riescono, anche se con enormi sforzi, a svolgere ruoli di secondo piano, nel FMI (benché membri effettivi) svolgono semplicemente il ruolo di comparse. E fintanto che permangono inalterati gli obiettivi e la struttura del Fondo, l’attuale situazione non potrà subire enormi capovolgimenti. E non potrebbe essere diversamente. Poiché le monete nazionali dei paesi del Terzo Mondo non sono mezzi di pagamento internazionali come sono invece le divise-chiave (dollaro e sterlina) o le divise forti (marco, yen, franco svizzero, etc.), l’elaborazione della politica economica del FMI è riservata solo al gruppo dei Dieci ed è questo gruppo che stabilisce i criteri su cui poggia l’intero sistema internazionale." (R. Maurizio, Il ruolo dei paesi in via di sviluppo nel FMI, in "Politica internazionale", n. 10/1977). Ed il frazionatissimo 35% delle quote che è legalmente nelle mani dei "colorati"? Serve, come la democratizzazione del possesso di azioni in genere (che non è strabiliante novità dei nostri di), a rafforzare la potenza della oligarchia finanziaria dominante, che per questa via raccoglie per sé i capitali liquidi "dispersi" per il mondo e ne fa l’uso più idoneo a preservare l’ "ordine internazionale" imperialista. Oppure (è soltanto un’analogia, s’intende) son da tenere per capitalisti finanziari, ancorché micro, mini, sub e via dicendo, tutti quei dipendenti Fiat (il 33% del totale, sembra) che possiedono almeno un’azione della "propria" società? Anche il commercio dell’oro che, nonostante sia stato soppresso il Gold Exchange Standard, conserva tuttora un suo peculiare rilievo, è tutt’altro che egualmente distribuito tra tutti gli stati (e le borghesie) del mondo: infatti, l’evolvere della domande di oro "è ancora (l’ancora è riferito al Giappone, non al Nicaragua -n.) fortemente concentrato in Europa e negli Stati Uniti: Zurigo (da sola) riceve più delle metà delle barre e dei lingotti, come anche la maggior parte dell’oro sovietico".
Stante un simile grado di concentrazione-centralizzazione del capitale nelle grinfie di pochissimi super-stati, dovrebbe essere evidente che l’afflusso di capitali iracheni "esportati" verso le istituzioni finanziarie internazionali, le banche, le borse o le s.p.a. occidentali esprime non tanto la forza finanziaria dell’Iraq o di paesi dalle caratteristiche affini, quanto piuttosto, in fin dei conti, l’inverso, e cioè l’assoggettamento dell’Iraq e di quant’altri al potere accentratore del capitale imperialista. Si può anche fissare una regola: a parità di condizioni, tra i paesi dominati sono relativamente meno dipendenti degli altri quelli che non "esportano" capitali verso le metropoli sotto forma dl azioni, obbligazioni, pacchetti azionari, etc.
Se dal capitale finanziario passiamo a quello industriale che ne è pur sempre un pilastro portante, il risultato non cambia. Ben 464 delle prime 500 "indutrial corporations" del mondo appartengono ai paesi dell’Occidente e soltanto 34 al complesso delle nazioni che costituiscono "la stragrande maggioranza di tutta la popolazione mondiale". Di queste 34, poi, un terzo sono sud-coreane ed almeno un’altra dozzina sono da considerare diretta emanazione delle multinazionali occidentali, come per es. le società petrolifere o minerarie con sede in Kuwait, Arabia Saudita, Cile, Zambia o altre con sede a Panama, nelle Antille olandesi, etc. La misurazione di questo rapporto in termini di ammontare del fatturato e di ripartizione per settori (a seconda se di punta, intermedi o maturi), mostra uno squilibrio ancora più marcato a favore dei maggiori paesi imperialisti. Nelle produzioni di avanguardia (aerospaziale, elettronica, computer, produzione di macchine, grandi lavori edili, farmaceutica, meccanica) o definibili strategiche (alimentari, prodotti delle foreste, etc., ad esclusione della produzione di materie prime per l’industria), in totale circa 250 multinazionali, soltanto 2 (meno dell’1%) hanno "nazionalità" terzomondiale (la Corea del Sud). Quasi tutte le restanti 32 sono nel settore petrolifero e minerario oppure nelle produzioni relativamente più mature (tessile, auto, etc.) (Fortune, luglio 1990).
Perfino nel campo della produzione agricola, un tempo tranquillo appannaggio (di povertà) dei paesi oppressi, questi vengono insidiati e perfino soppiantati dai paesi più finanziarizzati e industrializzati, a misura che l’agricoltura va trasformandosi a passo accelerato in "un’industria pesante, forte utilizzatrice di capitali" ed è sempre più condizionata dal protezionismo e dall’intervento statale (di stati con capacità protettiva nettamente diversificata). E’ un fatto: se fino alla fine degli anni ‘60, gli scambi mondiali di prodotti agricoli, seguendo una tendenza plurisecolare, si erano orientati soprattutto da Sud a Nord, nell’ultimo ventennio hanno preso una direzione di marcia opposta orientandosi sempre più da Nord verso Sud. "Esportatore netto di cereali nel 1939, il Terzo Mondo preso nel suo insieme è ormai diventato, per contro, un importatore netto. La bilancia del suo commercio alimentare e diventata negativa con l’appesantirsi del suo indebitamento" (B. Delpeuch, La posta in gioco, Clesav, 1989, p. 25). Per guadagnare valuta pregiata indispensabile al pagamento del debito estero, infatti, i paesi poveri vanno concentrandosi sulle colture di esportazione a scapito di quelle di sussistenza, ed in questo nodo la "colonizzazione finanziaria" agisce, senza bisogno di coloni bianchi in loco, come veicolo di una seconda colonizzazione, non soltanto agricola bensì agro-alimentare. Soltanto per le bevande tropicali e le materie prime agricole i paesi dominati riescono a mantenere stabile la propria quota di mercato, che va invece decrescendo per l’esportazione delle gran parte dei prodotti alimentari. Quanto infine ai primi 100 gruppi agro-industriali che tengono sotto il proprio controllo l’intera produzione agricola mondiale, battono le seguenti bandiere: USA, 38; G.B., 25; Giappone, 11; Francia, 8; Canada, 7; Paesi Bassi, 3; Svizzera e Australia 2; altri: 4.
Con tutto ciò, se 1’OCI tiene ferma, anzi fermissima in quanto totalmente confermata dalla realtà presente del capitalismo mondiale, la "netta distinzione" operata dalla III Internazionale; e se, coerentemente, escluso 1’Iraq dal novero dei paesi imperialisti, valuta la guerra del Golfo (anche ammesso, e per nulla concesso, che fosse rivolta esclusivamente contro l'Iraq) come imperialista su un solo fronte, fa -a detta di B.C.- "ideologia" e "falsa coscienza". Scienza sarebbe, viceversa, considerare l'Iraq "imperialismo d'area" o "mini-imperialismo", insomma un imperialismo a tutti gli effetti, ancorché di rango inferiore. Tale, un paese importatore di capitali, indebitato fino al collo e perciò costretto e bussare de questuante (o da ribelle) ai santuari del capitale finanziario dal quale è escluso (è durato non a caso l'espace d'un matin l'attivo valutario iracheno dei secondi anni '70); mono-esportatore (il 98% delle sue entrate da esportazioni è dovuto al petrolio); completamente sguarnito di industria dei mezzi di produzione (a cominciare dalle stesse attrezzature indispensabili alla estrazione del petrolio) e con un'industria leggera deficitaria; un paese che è arrivato a dipendere fino al 70% del suo fabbisogno alimentare dalle importazioni; con soli 18 milioni di abitanti (ed il numero conta in quella contesa imperialista che, secondo l'espressione di Bordiga, vede "il prevalere senza pietà dei grandi Stati che hanno massa di popolazione e di territorio più ingente"); il cui prodotto interno lordo è meno di 1/100 di quello statunitense e meno di 1/300 di quello della coalizione "alleate" che lo ha devastato; un paese addirittura privo di "un adeguato sbocco al mare" (consta anche a B.C.) pur affacciando sul mare...Come si possa, passando da queste singole, date determinazioni alla unità di esse, avere per risultante il carattere imperialista del capitalismo iracheno, è cosa che a noi comuni mortali francamente sfugge.
Ma vediamo come B.C., che non si è peritata di accodarsi alla propaganda dominante inveendo anch'essa contro le "mire espansionistiche" e l’"arrogante atto di aggressione" di Baghdad contro la povera ed indifesa satrapia kuwatiana, motiva la sua opposta convinzione. "Prometeo"-V ammette l’esistenza di un "obiettivo contrasto "tra gli interessi dell’Iraq e quelli degli Stati Uniti, ma esclude che in questo contrasto l’Iraq sia "portatrice di un interesse antimperialistico che accomunerebbe tutte le masse arabe e musulmane e, pertanto, da appoggiare", innanzitutto perché "l’Iraq, pur essendo un paese debitore, (...) è anche un paese produttore di petrolio", ed a ragione di ciò la borghesia irachena "non può avere alcun interesse a spezzare il processo delle formazione della rendita". Ed in secondo luogo perché "una ripartizione (della rendita) anziché un’altra potrà favorire ore l’uno ora l’altro dei rentier, ma mai le classi sociali, che non disponendo di altro che del proprio lavoro o, se si vuole, della loro fame, sono escluse come possibili percettori di rendita". Rivendicando il raddoppio del prezzo del petrolio, l’Iraq "non favoriva certo i paesi arabi debitori e non produttori" di petrolio, e neppure le masse arabo-islamiche che "devono già non poco della loro fame" proprio "agli alti prezzi del petrolio". Faceva invece, "più verosimilmente", l’interesse delle grandi compagnie petrolifere statunitensi e dei "centri finanziari più interessati ad un regime di tassi di interesse sul dollaro più elevati". Contrariamente ai "sottil distinguo" dell’OCI (ma la res de qua agitur è sempre la "netta distinzione marxista tra paesi imperialisti e paesi oppressi dall’imperialismo). Il conflitto del Golfo si sarebbe articolato "lungo linee interne ai contrasti interimperialistici" ed in esso l’Iraq sarebbe stata portatrice di una istanza "sub-imperialistica". Ergo: "non si è trattato né di una guerra anticoloniale né della guerra dei paesi ricchi contro quelli poveri".
Tralasciamo i confusi rumori della "teoria di B.C. circa i nessi tra prezzo del petrolio, quotazione dal dollaro e livello dei tassi di interesse (che è sostanzialmente ininfluente rispetto alle questioni in discussione), e diamo una sbrogliata al groviglio di assurdità e tesi provocatorie testé riportato.
Punto primo: è ovvio che la borghesia irachena, e qualsiasi altra borghesia dominata o controllata dall’imperialismo, non ha interesse "a spezzare il processo di formazione delle rendita" perché ciò equivarrebbe, se le parole hanno un senso, a spezzare il sistema capitalistico in quanto tale. Con l’anti-imperialismo borghese non può trattarsi, evidentemente di questo. Esso verte, invece, intorno alla ripartizione della rendita (e dei profitti estratti localmente) tra capitalismo imperialista da un lato e paesi oppressi produttori dall’altro. La rappresentazione indifferentista di questa contesa la riduce a delle semplici variazioni contabili per l’uno o l’altro rentier, ad un puro gioco tra borghesie dal quale il "proletariato internazionale" è e deve tenersi fuori, canticchiando con il duca di Mantova "questa e quella per me pari sono" (restando, però, a differenza del dongiovanni, a secco in entrambi i casi). Il reale contenuto dello scontro consiste, viceversa, nelle possibilità o meno di forzare il blocco dello sviluppo "in periferia", costruendovi un capitalismo un po’ meno anemico, storpio ed extravertito di quello che, come regola, la centralizzazione imperialista vi consente.
Il conflitto intorno al greggio ed alle materie prime in genere è un grande scontro tra tutte le classi del sistema imperialista, a cui la nostra classe è profondamente interessata, in quanto l’indebolimento della presa imperialista sul "Terzo Mondo" è condizione lì del costituirsi fisico e dell’irrobustimento politico della classe operaia entro lo slancio "nazionale" del giovane industrialismo, qui della ripresa di combattività del proletariato che la pace sociale immobilizza a rimorchio della borghesia social-democtatica. Non risulta, del resto, che le nazionalizzazioni delle risorse petrolifere avvenute nel mondo arabo islamico nel secondo dopoguerra siano state effetto di tranquille (o perfino agitate) tavole rotonde tra rentiers o di normali mercanteggiamenti tra le parti in causa. Sono avvenute di norma, senza che questo conferisca loro alcun carattere socialista, a seguito di rivoluzioni o insorgenze popolari aventi a bersaglio e le corrotte cosche latifondiste semi-feudali e le multinazionali imperialiste, ed il processo di rivoluzionamento borghese del mondo arabo-islamico che dalle vicende del petrolio è inseparabile, ha avuto durature conseguenze destabilizzanti sull’Europa e sull’intero Occidente (a cominciare dal ‘68/’69 e dalle crisi economiche degli anno ’70 e ’80).
Punto secondo: le classi lavoratrici dei paesi produttori, insinua B.C., non possono trarre comunque alcun vantaggio da una ripartizione della rendita petrolifera meno squilibrata a favore dell’imperialismo, dal momento che non vivono di rendita ma del proprio lavoro. Lo si può sostenere solo facendo scomparire la lotta di classe nei paesi oppressi. Ma l’esperienza storica mostra come le classi sfruttate arabo-islamiche abbiano preso parte a pieno alla contesa intorno al petrolio, non consentendo alle vecchie e nuove classi proprietarie locali di confiscare per sé gli accresciuti introiti. La lotta anti-imperialista di massa è stata sempre (a partire, nel mondo dal Messico 1917-1938, e per il medio oriente dalla stessa tiepida "rivoluzione costituzionale" di Mossadeq in Iran 1951-1953) parte costituente e determinante dello scontro di classe, internazionale e locale insieme (B.C. non vede né l’uno né l’altro) per la ripartizione della rendita petrolifera. Il movimento delle nazionalizzazioni più radicali è stato tutt’uno con la scesa in campo degli sfruttati arabi e medio-orientali (mai sentito parlare della detronizzazione per via insurrezionale della monarchia hashemita in Iraq ? della guerra di liberazione nazionale algerina ? della "rivoluzione dall’alto" e però non senza una forte ondata di lotte anche operaie in Libia ? del movimento nazional-rivoluzionario palestinese ? etc.) e più ancora lo sono state le congiunture (1973, 1979, 1990) in cui si è materializzata la spinta al rialzo del prezzo del petrolio, momenti centrali della fase di trapasso dal primo al secondo tempo della rivoluzione democratico-borghese nel mondo arabo-islamico.
Le masse lavoratrici medio-orientali, tengono giustamente per fermo che da prezzo del petrolio stracciato hanno solo da perdere, mentre la conquista di un pur parziale controllo delle quantità e dei prezzi del petrolio strappata conflittualmente all’imperialismo dei paesi esportatori può ridondare a loro concreto vantaggio, alla condizione di far valere con la lotta anti-borghese le proprie necessità. L’"estremismo" contrappone la "pura" lotta anti-borghese agli "inutili stermini" della lotta anti-imperialista, salvo a sabotare di fatto (per la propria insipienza e impotenza) l'una e l'altra. Il marxismo, invece, dice: e la lotta direttamente anti-borghese e la lotta anti-imperialista delle classi sfruttate (essa pure, in altra guisa, anti-capitalista) e lavora per la loro unificazione.
Affermare, poi, che le masse arabe e mussulmane debbono "non poco della loro fame" agli alti prezzi del petrolio, e cioè ad una delle più dirompenti rivendicazioni della loro battaglia anti-imperialista, è pure provocazione. Certo, la rovina dei paesi esportatori di petrolio è scaturita dalla loro fortuna, coincisa con il breve intermezzo di prezzi controtendenzialmente in ascesa. Ma perché l'una cosa s'è risolta nel suo contrario? Perché contro il provvisorio successo dei paesi oppressi produttori s'è scatenata una ininterrotta controffensiva imperialista, nella conduzione della quale, non fidandosi della sola "mano invisibile" del mercato, Stati Uniti ed imperialismo occidentale tutto, stanno impiegando l'intera panoplia delle proprie armi. Tacerlo è esserne complici.
L'alto prezzo del petrolio, ci si oppone ancora, ed è il terzo punto, "non favoriva certo i paesi arabi debitori e non produttori" ed i paesi poveri nel complesso. Falso. In generale in quanto ogni rialzo del prezzo del greggio provoca un abbassamento del saggio e della massa dei profitti delle multinazionali occidentali, e (la politica è economia concentrata) un colpo alla dominazione del capitale imperialista sui paesi poveri (e sul proletariato delle metropoli; ed in quanto l'aumento del petrolio si ripercuote in positivo sul prezzo medio, altrimenti "spontaneamente" cedente, dell'insieme delle materie prime. E' falso nello specifico della situazione dei "paesi arabi debitori e non produttori" di petrolio, per cui s'accorano (prima di "Prometeo" -V) quei fior di galantuomini degli opinion makers. Pressoché tutti questi paesi dipendono infatti anch'essi, a loro volta, dall'esportazione di materie prime. Il valore totale delle esportazioni. Per la Tunisia, il 61% (petrolio: 42%; fosfati: 14%). Per l'Egitto, se ad esso incautamente si volesse alludere, è addirittura l'86% (tra petrolio, cotone ed altre materie prime agricole).Per il Marocco è il 75% (fosfati: 55%), e si può ricordare, a riguardo, quel che scriveva "Programme communiste", n. 82 dell’aprile 1980 nell'articolo di chiusura della serie su L'afrique proie des imperialimes: "Envrée par l'exemple du pétrole, la bourgeisie marocaine en a profité pour quintupler en lespace d'un an (1974) le prix de son phosphate, le faissant passer de 13 a 68 $ la tonne". Le stesse modeste esportazioni della Giordania sono composte di fosfati, pellami e primizie agricole (non certo di beni manifatturieri), mentre lo Yemen unificato (prossimo esso pure, sembra, all'estrazione di petrolio) non esporta al momento che forza-lavoro nei paesi petroliferi, ed è quindi interessato per altra via all'incremento delle loro risorse e del loro sviluppo. I dubbi "antimperialisti" che hanno tuonato contro l'Iraq redditiera affamatrice dei paesi poveri "dimenticano", inoltre, la piccolissima differenza che corre tra il consumo di greggio dei paesi industrializzati e quello del "Terzo Mondo". Il primo (includendovi Russia ed Est-Europa) ammonta all'80% del consumo mondiale, il secondo al 20% (l'entità della rispettiva popolazione è all'incirca l'inverso). Il consumo medio annuo pro-capite è negli USA di 8 Tep (tonnellate equivalenti petrolio), in Africa di trenta volte inferiore.... Questi i rapporti materiali reali che, si sa, per B.C. e l'indifferentismo in genere, non contano.
La tesi che la guerra del Golfo 1990-'91 si sia svolta "lungo linee interne ai contrasti inter-imperialistici" è di una inconsistenza (per non dire altro) assoluta. Pare affiorarne per un istante il sospetto anche in "prometeo"-V, che contrappone (con un eccesso di schematismo, comunque) la crisi petrolifera recente a quella del 1973-'74. Allora, nota, "gli Stati Uniti non mossero un solo marine", oggi "è scoppiato il finimondo", nonostante "anche nell'ipotesi più favorevole a Saddam Hussein non si sarebbe potuto produrre" un cambiamento del prezzo del petrolio "simile a quello del 1975-'74". Già. Cosa vuol dire? Non dice nulla il fatto che contro l'Iraq fosse schierata compatta e in armi (o marchi e Yen) la totalità del capitale finanziario mondiale? E che a questa compattezza siano state ricondotte senza difficoltà le stesse compagnie petrolifere statunitensi e dei "centri finanziari più interessanti ad un regime di tassi di interesse sul dollaro più elevati"... Essendosi trattato di una guerra (o no?), e schierandosi nelle guerre esercitati, ci si può indicare dove erano le armate della (presunta) parte del capitale imperialista schierato con l'Iraq? Qualcuno dei nostri "contraddittori", per i quali è scontato che la guerra era imperialista su ambo in fronti come le due guerre mondiali, è in grado di spiegare la piccola particolarità per cui in questa guerra -ma non certo in quelle mondiali il rapporto di perdite umane tra i due fronti è stato di 1:1.000? e perché mai non poteva neppure essere presa in considerazione l'ipotesi di una vittoria dell'Iraq?
Siamo di continuo riportati, come si vede, a quella netta distinzione tra "nazioni oppresse, dipendenti e prive dei loro diritti" e nazioni "oppressive, sfruttatrici pienamente sovrane" che per la III Internazionale è essenziale alla compressione dell'imperialismo ed alla lotta per il comunismo, e che B.C., C.C.I. e nuovi adepti dell'"estremismo hanno cassato. Per "Prometeo"-V, ad esempio, l’imperialismo è "l'era (...) dell’incontrastato dominio del capitale finanziario, sulla manovra del quale i fini più o meno produttivi o speculativi, vivono e ingrassano le borghesie del mondo intero, compresa quella irachena".
Dunque: "dominio del capitale finanziario"; ma su cosa? Se è vero che all'"asservimento coloniale e finanziario" di "un millennio addietro" si è costituita la universale partecipazione agli utili del capitale finanziario di tutte le borghesia (ed i paesi) del mondo, allora la risposta non può che essere: domina su se stesso, ripartisce se stesso tra sé e sé. Assurdità. E non ci si opponga che tutte le borghesie dominano e sfruttano il proletariato: è banale (purché non si pensi che lo facciano ovunque nell'"identico" modo, il che non è), ma non è di questo che si sta discutendo, e comunque non sarebbe certo specifico dell'"era imperialista". Nella definizione c'è poi una seconda assurdità: l'imperialimo è visto come un semplice sistema di relazioni tra borghesie, e non anche tra paesi con le rispettivi articolazioni della struttura sociale, un sistema in cui le relazioni tra le diverse borghesia in nulla incidono sulle rispettivi società. Così, se prima era scomparsa, nei paesi terzi, "soltanto" la lotta di classe degli sfruttati, ora scompaiono gli sfruttati stessi.
Ancora una citazione "chiarificatrice": "Le guerre anticoloniali, peraltro rese impossibili dall'affermarsi delle forme moderne del dominio imperialistico da almeno 60 anni (11), presuppongono una borghesia nazionale portatrice di un interesse autonomo il cui affermarsi danneggia e indebolisce la potenza imperiale". Ciò significa due cose, l'una più sbagliata dell'altra: che nelle colonie (o semi-coloniale) solo la borghesia nazionale fosse portatrice di un interesse anti-imperialista (come spiegarsi, allora, quell'evento di formidabile portata storica che è stata la rivoluzione cinese?); che le "forme moderne" del "dominio imperialista" (inutile ri-chiedere: su cosa?) non riproducono oppressione nazionale e "coloniale" o, ammesso per ipotesi che le riproducano (a proposito: donde nasce la fame di massa che pure B.C. riesce ad intravedere "laggiù"?), rendono comunque impossibile la guerra anti-imperialista, perché la borghesia nazionale etc. etc.
Dopodiché, "Prometeo"-V, che riduce metodicamente i paesi oppressi allo loro borghesia e null'altro vede di classi distinte ed agenti; e che scrive: "se il proletariato si schiera con i popoli e dunque con la borghesia dell'altro"; attribuisce all'OCI la confusione tra masse proletarie, nazioni e governi borghesi. Alla faccia! Ma davvero noi si parla di "generico Occidente" dominatore e di "generiche masse" dominate? Non ci pare proprio. A proposito: quando Lenin parlava di social-imperialismo all'intento della classe operaia, confondeva forse questa con la borghesia metropolitana considerandolo come un generico sol blocco tutto quanto "infetto"?
Andiamo avanti: la contestazione secondo cui l'OCI avrebbe fatto rientrare dalla finestra "le nazioni cacciate dalla porta del marxismo" (saremmo quindi nel contempo ammuffiti iper-tradizionalisti e spericolati novatori) è anch’essa molto bizzarra. Bizzarra per quel che riguarda l’OCI, pesante -se fosse vera- per quel che riguarda il marxismo. Dottrina rivoluzionaria che, per suo determinismo economico, nulla ha in comune con il volgare wishful thinking, e pertanto mai si è sognata di poter illuministicamente proscrivere dalla storia e dalla teoria una questione come quella nazionale che la realtà del capitalismo di continuo, in forme mutanti, riproduce. L'oppressione nazionale affonda le sue radici nel processo di formazione delle nazioni mercantili (l'attuale arretratezza della Dalmazia, tanto per dire, ha non poco a che vedere con i fasti della Serenissima, che a sua volta -prima forma del processo di concentrazio9ne internazionale delle ricchezze ad opera del nascente capitalismo-deve non poco al monopolio del sale imposto ai dalmati, alla distruzione delle locali industrie dell'olio e della seta, agli ostacoli posti all'istruzione popolare di quelle popolazioni, etc.), nel processo di formazione dell'industria moderna (l'accumulazione originaria dell'Inghilterra è avvenuta anche in Irlanda, nelle Indie, etc..) ed infine nella costituzione del capitalismo imperialista (e non soltanto per la sua seconda "accumulazione originaria" via colonialismo, ma pure, in forme più sofisticate e dispotiche, per la sua "ordinaria" riproduzione).
Pertanto la questione potrà essere realmente superata soltanto quando lo sarà anche il modo di produzione capitalistico. Non basterà a rimuoverla, prevedibilmente, la "semplice" instaurazione della dittatura sovietica internazionale e l'avvio della riorganizzazione socialista dell'economia mondiale. Abbisognerà che questa riorganizzazione sia riuscita ad eliminare completamente le cause materiali dell'oppressione nazionale, ed anche allora (ma sarà fatica "più dolce") non si potranno emettere soltanto ukase rivoluzionari contro le anacronistiche sopravvivenze psicologiche di un problema sul piano storico risolto (e state pur certi che lo "spirito" nazionalistico più duro a perire sarà quello sciovinistico ancora presente nelle ex-nazioni imperialiste).
Così stanno le cose, né con Marx, né con Lenin e la III Internazionale, né con la Sinistra comunista (quella autentica) il marxismo ha "cacciato dalla porta" le nazioni. Ha -è tutt'altra cosa- subordinato la questione nazionale alla rivoluzione proletaria. E felix culpa è quella di B.C. se ci sollecita ad una ennesima ripassata del problema.
Lenin sulla posizione di principio di Marx e del marxismo: "Nel 1864, mentre prepara l'indirizzo dell'Internazionale, Marx scrive a Engels (4 novembre) che bisognerà lottare contro il nazionalismo di Mazzini. 'Quanto all'internazional politics che vi è nell'indirizzo, parlo di countries (paesi), non di nationalities, e denunzio la Russia, non le minores gentium' scrive Marx. Che la questione nazionale sia subordinata alla 'questione operaia' è cosa indiscutibile per Marx. Ma la sua teoria è lontana, come il cielo dalla terra, dall'ignorare (c.n.) i movimenti nazionali" (Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in Opere complete, vol. 20, pp. 415-6).
Ancora Lenin su Marx, il proudhonimso e l'internazionalismo socialista: "Marx, contrariamente ai proudhoniani che 'negavano' la questione nazionale 'in nome della rivoluzione sociale' (chiaro il qui pro quo di B.C.? -n.), mise in primo piano, tenendo conto anzitutto degli interessi della lotta di classe del proletariato nei paesi avanzati, il principio fondamentale dell'internazionalismo: un popolo che opprime altri popoli non può essere libero" (La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione, in O.C., vol. 22, pp. 153-4).
Che si rassegni l'indifferentista: non è al marxismo che può appellarsi per avere man forte nella sua idealistica ripulsa della questione nazionale. Nel marxismo la presa in carico della lotta contro l'oppressione nazionale è legata alla lotta contro il nazionalismo borghese (e non è, come fraintende il purismo, accodamento al carro nazionalista).Ed è una lotta nella quale il partito comunista entra non principalmente per la liberazione dei popoli oppressi (semplice momento di passaggio a -se si vuole- coadiuvante energetico della battaglia rivoluzionaria del proletariato); vi entra anzitutto proprio nell'interesse della "lotta di classe del proletariato nei paesi avanzati", che dalla oppressione su altri popoli o paesi è impedita e "corrotta" e dai colpi che i movimenti nazionali assestano a questa oppressione esce rigenerata: "è interesse assoluto e diretto della classe operaia inglese liberarsi dell'attuale vincolo con l'Irlanda. (...) La classe operaia inglese non farà mai nulla (in quanto classe "per sé" -n.), prima che si sia liberata dell'Irlanda." (Lettera di Marx a Engels del 10 dicembre 1869, in Carteggio, vol. V. pp. 448-9; i corsivi sono di Marx).
Le "stravaganze" della dialettica materialista non finiscono qui. Sentiamo a riguardo Bordiga: "Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire in senso opposto, ovunque e sempre, alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe al negazione 'metafisica', ossia parte dai fattori classisti (come già abbiamo visto in Marx n-.) per giudicare a risolvere il problema nazionale. L'appoggio ai movimenti coloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe (c.n.) che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con un'opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l'appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti della metropoli (Prometeo, n. 4, p. 84).
"Cacciare le nazioni" dalla dottrina dalla politica del proletariato, per la porta o per la finestra (del mondo dei desideri) che sia, è pura affabulazione. Per il marxismo si tratta, invece, di inquadrare e scioglierla questione dell'oppressione nazionale secondo i criteri programmatici ed i metodi d'azione propri del proletariato rivoluzionario. Questi comportano e provocano l'attizzamento della lotta di classe (altro che confusione tra masse, nazionali e governi!) sia nelle metropoli che nelle colonie, rendendo necessaria e possibile qui e lì), nei differenti e interagenti contesti, l'autonomia dell'organizzazione comunista da un lato nei confronti dell'imperialismo e dall'altro nei confronti del nazionalismo anti-imperialista. Effetto antitetico ha la rinuncia predicata dall’estremismo" ad appoggiare incondizionatamente i movimenti coloniali: ai due poli della unitaria catena che tiene in ceppi gli sfruttati, si rafforzerà il nazionalismo (in ambedue le forme "diseguali e combinate"), si approfondiranno le divisioni non tra le classi bensì dentro la nostra classe e il nostro fronte, e per i comunisti diventerà oggettivamente più arduo raggiungere e conservare l'indipendenza del partito di classe.
L'affermazione di Bordiga aiuta a capire quale beffa gli "internazionalisti puri" giochino a se stessi. Essi si auto-rappresentano come le vestali della "rivoluzione internazionale", del "programma comunista", del "partito comunista", insomma del soggetto rivoluzionario. Ma la loro incomprensione dell'oggettività, della logica interna e della dinamica del processo storico, li condanna ad essere d'impaccio proprio ed anzitutto rispetto alla "costituzione della classe in partito" internazionale ed internazionalista.
Come la C.C.I. di aveva opposto, piuttosto maldestramente, una citazione di Marx, B.C. ritiene di doverci richiamare alla mente I fattori di razza e nazione nella teoria marxista. Sarà bastante la lettera del primo paragrafo di questo classico rivoluzionario per verificare in quale clamoroso autogol incorra B.C.
"Il metodo della sinistra comunista italiana ed internazionale -esordisce Bordiga -nulla ha mai avuto di comune con il falso estremismo dogmatico e settario che pretenderebbe con vuote negazioni verbali e letterarie di superare forze presenti nei reali processi della storia" (corsivo nell'originale). Di questa forza "il marxismo rivoluzionario perfettamente ortodosso e radicale" riconosce, invece, di contro alle "vuote insinuazioni" degli avversari opportunisti della Sinistra, l'"importanza presente" (siamo al 1953, non più al 1864, né al 1914). Per esso è vero nonsense anche per il futuro prefigurarsi una situazione sociale "pura" nella quale si trovino a fronteggiarsi esclusivamente "le forze pure del capitale moderno e degli operai di azienda". Una assurdità, si badi bene, non soltanto in riferimento alle aree arretrate, ma anche per i paesi "più densamente industriali". Una situazione del genere (è più o meno quella a cui l'indifferentismo accosta il mondo d'oggi, anche nei paesi oppressi) "non si verificherà mai in nessun luogo". Altrettanto perentorio la conclusione, che non suona come sconfessione dell'OCI: "E' dunque una pura scempiaggine dire che essendo il marxismo la teoria della moderna lotta di classe tra capitalisti ed operai, ed il comunismo il movimento che conduce la lotta di classe del proletariato, noi neghiamo effetto storico alle forze sociali di altre classi, ad esempio contadini, e alle tendenze e pressioni razziali e nazionali, e nello stabilire la nostra azione trascuriamo come superflui tali elementi. " (pp. 11-12).
Come vedremo oltre replicando a "Programma com.", il lavoro del 1953 fu soltanto l'inizio di una indagine e di una battaglia intorno alle nuove forme dell'oppressione imperialista nella fase successiva al crollo del colonialismo, che ha valore tanto di bilancio storico-politico della questione che, e più ancora, di indirizzo di metodo e di programma per i nostri tempi. Qui, a mò di anticipazione, facciamo commentare una tantum Bordiga da Lenin. Polemizzando una volta di più con i compagni polacchi sulla questione dell'autodecisione, Lenin spiega che con l'ingresso nella fase imperialista del capitalismo la situazione è certamente cambiata in Europa, rispetto alla seconda metà dell'800.Allora l'intreccio tra rivendicazioni nazionali e programma specificamente proletario e socialista era più stretto; con il passaggio all'imperialismo la situazione è diventata indubbiamente, in Occidente, "più pura". Tramonta, perciò il problema dei "movimenti nazionali contro l'imperialismo"? La tesi marxista è opposta, e di certo sconcertante per la "logica" lineare dell'indifferentismo: "Quanto più pura (sempre in senso relativo -n.) è ora la lotta del proletariato contro il fronte generale imperialista, tanto più imperioso diviene, è ora la lotta del proletariato contro il fronte generale imperialista: 'Non può essere libero un popolo che opprime altri popoli'" (Risultati della discussione sull'autodecisione, in O.C., vol. 22. p. 340). In fatto di lotta di classe "pura" e complicazioni razziali, nazionali e "non proletarie" in genere può bastare.
Anche la critica che B.C. ci muove a riguardo dell'islamismo è frutto di macroscopici fraintendimenti. L'Oci, scrive "Prometeo" -V, (eleva) addirittura l'islamismo a fattore misteriosamente rivoluzionario. Forse perché come fede dei poveri e descrive Allah come protettore dei poveri? O perché altro?? Bordiga ebbe a scrivere un libro intitolato "I fattori di razza e nazione nella teoria marxista", non sognandosi di inserire anche i fattori religiosi. Forse l'Oci provvederà ai dovuti aggiornamenti".
L'OCI, tanto per cominciare, non ha elevato un bel nulla, dacché l'Islam è stato un fattore realmente rivoluzionario. Si vuole una citazione classica? Eccola: "Il maomettanesimo, codificato nel Corano, fu l'ideologia della rivoluzione sociale delle popolazioni nomadi del deserto, dedite all'allevamento del bestiame in periodi nomali come all'esercizio della razzia, che si levarono contro la potente oligarchia mercantile imperante nella Mecca. (...) Per le speciali condizioni storiche in cui si svolse, la rivoluzione maomettana non potrà che essere una applicazione in dimensioni collettive della razzia beduina, cioè inferiore di espropriazione della ricchezza. La "guerra santa" islamica fu, in origine, una guerra sociale contro l'usura e la prepotenza della ricchezza." (Il programma comunista, n. 5/1958; a giudicare dallo stile, a scrivere è proprio chi non si è sognato di "inserire i fattori religiosi" nel computo di quelli rivoluzionari, e se anche fosse diversamente ancor meglio: la impersonale tesi marxista è, comunque, questa).
Anche il cristianesimo ha avuto una funzione storica rivoluzionaria prima (e, a scala geografica e sociale assai più limitata, anche dopo) della sua trasformazione instrumentum regni delle classi sfruttatrici dal IV secolo d.C. in poi. Ne ha parlato Engels in Per la storia del cristianesimo primitivo e ne La guerra dei contadini in Germania. Nel primo caso, tracciando addirittura un parallelo tra il cristianesimo delle origini (portatore di un'istanza di "'socialismo'. per quanto era allora possibile") ed il movimento proletario: "La storia del cristianesimo primitivo offre notevoli spunti di contatto col movimento operaio moderno. Come questo, il cristianesimo era all’origine un movimento di oppressi: si manifestò dapprima come religione degli schiavi e dei liberti, dei poveri e dei senza diritti, dei popoli soggiogati dispersi da Roma (c.n.). Entrambi, cristianesimo e socialismo operaio, predicano un imminente riscatto dalla schiavitù e dalla miseria; (...) Entrambi sono perseguitati e braccati...", fermo restando che 'accostamento storico non autorizza estrapolazioni misticheggianti. Nel secondo caso, Engels, trattando della rivoluzione tedesca del 1525, ha messo in evidenza che le eresie plebeo-contadine e l'energica ala estrema del movimento insurrezionale guidata dal teologo "proto-comunista" Munzer vi svolsero, sotto peculiari insegne religiose, un ruolo sociale e politico di avanguardia. E la stessa cosa può dirsi per i movimenti ereticali popolari del tardo medio evo e del primo0 rinascimento in Inghilterra, Boemia, Francia, etc., che andarono all'attacco, ora fisico ora "simbolico", di ordinamenti economici sorpassati e dissodarono il terreno per la fioritura (rivoluzionaria, rispetto al feudalesimo) della moderna società borghese.
Questo, quanto al "fattore religioso" come forza, in passato, rivoluzionaria. Ma, ancora una volta, la questione cui la contestazione di "Prometeo" -V rimanda è una questione teorica basilare: cosa è, in cosa consiste il "fattore religioso"? Esso è nient'altro che un "prodotto sociale" (VII Tesi su Feuerbach), il risultato, nel cervello e nel mondo dei sentimenti, di dati rapporti sociale materiali. Per il marxismo le fantasie religiose, come le idee in genere, "non cascano dal cielo" nelle umane testoline; vi arrivano, attraversando parti poco "nobili", dalla direzione opposta, dalla sottostruttura economica della società, certo attraverso la mediazione di uno specifico lavoro intellettuale, che è però esso stesso socialmente determinato da interessi e bisogni materiali. di conseguenza, la storia e la funzione delle religioni e del "fattore religioso" possono essere comprese soltanto a partire dalle concrete relazioni produttive, di proprietà, tra i popoli, etc., da cui tutte le forme di falsa coscienza originano, e non viceversa. L'oppressione religiosa, ha affermato Lenin, va spiegata con l'oppressione economica.
Il comunismo materialista, a differenza del "comunismo anarchico, etico, "puro", ritiene che l'unica lotta contro le illusioni religiose delle masse che sia realmente efficace ed utile ai fini della unificazione rivoluzionaria del proletariato è quella diretta contro le forze oggettive generatrici di esse. ' ancora per calcolo materialistico (non per espediente tattico) che il movimento comunista, pur lavorando alla diffusione dell'unica forma di ateismo completamente scientifica, non ha mai spinto in primo piano la lotta alla religione in quanto tale. Anzi, ha sempre diffidato di un certo laicismo di stampo borghese democratico (e talora socialisteggiante) che scinde la "lotta" alle credenze o istituzioni religiose dalla lotta di classe e con la sua artificiale pompatura del "fattore religioso" esercita appunto un'azione di blocco e di diversione interclassista della lotta operaia, salvo poi essere disposto a rappacificarsi in un battibaleno con i suoi "acerrimi nemici" clericali ove fosse da salvaguardare lo spiritualismo bene per entrambi intangibile: il capitalismo.
Venendo al dunque politico: noi non sosteniamo affatto che l'Islam contemporaneo sia, in nessuna delle sue varianti, un fattore rivoluzionario. Lo stesso Islam militante di fine XX secolo non è, non può essere, checché dica di se stesso, il doppio della rivoluzione maomettana. Completamente cambiati sono il contesto storico-sociale e le forze di classe a confronto, nonostante sia comune ad entrambi la forza di astrazione sulle masse povere. L'Islam contemporaneo, incluso quello più radicale, è ormai pienamente sussunto, come le altre religioni, alle necessità del capitalismo. Ed in questo senso la sua funzione non può che essere, in generale, reazionaria come reazionario è divenuto il capitalismo. E lo sarebbe doppiamente ove fosse per assurdo possibile, come predicano talune tendenze islamiche, un ritorno all'indietro al barbarico mercantilismo "egualitario" dell'Islam dei primordi.
Noi sosteniamo qualcosa di molto diverso da ciò che B.C. capisce: e cioè che, per ragioni niente affatto misteriose, un certo movimento islamico si trova ad essere il (provvisorio) contenitore di una forza sociale rivoluzionaria composta da masse di sfruttati arabo-islamici. E che compito dei marxisti è anzitutto di comprendere (ecco il dovuto aggiornamento dell'analisi compiuto secondo un metodo invariante) come mai, in una vastissima regione afro-asiatica, il messaggio dell'Islam militante si presenti a masse di diseredati come un messaggio radicale di lotta all'imperialismo.
La chiave per sciogliere l'enigma sta nella plurisecolare dominazione capitalista e imperialista dell'Occidente sulle aree tradizionalmente appartenute alla civiltà islamica. "La miseria religiosa -ha scritto Marx- è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale". La peculiarità di un dato islamismo è esattamente questa: esso esprime una istanza borghese di affrancamento del mondo arabo-islamico dal sottosviluppo in cui l'ha piombato l'imperialismo. Una istanza effettivamente "anti-imperialista", ma a tal punto misera e disposta al compromesso da ricorrere prudentemente alle fuorvianti maschere religiose del passato per evitare di chiamare col proprio nome gli interessi materiali in conflitto.
L’adesione di masse di oppressi a questo islamismo che proclama, pur demagogicamente, la "guerra santa" all’imperialismo, si spiega non con la loro arretratezza culturale (come pensa l'indifferentista che li scruta supponente dall'alto in basso della propria "coscienza laica"), ma con la loro fisica urgenza di unirsi e di combattere contro l'imperialismo. Esse si radunano intorno al solo "partito" che a tanto sembri disposto, conferendogli un connotato marcatamente plebeo che lo differenzia sia dalle correnti islamiche moderatamente riformatrici che dal tradizionalismo più formalistico.
Noi né accreditiamo tale islamismo, né lo fiancheggiamo, né -tanto meno- lo sosteniamo. Abbiamo ripetuto una quantità di volte che, anzi, l'ideologia islamica e le dirigenze islamiche non fanno altro che bloccare e deviare dall'interno (vedi Iran, Libano, Algeria, etc.) il movimento anti-imperialista. Quando affermiamo che l'"anti-imperialimo" islamico (o quello di Saddam Hussein) sono inconseguenti, non diciamo affatto che l'anti-imperialismo proletario possa fare con esso un tratto di strada in comune per poi dividersi. Già nella lotta "congiunta" con la borghesia rivoluzionaria contro il sistema feudale, il proletariato comunista si guardò bene dal rinunciare alla propria separata identità. Tanto più non può farlo nella rivoluzione democratico-borghese anti-imperialista la cui potenzialità di trasbordare dalla limitatezza nazionale e di agire da innesco della rivoluzione socialista internazionale è e diventa enormemente maggiore.
La prospettiva comunista e quella islamica sono dall'inizio alla fine contrapposte, ma questa contrapposizione non può che svolgersi nel movimento reale, e questo movimento, in assenza di un punto di riferimento marxista ovvero per il pauroso stato di arretratezza politica della classe operaia dei paesi imperialisti, assume spesso (non si esageri nel generalizzare) colorazioni islamiche. Tale la complicazione con cui fare i conti. Ed il conto non sarà in rosso per noi soltanto se la lotta anti-imperialista ed anti-borghese si estenderà e si radicalizzerà. E' soltanto lo sviluppo della lotta di classe contro i nemici terreni interni ed "esterni" che potrà consentire alle masse sfruttate (potenziale rivoluzionario) di separarsi dai "falsi profeti" della loro liberazione (contenitore reazionario). E' questo il terreno su cui inesorabilmente si brucia, nello scarto tra proclamazioni e realtà, il credito del pretume islamico ( o di altra fede). Un decennio e poco più di lotta sociale e nazionale in Medio Oriente ha tolto al khomeinismo, in Iran e fuori, un bel pezzo della sua aureola "rivoluzionaria". Ed è soltanto l'isolamento dell'insorgenza delle masse arabo-islamiche dal proletariato occidentale che continua a consegnarle, come al "meno peggio", all'islamismo o all'arabismo alla Saddam.
Questo isolamento va spezzato, e lo si può spezzare da qui soltanto con la ripresa della lotta al nostro imperialismo ed all'imperialismo occidentale tutto ed il sostegno alla rivolta degli oppressi del mondo islamico senza precondizioni alcuna "qualunque sia la loro bandiera immediata, PURCHÉ COMBATTANO" (ricordate la CCI? "Purché si arrendano"...). Ed in particolare senza la precondizione sciovinista, esplicita o implicita che sia, che essi abbandonino preliminarmente la loro fede nell'Islam o la propria cultura.
Il proletariato e le masse lavoratrici arabo-islamiche (come i lavoratori polacchi e quanti altri) verranno a capo della propria "miseria religiosa" a misura che si batteranno contro la schiavitù della propria "miseria reale". Ben lo sapeva l'Internazionale comunista quando, senza dimenticare l'esistenza (e la difficoltà) di differenze sociali e cultural-religiose tra Occidente ed Oriente, chiamò masse oppresse ben altrimenti arretrate di quelle che oggi combattono in Medio Oriente ad unirsi al proletariato di Occidente in una comune, vera e risolutiva jihad di classe degli sfruttati di ogni razza e colore contro l'imperialismo e le classi sfruttatrici di tutti i paesi, ricevendone entusiastico assenso. Sentite come affrontava il problema Zinoviev nella sua relazione al congresso dei popoli dell'Oreinte a Baku: "Il movimento diretto da Kemal volle liberare dalla mani dei suoi nemici la 'persona sacra' del califfo. E' questo un punto di vista comunista? Certamente no. Ma noi rispettiamo lo spirito religioso delle masse e sappiamo dare loro un'altra educazione. Ciò richiede lungi anni di lavoro. Noi affrontiamo con prudenza e circospezione le credenze religiose delle masse lavoratrici dell'oriente e degli altri paesi. Ma è nostro dovere dire a questo congresso: il governo di Kemal Pascià sostiene in Turchia il potere del sultano; voi non dovete farlo, indipendentemente dalle vostre considerazioni e motivazioni religiose. Dovete andare avanti (nella lotta contro i nemici di classe, siano essi o meno 'persone sacre' -n.) e non lasciarvi trascinare in dietro verso il passato (c.n.). Presto, pensiamo, suonerà l'ora suprema per i sultani; nell'attesa, non dovete tollerare alcuna autocrazia (c.n.). Sta a voi distruggere la fede (mondana, politica -n.b-) nel sultano ed edificare autentici soviet".
Questa la impostazione materialista, classista e realmente internazionalista del rapporto tra movimento comunista e masse rivoluzionarie islamiche. Non dovrebbe esser troppo difficile da capire che l'OCI non l'ha affatto aggiornata, ma si è limitata a riproporla integralmente. Che poi tutto ciò risulti... arabo per dei dissidenti cronici dal marxismo (a proposito di dissidenze...), non è da meravigliare.
***
Un qualche (desolante) sorpresa ha suscitato in noi, invece, il sostanziale allineamento di "Programma comunista" alle posizioni del più "puro" ed estremo indifferentismo, quello (coerente, invece, a se stesso -bisogna riconoscerlo) di cui si ebbe a leggere su Il programma comunista, nn.1-2/1961: "L'indifferenza di fronte ai movimenti anti-colonialisti più che un errore politico è un crimine".
Anche il neo-indifferentismo di P.C.si poggia sulla incredibile promozione dell'Iraq e di tutti gli Stati arabi (incluso -aggiunge la CCI- quello palestinese a nascere, che è il più insidioso di tutti per le masse arabe in quanto meglio può nascondere -e ci credo: più nascosto di così!- la propria reale natura imperialista) al rango di stati imperialisti. La "occupazione" irachena del Kuwait è stata, per P.C., un "brutale episodio di rapina imperialistica", dettato dall'esigenza del regime di Baghdad "di assicurarsi, come già attraverso la guerra con l'Iran, un più ampio sbocco al mare, e di tagliar corto con le dispute sul petrolio con lo Stato vicino occupandone i pozzi" (n.6/1990). Uhm, qualcosa non quadra. Cos'è che permetterebbe di qualificare di imperialista l'iniziativa irachena del 2 agosto? Restando sul terreno della concezione marxista dell'imperialismo, non conta nulla, è noto, quale stato abbia mosso per primo le truppe, essendo decisiva, invece, la natura degli interessi in gioco. Ora, per uno Stato borghese non è affatto di per sé imperialistico "cercare un più ampio sbocco al mare"; anzi questo specifico interesse è piuttosto un obiettivo indizio di dipendenza dall'imperialismo, essendo tratto distintivo di una potenza borghese effettivamente imperialista battersi per il dominio dei mari (al plurale). E neppure si può identificare la sostanza dell'imperialismo capitalistico con il metodo della soluzione violenta delle controversie pendenti con gli stati "vicini", poiché il capitale imperialista ha come campo d'azione, per sua essenza, il mondo intero.
Non si può appiccicare l'aggettivo imperialista ad ogni capitale e ad ogni stato borghese. Esso ha, nella lingua del materialismo storico, un significato assai più preciso, in quanto sta a designare, se riferito all'epoca capitalistica, ogni movimento di capitali, di diplomazie, di forze armate (anzitutto dominanti mari e cieli), di idee e di ideologhi, etc., che sia organicamente legato al capitale finanziario ("Per l'imperialismo non è caratteristico il capitale industriale, ma quello finanziario") ed alla "attività" che questo esercita in regime di monopolio: la lotta per la spartizione e rispartizione del mercato mondiale. Che sia alquanto comico configurare l'Iraq quale socio "alla pari" o quasi ("minore") del "pugno di stati usurai" sovrani di cui ha parlato Lenin per l'intera fase storica imperialista (e non per il 1916 e dintorni), l'abbiamo già visto. E allora? allora, anche i redattori di "Programma" si fanno portatori di un'accezione almeno dozzinale del termine imperialismo che lo pone -la cosa non è nuova- come equivalente di generico espansionismo. E poi, peggio ancora, finiscono per commisurare l'"espansionismo" iracheno su quello status quo, su quel "diritto internazionale" che mille volte, a ottima ragione, hanno chiamato imperialista. Infatti: quale forza sociale ha determinato la nascita, "vicino" e -non dimentichiamolo- da e contro l'Iraq e, su altro piano, contro l'unità degli sfruttati arabi, dello "stato" del Kuwait? La forza materiale di un inesistente popolo o nazione kuwaitiani, oppure quella di stati imperialisti (Usa, Gran Bretagna) onnipresenti, onniconfinanti e ovunque dettanti (e violanti) confini? E non sono stati forse questi stessi stati, per conto del capitale d'essi rappresentano a privare l'Iraq, in un... "brutale episodio di rapina imperialistica", di "un più ampio sbocco al mare" o, per l'esattezza, di un qualunque sbocco al mare per navi che non fossero le giunche di Sindibad il marinaio? ed a fare dello staterello-fantoccio degli al-Sabah, degli Emirati, dell'Ar. Saudita, etc., docili strumenti di aggressione permanente, per conto dell'imperialismo, al processo di unificazione rivoluzionaria del Medio Oriente?.
Ci è stato opposto che anche l'Iraq è uno stato artificiale. Verissimo: tutte le frontiere medio-orientali e, in generale, le frontiere tracciate nell'epoca imperialista, diversamente dalle "frontiere naturali" delle grandi nazioni europee, sono artificiali. Pressoché tutte fanno (studiata) violenza alla comunanza di razza e di lingua (quelle dell'Iraq la fanno a nord ai curdi ed a sud all'Iraq stesso, non anche, però, alle popolazioni arabe della regione di Bassora, a meno di voler sposare il criterio degli stati confessionali). Ma cosa vuol dire? Che la divisione imperialistica del Medio Oriente" di cui anche "Programma" parla (a proposito: divisione di cosa da parte di chi?) è diventata intangibile? O non è vero, piuttosto, che essa è sempre più intollerabile non per i soli palestinesi ma per l'intero esercito degli struttati arabo-islamici che vede in essa, giustamente, la causa prima della propria condizione di oppressione e di miseria? E' davvero un pietoso espediente tentare di farci passare per agit-pop delle ragione dello stato iracheno! Abbiamo salutato con favore l'iniziativa irachena del 2 agosto non in quanto astratto risarcimento del diritto all'integrità territoriale dell'Iraq violato dalla "divisione imperialistica del Medio Oriente", ma in quanto oggettivo innesco, ben al di là delle intenzioni dello stesso Saddam, della ripresa in grande, sempre più convergente ad unità e sempre più gravida di conflittualità verso le stesse borghesie arabe, della sollevazione anti-imperialista degli sfruttati arabo-islamici. E cos'altro se non questo è stata? Quale penosa cecità è stata il non vedere che era proprio questa immensa Intifadah arabo-islamica in gestazione l'ultimo, il vero bersaglio dell'aggressione imperialista! E continuare a non vederlo neppure a posteriori quando alla totale devastazione dell'Iraq han fatto seguito la pretesa di imporre la resa alle masse palestinesi, la legge marziale in Algeria, la messa sotto stretto controllo dell'"estremismo plebeo" in Libano, l'immane riarmo delle petrolmonarchie semi-feudali asservite all'Occidente...
La riannessione del Kuwait da parte dell'Iraq -che è del tutto errato mettere sullo stesso spiano della guerra reazionaria contro l'Iraq e la rivoluzione "iraniana" è stata due cose in una. Una azione "difensiva" nei confronti dell'imperialismo che la borghesia di Baghdad, pesantemente infeudatasi all'Occidente proprio per mezzo della guerra all'Iran, si è vista costretta a compiere nel disperato sforzo di riconquistare un qualche margine di autonomia dalla morsa degli stati usurai. Una prima sortita offensiva del mondo arabo nei confronti di "stati" formalmente arabi che sono in effetti semplici dépendances imperialiste in Arabia, cui la borghesia irachena è stata sospinta, anche contro i propri interessi, dalla montante pressione del proletariato e dei diseredati medio-orientali, una sortita che più ancora delle guerre arabe contro Israele ha avuto il significato di una messa in questione globale della "divisione imperialistica del Medio Oriente". Sotto entrambi gli aspetti (e tanto più sotto il secondo), "tenendo conto anzitutto degli interessi della lotta di classe del proletariato nei paesi avanzati" (ricordate il principio di Marx?), il comunismo internazionalista doveva sentirsi in obbligo di chiamare alla più forte mobilitazione qui contro la mostruosa replica imperialista in preparazione, dacché un rilancio del processo di unificazione del mondo arabo tutto significherebbe fuorché stabilizzazione dell'ordine imperialista e "briciole" (o bricioloni) con cui narcotizzare gli operai.
Cosa s'è messo a fare, invece, l'"internazionalismo puro" (con anche P:C: ad arrancare sulle orme di ciccilli e bicilli)? A straparlare di brutale e imperialistico attacco al Kuweit. E così facendo ha declassato il vero assalto imperialista al rango di "semplice" misura di ritorsione, ancorché essa "pure" imperialistica, rispetto ad una "provocazione" che è partita però, anche per la stampa "estremista", da Saddam Hussein. Naturalmente, -non è questo il punto-, l'"internazionalismo puro" condanna "equanimente" anche USA e compari (salvo a ritenere disdicevole -è ancora "R.I.", n. 67- anche il semplice auspice auspicio verbale della "sconfitta più bruciante per l'imperialismo statunitense"...); ché anzi esso par giunto a ripudiare la "guerra tra stati" in generale (pacifismo, appunto), a differenza, ancora una volta, dal marxismo che si attiene al principio dell'"esame storico di ogni singola guerra" e non può ammettere, finché esiste l'imperialismo, un tale ripudio. Si, l'indifferentismo ha condannato anche l'imperialismo occidentale, ma per il contesto analitico e di indirizzo entro cui è collocata, questa condanna dell'unico schieramento realmente imperialista presente nella guerra del golfo risulta gravemente depotenziata. A leggere la stampa indifferentista, soprattutto quella più estre,a (P.C. si trova, al momento, al centro), il messaggio che si percepisce è questo: i "nostri" imperialisti sono fetenti, non c'è dubbio, ma Saddam se l'è cercata, e dunque... Ecco il pesantissimo tributo che l'indifferentismo paga, e -data la sua tronfia incoscienza- neppure si avvede di pagare, alla propaganda delle democrazie imperialiste: con quale effetto sulla mobilitazione qui contro "il nemico principale (che) si trova nel proprio paese" (vecchia e superata consegna anche questa?), lasciamo a ciascuno di valutare.
Saddam, la borghesia irachena, l'imperialismo iracheno, etc.: e le masse sfruttate del mondo islamico che fine han fatto? "Oh, è meglio non parlarne, è meglio non parlarne affatto -fa, tra lo sconsolato e il disgustato, l'"internazionalista puro" medio. Un disastro, una tragedia, una catastrofe. Come e anche peggio del solito, questi arabi. Un'altra volta fanatizzati dal raja di turno! Lì siamo all'entusiasmo di massa per il brutale stupro del Kuwait e per la guerra imperialista! La nostra classe operaia qualche sciopero contro la guerra almeno l'ha fatto, e se non fosse stato per la triplice e i pacifisti.... Ma nel mondo arabo, niente; è andato tutto in controsenso." "E' vero -conferma un altro. Le masse medio-orientali si son lasciate fuorviare nuovamente dalle sirene nazionaliste e integraliste. La situazione per noi non è bella." E il neo-(indifferentista: "La loro, purtroppo, è stata una risposta istintiva, che possiamo anche capire. Le condizioni di fame e di sfruttamento in cui sono condannati a vivere... La fame, si sa, gioca brutti tiri (peggiori ancora l'affluenza, finora -n). In un certo senso, poveracci, son da compiangere, anche perché stanno pagando amaramente l'errore d'essere andati dietro a Saddam. Ma a maggior ragione noi internazionalisti abbiamo il compito di spiegargli che non hanno più nemici esterni da combattere, l'imperialismo, ormai, ce l'hanno in casa loro, sono le borghesie della regione." "Non vorrei sembrarvi troppo ottimista -è l'"internazionalista-puro-che-più-puro-non-si-può" (oltre c'è solo lo sciovinismo aperto) che interviene-, ma tra le masse medio-orientali qualche segnale di resipiscenza dal bellicismo lo si è purtuttavia colto. Il numero dei disertori nell'esercito iracheno è stato alto, e anche quelle furie scalmanate degli islamici, dopotutto, manifestazioni a parte, non han concluso gran che quanto ad arruolamenti. Pur in un quadro nero, è un buon segno. Anche lì c'è gente che comincia a non esser più disposta a farsi ammazzare per soddisfare gli istinti imperialisti di un Saddam." Ce ne andiamo: non ci regge lo stomaco. E ci mettiamo a ripassare, quasi a volerne mandare a memoria contenuto e tutto il resto, "vecchie" citazioni...
Programma co." ci becca appunto in flagranza di citazione, a suo dire, impropria e ci muove una contestazione che, più sobria nella forma di quelle di C.C.I. e B.C., è del tutto affine ad esse nella sostanza. Nell'ultimo trentennio, ci si dice, "la storia ha fatto passi da gigante" in senso completamente diverso da quello ipotizzato dall'OCI. Infatti, "la divisione imperialistica del Medio Oriente in Stati borghesi reciprocamente ostili si è ormai consolidata; i componenti il mosaico degli Stati arabi fratelli/nemici sono ansiosi di recitare la loro parte di imperialisti minori, indaffarati a reprimere sanguinosamente le proprie minoranze (curdi in specie, per quanto riguarda gli arabi), torchiati dall'imperialismo ma vitalmente legati ad esso (lo stesso Iraq è divenuto una temibile forza militare grazie agli appoggi USA, URSS, Francia), retti da avide e corrotte borghesie prosperanti sulla rapidissima irruzione nel mondo arabo del modo di produzione capitalistico, e preoccupate prima di ogni cosa di soffocare nel sangue, come già a Tall-el-Zaatar o sotto la spinta della fame: il Medio Oriente (è questa la tesi centrale-n.) si è ultraborghesizzato e ultracapitalistizzato senza neppure un 'primo tempo’ di rivoluzione democratico-borghese nel senso classico. Dunque, senza 'residui feudali' degni d'essere presi in considerazione come oggetto di un supplemento di rivoluzione borghese." Da questa che sarebbe, a dire di P.C., la situazione "reale" del Medio Oriente d'oggi le masse proletarie e diseredate possono uscire soltanto con la rivoluzione proletaria e socialista "nell'intera zona", "battendosi contro tutti gli stati borghesi (...) dell'immensa zona e contro gli imperialismi che li contengono. ". Viceversa, parlare -come abbiam fatto noi- "di secondo tempo della rivoluzione democratico-borghese per le masse arabe (...) e per quelle palestinesi (...), non è solo cadere nell'utopia, ma è tagliare la strada alla rivoluzione proletaria." ("Prog. com. n.1/1991). Essendo la contestazione non da poco, la risposta dovrà partire un pò da lontano: non dell'ultimo trentennio né del solo Medio Oriente, infatti, è questione, ma -al fondo- della stessa (non mutevole) essenza del capitalismo.
Spesso si ragiona intorno all'imperialismo (anche nel campo indifferentista) come se si trattasse di un rifacimento di sana pianta del "vecchio" capitalismo, e non invece, quale è, di una sua semplice sovrastruttura formatasi al punto "terminale" del lungo processo storico di accumulazione del capitale. Proprio perché nel suo stadio imperialista il capitalismo non acquista inediti attributi, bensì spinge al parossismo quelli che già possiede, volgerci per un istante dalla "fine" al principio della affermazione della forma sociale capitalistica può aiutare a mettere in evidenza in cosa consiste il suo carattere antagonistico.
La genesi del modo di produzione capitalistico è contrassegnata dalla espropriazione dei produttori diretti, dalla separazione -cioè- tra proprietà delle condizioni generali e dei mezzi della produzione sociale da un lato, e lavoro vivo dall'altro. Tale separazione non è data una volta per tutte, ma si riproduce di continuo su scala allargata e con accresciuta forza polarizzante con la diffusione dei rapporti sociali capitalistici. Lo sviluppo del capitalismo porta dunque con sé il crescente accentramento degli strumenti di produzione e del potere di comodo sul lavoro nelle mani di un capitale sociale totale (di capitali individuali) di sempre maggiori dimensioni e potenza. Marx ha osservato che il ritmo di accrescimento delle dimensioni e della potenza del capitale accumulato sarebbe molto lento se dipendesse soltanto dal "graduale aumento del capitale mediante la riproduzione che dalla forma di circolo trapassa in quella di spirale". Ad imprimere alla cosa una forte accelerazione è il processo di centralizzazione, ossia la concentrazione di capitali già formati, l'assorbimento di "molti capitali minori in pochi capitali più grossi", resa possibile anzitutto dal "normale" progresso dell'accumulazione ed in secondo luogo dalla concorrenza inter-capitalistica e dal credito, le due principali "leve" dell'accentramento pre-imperialista del capitale. Questo significa che la natura duplice, antagonistica della forma sociale capitalistica, oltre a riguardare la relazione fondamentale tra capitale e lavoro, attiene anche ai rapporti tra i capitali.
Non basta: la nascita e l'espansione del capitalismo è inspiegabile senza la distruzione delle formazioni economiche pre-capitalistiche e l'intervento dello stato di classe. "La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono -ha scritto Marx- i segni che contraddistinguono l'aurora dell'era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell'accumulazione originaria." Ed altrettanto lo è l'azione dello stato, "violenza concentrata ed organizzata della società". Di cui il capitale si serve tanto in funzione direttamente anti-operaia (vedi il plurisecolare divieto delle coalizioni operaie), quanto "per fomentare artificialmente (c.n.) il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico"; tanto per assicurare all'accumulazione "privata" di valore le risorse pubbliche (debito pubblico, sistema triburario, etc.), quanto per l'esercizio, quale mezzo economico, della "violenza più brutale" (colonialismo) verso altre popolazioni, quanto infine per la competizione tra nazioni borghesi (protezionismo, guerre commerciali, guerre, etc.).
A smentita delle semplificazioni tipiche dell'economicismo "estremista", perciò, la antitesi fondamentale del capitalismo, l'antagonismo tra capitale e lavoro salariato, è fin dall'inizio intrecciata con le relazioni esse pure (benché in altro modo) antitetiche tra capitali, tra capitalismo e popolazioni ancora ferme a forme di produzione naturali, tra nazioni e tra stati borghesi. La determina e ne è, a sua volta, determinata. Parallelamente, il processo di estensione e concentrazione-centralizzazione del capitale, che getta a scala mondiale le pre-condizioni materiali oggettive per il socialismo, non è semplice accumulo di valore che si oppone al lavoro vivo espropriato: è al tempo stesso concentrazione delle possibilità di sviluppo del capitale in alcune aree e paesi realizzata per mezzo della "espropriazione" delle condizioni di sviluppo di altre aree e di altri paesi. Ed è, ancora, accentramento esso pure diseguale, a mezzo d'ogni sorta di conflitti, del potere statale capitalistico, ieri per mandare4 in rovina "artificialmente il trapasso alla società socialista.
Ora, l'imperialismo (tanto al 1916 quanto al 1991) non comporta la radicale riorganizzazione secondo nuove leggi del capitalismo, bensì soltanto l'inasprimento di tutti gli antagonismi e le contraddizioni già esistenti nel capitalismo pre-imperialista. Esso non è altro che il capitalismo mondiale pervenuto al suo stadio finanziario sulla base delle premesse gettate nei due stadi (mercantile ed industriale) che lo hanno preceduto. due aspetti lo contraddistinguono: 1) il fatto che il processo di centralizzazione è giunto al punto da dar vita ai monopoli, gigantesche concentrazioni di capitali che svolgono una "funzione decisiva" sul mercato mondiale, disponendo di un potere dispotico senza precedenti sul proletariato internazionale e sull'intero sistema delle classi, sugli altri capitali e sulle formazioni sociali arretrate; 2) il fatto che il capitale monopolistico (o finanziario) domina il globo attraverso mostruose mega-concentrazioni di violenza capitalistica organizzata corrispondenti ai "paesi finanziariamente più forti", gli stati imperialisti, capaci di operare ad unitaria (universale) tutela dell'ordine borghese mondiale, pur se in lotta permanente (ed in guerra periodica) tra loro.
Nelle rappresentazioni "puriste" la mondialità dell'imperialismo appare come la somma di tante parti, di tanti pezzi più o meno eguali e "sovrani", caratterizzati da contraddizioni sociali sempre più omogenee; nella realtà, invece, essa è il risultato di un processo economico-politico di totalitario accentramento che ha portato con sé, con l'esasperazione dello sviluppo diseguale, la formazione di "due campi" nel proletariato internazionale e la "scissione definitiva" del movimento operaio metropolitano. "Nel marxismo la forma capitale parte dall'ideale borghese di libertà che si presenta come indipendenza nazionale, e nella realtà come concrezione di grandi poteri di Stato centralizzati (c.n.). La concentrazione dei capitali e delle unità geografico-demografiche di potenza ci dà la marcia storica verso il totalitarismo imperialista (c.n.). La negazione dialettica, che è in questo, dell'ideologismo liberale di partenza, è per noi il vero trampolino di lancio della rivoluzione proletaria. Il capitalismo e il mercantilismo non saranno mai superstatali: il socialismo, uccidendoli, distruggerà la costellazione degli Stati, attaccando i suoi astri di prima grandezza" (Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, p. 175).
Per gli indifferentisti tutti gli stati borghesi sono, in sostanza, eguali e vanno combattuti dal proletariato nello stesso e identico modo. Per i comunisti rivoluzionari la concentrazione dell'attacco del proletariato contro "gli astri di prima grandezza" del potere borghese (senza nulla abbonare a quelli minori) è una necessità derivante per "negazione dialettica" dallo stesso modo di essere del capitalismo imperialista, estremo esito dello sviluppo delle antitesi proprie, dall'inizio alla fine, del modo di produzione d di accumulazione capitalistico. Non a caso Lenin ha indicato nella borghesia dei grandi Stati "il nostro nemico principale" (che non vuol dire l'unico), ed ha affermato categoricamente che "dobbiamo appoggiare ogni (i corsivi sono di L.) insurrezione" che si verifichi conto di essa, "a meno che non si tratti di un'insurrezione della classe reazionaria", e dobbiamo farlo "con particolare energia" proprio "nell'epoca dell'imperialismo", onde poter con più efficacia "attaccare (domani o contemporaneamente) la borghesia della 'grande' potenza indebolita da questa insurrezione." (Risultati della discussione..., p. p. 331).
Forse i redattori di "Prog. com." potrebbero sin qui convenire, salvo obiettare che stiamo divagando e richiamarci alla loro puntuale contestazione che riguarda le stupefacenti trasformazioni avvenute in Medio Oriente nell'ultimo trentennio. Veniamo quindi al secondo dopo-guerra e subito dopo al Medio Oriente, e si vedrà senza sforzo che non stavamo affatto divagando.
Negli anni '50 e '60 andò per la maggiore una concezione apologetica della diffusione del capitalismo su scala mondiale, a stare alla quale sarebbe stato il naturale svolgimento delle leggi del mercato ad assicurare lo sviluppo economico a tutti i paesi, anche i più arretrati. Il più noto esponente di questa "nuova teoria dello sviluppo", W.W. Rostow, si prese perfino la cura di specificare la successione obbligata delle fasi attraverso cui ogni paese sarebbe passato: società tradizionale; condizioni preliminari per il decollo; decollo; progresso verso la maturità; era dei consumi di massa. Modello universale dello sviluppo, inutile dire, erano i paesi più avanzati, gli Stati Uniti anzitutto, che da bravi fratelli maggiori avrebbero dovuto guidare la crescita dei paesi attardati. A Rostow e soci non sfuggiva, evidentemente, lo scarto esistente tra le diverse "regioni" del mondo; ma essi lo consideravano un semplice ritardo, un provvisorio décalage che i paesi ancora lontani dal decollo avrebbero con certezza colmato. Vero è che non appena lo stesso massimo "profeta" del benessere capitalistico universale passava a precisare le pre-condizioni del balzo in avanti dei paesi più arretrati, emergeva qualche piccola complicazione: come ad es. la necessità del raddoppio del loro saggio di risparmio e di investimento, oppure una alta "idoneità ad investire" capitalisticamente (in paesi con ancora un piede o un piede e mezzo dentro forme arcaiche o semi-feudali di organizzazione sociale...), o uno stretto e funzionale collegamento tra risparmiatori ed imprenditori (insomma un mercato dei capitali ed un sistema creditizio evoluto in continenti da secoli saccheggiati dal colonialismo...) ed altre bazzecole del genere. Dopotutto, però, questo il rassicurante messaggio, no problem: ogni società che avesse avuto "la propensione a sviluppare la scienza di base, la propensione ad applicare la ricerca scientifica ai fini economici, la propensione ad accettare le innovazione, la propensione a ricercare il benessere materiale, etc.", -e quella società potrebbe non avere tanto "naturali" propensioni?- aveva un futuro "americano" garantito. Si estendeva con ciò ai rapporti tra le nazioni l'ottimismo armonicista classico (alla Say) circa l'impossibilità nell'economia capitalistico di sovrapproduzione, crisi, miseria, antagonismo (e perfino difficoltà) in genere. Rostow intitolò significativamente la sua opera principale: The Stages of Economic Growth, a Non Communist Manifest. (Gli stadi dello sviluppo economico. Un manifesto non comunista), ed in essa notò che lo "straordinario sviluppo" dell'Occidente (si era nel 1960) avveniva proprio nel mentre che il colonialismo era "praticamente morto". Ergo: il colonialismo non è necessario al capitalismo e, tramontando, lascerà libero corso allo sviluppo capitalistico anche nelle aree ex-coloniali.
La falsità di questa teoria è provata, oltre che dalla storia del capitalismo pre-imperialista, dal secolo di capitalismo imperialista che ne è il derivato. Quanto al periodo post-bellico, un onesto analista quale? P. Sairoch ha scritto: "Lo scarto che divide il Terzo Mondo dai paesi sviluppati è andato sempre crescendo di anno in anno (eccezion fatta per le rare annate il cui si ebbe una recessione relativamente seria nei paesi industrializzati: 1952, 1958 e 1967). Nel 1970 lo scarto del reddito pro capite del Terzo Mondo e quello dei paesi sviluppati è passato ad 1 a 14, rispetto all'1 a 9 del 1950", all'1 a 7,5 del 1930 ed all'1 a 6 del 1900, mentre nell'800 era all'incirca di 1 a 2, dopo che per "alcuni millenni" l'"assenza di un significativo scarto tra i livelli di sviluppo economico delle varie società non primitive" era stata "una costante storica" (Lo sviluppo bloccato, pp. 3-7). Senza addentrarci nell'esame più particolareggiato del fenomeno, basterà dire che anche nel ventennio 1970-1990 la tendenza di fondo non si è affatto invertita, e l'indice più di tutti eloquente dell'incessante allargamento della forbice (nell'accumulazione e nel reddito) tra paesi imperialisti e paesi dominati o controllati dall'imperialismo è costituito dall'esponenziale incremento del debito dei secondi nei confronti dei primi, passato dai 58 miliardi di dollari del 1970 ai circa 250 del 1977, e poi ai 755 del 1981 ed ai 1.245 del 1988.
La causa fondamentale di tutto ciò è proprio in quel processo di feroce centralizzazione del capitale che l'indifferentismo ha rimosso. Sentiamo Programma comunista, annata 1961: "Il capitale domina oggi, incontestabilmente, il mondo intero e siccome tende a concentrarsi sempre di più in pochi Stati è costretto dalle sue stessi leggi ad arrestare lo sviluppo sociale nella maggior parte dei paesi. La miseria di questi è dunque direttamente una crisi capitalista e non una crisi dovuta alla mancanza di capitali. La rovina è venuta dal capitale e il rimedio può venire soltanto dalla lotta contro il blocco capitalista. (...) La lotta contro questo blocco è dunque permanente. Ci si deve meravigliare se la battaglia comincia nei paesi meno 'sviluppati' dal momento che, per il suo stesso meccanismo, il sistema borghese vi si blocca da solo per ragioni sociali di sfruttamento e di sopravvivenza nel mondo intero?" (Prospettive rivoluzionarie della crisi, pp. 185-7; c.n.).
E il processo di decolonizzazione? Esso, laddove s'è dato per via rivoluzionaria (gli "inutili stermini" deprecati dalla CCI e le "guerre anticoloniali" giudicate "impossibili" da "almeno 60 anni" da B.C....), ha parzialmente intaccato il meccanismo centralizzatore fonte del "sottosviluppo capitalistico". Spezzarlo non poteva essere in suo potere; ché anzi ne ha (antiteticamente) sollecitato ed evidenziato il compiuto passaggio alle nuove forme di già in gestazione almeno dalla prima guerra mondiale. E' quello che un fondamentale articolo di Programma comunista, 1956/nn. 6-7 definì come il passaggio dal colonialismo storico al colonialismo termonucleare.
Rileggiamolo. "Lo sfasciamento degli imperi coloniali ci avverte che qualcosa è cambiato nel colonialismo. Quello che sta tramontando è il colonialismo storico. Era molto più antico del capitalismo, ma è morto prima di questi. Sulle sue macerie una nuova forma di colonialismo sta prendendo il sopravvento, una forma adeguata allo sviluppo dell'imperialismo descritto da Lenin. Il colonialismo storico si fondava sulla conquista militare e l'occupazione permanente dei territori da colonia" e cioè "in ultima analisi sul possesso diretto e immediato dei mezzi di produzione presenti nelle colonie, e ciò rendeva indispensabile l'annessione del territorio". Con il perfezionamento della dittatura del capitale finanziario sull'economia mondiale, però, diventa possibile agli "imperialisti della seconda maniera" di " controllare a distanza il meccanismo produttivo delle 'regioni sottosviluppate' del globo mediante il gioco dei prestiti e delle sovvenzioni che, nella finzione giuridica, figurano stipulati fra 'Stati sovrani' e mediante la "prigione" entro cui "gli smisurati cartelli internazionali (...) rinserrano il commercio mondiale". Meno costoso e più efficiente del vecchio, "il nuovo colonialismo è telecomandato: esso controlla a distanza sia i capitali, manovrati negli uffici dei grandi pirati della finanza a mezzo di radiotelegrafo, sia le armi (è "l'imperialismo delle portaerei" - n.), alle quali è affidata la protezione dei profitti". A confronto con esso, il colonialismo storico appare come una "forma imperfetta del colonialismo capitalista". Il nuovo colonialismo finanziario e termonucleare, "il colonialismo che gli Stati Uniti stanno introducendo nel mondo", si presenta invece come "colonialismo capitalistico allo stato puro", in quanto di norma non fa ricorso all'assoggettamento fisico diretto delle masse lavoratrici dei paesi oppressi ed anzi, in un certo qual sensi, cooperato a "liberarle" dai gravami dei colonialismo storico. Questo "neo colonialismo" (di cui sull'attuale P.C. non si trova più quasi nessuna traccia) è ancora "più sfruttatore, più feroce, più ipocrita" di quello storico (Programma comunista, n. 12-13/1965), a misure che la sua "onnipotenza finanziaria" gli consente di passare dalla dominazione formale delle economie extra-metropolitane a quella reale, che la sua flotta aeronavale (avete presente la guerra del Golfo o quella del Vietnam?) ha una capacità di distruzione e di deterrenza di molto superiore a quella dei tradizionali eserciti e cannoniere vetero-coloniali, e che può meglio mascherarsi dietro l'ideologia della eguaglianza delle razze e della "pari dignità" di tutti gli altri stati.
Sostenere, come l'OCI fa, la perfetta attualità della teoria marxista dell'imperialismo non significa certo che dagli anni '20 ad oggi non siano avvenuti dei cambiamenti nella struttura del capitalismo internazionale, ma che questi cambiamenti (sintetizzabili appunto nell'avvento di un "super-colonialismo" finanziario che ha soppiantato nel secondo dopoguerra il vecchio colonialismo) sono avvenuti secondo la linea di una ulteriore centralizzazione imperialista del capitalismo, e non già - come credono tutti gli indifferenti - nel senso di una moltiplicazione decentralizzatrice dei capitali e degli stati imperialisti.
Soltanto qualche rapidissimo spunto circa l'accresciuto accentramento del capitale finanziario che nel "nuovo colonialismo" si esprime. Come sono cambiate le imprese monopolistiche rispetto ad inizio secolo? Sul piano quantitativo, i cambiamenti sono tutti nel senso di un maggior gigantismo: maggiore è il valore del fatturato globale e dei capitali impiegati, assai più alto il grado di internazionalizzazione, molto più ampia la massa di lavoro salariato alle dipendenze (la General Motors arriva a 775.000 unità), assai più estesa la rete di interconnessione e di controllo sulle piccole-medie imprese (per qualche keiretsu giapponese si arriva anche a 5-6.000), ampliata e diversificata la gamma delle operazioni azionarie, commerciali, di ricerca, creditizie, diplomatiche, etc. Sul piano qualitativo, la principale trasformazione sta nel passaggio dai cartelli (o unioni) tra più grandi imprese alla formazione di konzern, mega-società singole che sono esse stesse un complesso di società con base in un settore "di partenza" ed innumerevoli ramificazioni in altri settori, e che fondono in sé funzioni industriali e bancarie (v. I. Ivanov, Multinazionali e imperialismo nel mondo moderno, in "Nuova rivista internazionale", 1986, n.9). Società che, naturalmente, possono e debbono consorziarsi (oltre che lottarsi) tra loro, ma che già singolarmente hanno la capacità di stare su un mercato mondiale assai più esteso di quello del primo '900. Quanto ai "modelli organizzativi", la linea di marcia delle imprese monopolistiche è nel senso del superamento di ogni aspetto federativo, di ogni forma di indipendenza delle singole branche o unità e di ogni residuo di mentalità non immediatamente globale-mondiale, avendo per obiettivo il c.d. modello organizzativo transnazionale, un sistema unitario strettamente integrato e diretto da una strategia transnazionale d'insieme (v. The World in 1990, The Economist Publ., p. 119; è facile notare che si tratta del modello organizzativo diametralmente opposto a quello che le medesime corporations vanno "suggerendo" alla Jugoslavia, all'URSS, all'Iraq, etc.: il totalitarismo imperialista non solo non può tollerare "il periferia" o in semi-"periferia" capitalismi "un tantino equilibrati", ma neanche stati sufficientemente forti da unire e proteggere "dall'esterno" singole zone del mercato mondiale).
La spartizione (sempre provvisoria) del mercato mondiale è questione di non più di una decina di mega-imprese per settore, che oltre alla produzione controllano monopolisticamente anche il commercio mondiale. L'incessante competizione inter-monopolistica, acuitasi negli anni '70 e '80, sta traducendosi, proprio a partire dal 1975, in una impennata delle fusioni e delle acquisizioni che ha fatto parlare finanche di mergermania (mania delle fusioni), ossia di un'impennata di quel processo di centralizzazione che frena o rovina l'economia dei paesi più deboli. In questo stesso periodo si è addirittura raddoppiato il grado di transnazionalizzazione dell'economia mondiale, e cioè il rapporto tra le vendite delle prime 200 multinazionali ed il prodotto lordo mondiale: da circa il 15% negli anni '70 è balzato a più del 30% a fine anni '80 (mentre il grado di internazionalizzazione dell'economia mondiale - dato dal rapporto esportazioni/prodotto lordo - è salito dal 12-15% degli anni '50 al 28% circa del 1988).
Analoghe considerazioni valgono per le banche transnazionali, che hanno perfino superato, per grado di internazionalizzazione, le imprese multinazionali ed insieme con queste monopolizzano l'attività ritenuta da Lenin caratteristica dell'epoca imperialista e del capitale imperialista: l'esportazione di capitale. Per le banche in centralizzazione è ancora più spinta, se si considera che mentre il 90% degli investimenti esteri diretti è opera di 400 multinazionali, circa i 3/4 dei prestiti internazionali è accordata da sole 50 banche (tutte occidentali), e non c'è bisogno di sottolineare quanto il ricorso al prestito sia determinante per i paesi oppressi che proprio per le conseguenze della dominazione imperialista soffrono di un deficit cronico di accumulazione (un ottimo studio specifico su questi problemi è quello dedicato dai nn. 77 e 79 di "Programma comuniste" allo sfruttamento finanziario dell'Africa da parte dell'imperialismo .... non africano).
La stessa cosa dicasi del super-accentramento della violenza capitalistica organizzata che si è realizzato nel passaggio dalla supremazia britannica a quella statunitense, dagli armamenti convenzionali a quelli nucleari, dagli eserciti "popolari" di terra a quelli professionali aereo-navali, dalla Società delle Nazioni all'ONU, del trattato di Versailles agli accordi di Jalta, etc., fino ad arrivare agli ultimi mostruosi parti delle risoluzioni ONU "di pace" circa i futuri proventi dell'Iraq da vendita di greggio ed alla recentissima proposta di commissariare tutti gli stati ("indipendenti e sovrani") dell'Est-Europa e l'URSS avanzata dal capitalista democratico De Benedetti e da altri suoi pari (a proposito di "nuovo ordine internazionale" inaugurato dalla guerra del Golfo ...): Ed ancora: pure nel rapporto di simbiosi tra industria, banca e stati imperialisti si è determinato, nel secondo dopoguerra, un nuovo balzo in avanti: basta pensare a cosa sono il Miti o la Borsa in Giappone, o alle relazioni veramente particolari tra Pentagono ed industria manifatturiera statunitense, o all'esplosione del debito statale di pace nei paesi ricchi (quali, infatti, i grandi beneficiari della messe di titoli pubblici che, tagliando cedole, si sottomettono una seconda volta il proprio stato?), o... Ma è inutile proseguire: era soltanto qualche spunto per riportare con più forza l'attenzione sul problema centrale tanto limpidamente espresso da Programma comunista nel 1961: il sempre crescente accentramento del capitale "in pochi Stati" provoca, per le "sue stesse leggi", l'arresto dello "sviluppo sociale nella maggior parte dei paesi", anzi si nutre in permanenza di questo arresto e genera di continuo la lotta contro di esso.
Il quadro che "Progr. com." seconda maniera traccia del Medio Oriente al 1991 contraddice completamente questa tesi. Lungi dall'essere incappato nel blocco del proprio pieno sviluppo capitalistico, il M.O. "si è ultraborghesizzato ed ultracapitalistizzato" (!) e tale miracolo sociale s'è compiuto senza che ci fosse bisogno neppure di "'un primo tempo' di rivoluzione democratico-borghese nel senso classico", ossia in virtù del semplice moto spontaneo di espansione del capitalismo. Di più: questo travolgente iper-sviluppo ha messo capo ad una serie di "imperialismi minori", che poi tanto "minori" non sono se è vero che uno di essi è stato a tal punto preso dall'"ansia" di "recitare la su parte" imperialista sino in fondo da andare allo scontro con una coalizione di imperialismi piuttosto cresciutelli. Ovvero: il meccanismo imperialista non soltanto non ha acuito le disuguaglianze di sviluppo tra metropoli e un'area già sottoposta a dominazione coloniale, ma le ha appianate. E quando s'è verificato questo prodigio? Proprio nella fase storica contraddistinta dal dominio del "super-colonialismo capitalista" finanziario ("L'essenza dell'imperialismo americano è la colonizzazione finanziaria" - Prospettive rivoluzionarie ...., p. 161) che dunque, da colonialismo "più sfruttatore e feroce" di quello che ha soppiantato quale l'abbiam visto essere, risulterebbe capace di elevare al proprio rango, o quasi, i paesi che ferocemente sfrutta e colonizza .... Tutto ciò, poi, - le ultra-bestialità teoriche e di fatto non sono finite - sarebbe stato possibile senza neanche mettere in discussione "la divisione imperialistica del Medio Oriente" (operata quel dì, crediamo di capire, da imperialismi non della "zona" ...), anzi in presenza addirittura di un consolidamento di tale divisione, che di per sé avrebbe dovuto mutilare (o no?) non diciamo le chances di accesso al ristrettissimo club degli stati usurai, ma finanche quelle di un minimo di industrialismo non storpio (lo stesso P.C. è del resto costretto a parlare, con involontario umorismo, di imperialismo medio-orientale "torchiati dall'imperialismo (a proposito: quale? l'imperialismo in generale?), ma vitalmente legati ad esso" ...).
Che venga in tal modo smarrita e negata l'intera concezione marxista dell'imperialismo (e del capitalismo), e perciò anche - come vedremo - della lotta rivoluzionaria al sistema imperialista, è davvero superfluo rimarcare. Può tornare utile, invece, qualche parola introno alle trasformazioni economico-sociali avvenute realmente negli ultimi decenni in Medio Oriente.
Una premessa: per quel che riguarda il rapporto tra metropoli ed aree arretrate si possono, a grandi linee, distinguere due epoche del capitalismo. Nella prima (corrispondente al capitalismo pre-imperialista ed al colonialismo storico) il capitale metropolitano ha lavorato ad impedire con tutti i mezzi il sorgere dell'industria moderna nelle colonie o a distruggere periodicamente le prime concrezioni (Marx: "Ogni qualvolta si avvia al suo decollo industriale, l'Irlanda fu schiacciata e riconvertita in un paese esclusivamente agricolo" - L'Irlanda ..., p. 117). Nella seconda, corrispondente al capitalismo imperialista e - sempre più - al colonialismo finanziario, il capitale metropolitano vi ammette ed in certi limiti perfino favorisce quel tanto di industrialismo che è nell'interesse del "centro" del sistema imperialista, salvo a provocare - se necessario - periodici balzi all'indietro nei livelli di industrializzazione raggiunti dai paesi dipendenti (esempi: Argentina, Cile ed America latina in genere dal 1955 in poi; Medio-Oriente, appunto ...., dai primi anni '70 in poi; indi, se si hanno gli occhi per vedere, basta guardare un pò verso Est).
Per l'esattezza è fino alla seconda guerra mondiale che l'imperialismo si è sforzato di "mantenere le colonie al primo stadio dell'accumulazione", quello della disgregazione delle relazioni sociali pre-borghesi senza operare per il raggruppamento locale delle forze di lavoro spossessate dei loro più o meno primitivi strumenti di produzione, ma limitandosi al loro "accaparramento". Due fattori hanno, però, con energia di rottura e "coerenza" di effetti assai differenti, forzato questa situazione: 1) il movimento rivoluzionario anti-coloniale afro-asiatico che, dando impulso alla diffusione dei rapporti produttivi capitalistici e colpendo l'imperialismo, ha espresso la tendenza "a cancellare le disuguaglianze dello sviluppo storico nel mondo"; 2) l'interesse dal capitale finanziario a fare delle ex-colonie sempre più un campo di messa a frutto dei capitali eccedenti (prima e più ancora che un mercato di sbocco delle proprie merci). Ne è derivata una indubbia estensione su scala mondiale (ed anche in Medio Oriente) del capitalismo, a determinare delle economie naturali e semi-feudali (tuttora lontane dalla piena dissoluzione, tanto più nelle loro istituzioni politiche), ma il problema è: quale capitalismo si è impiantato nel "Terzo Mondo" in questo secondo dopoguerra?
In un articolo di Programma comunista del 1959/nn. 10-11 (Alcuni punti sulla questione coloniale) veniva formulata una triplice alternativa sui possibili sbocchi dell'evoluzione economica dei paesi ex-coloniali:
a) una situazione "nippo-tedesca", con la formazione di una struttura produttiva moderna, ma entro paesi impossibilitati a raggiungere una piena stabilità per il permanente squilibrio tra le loro capacità di produzione e quelle di consumo;
b) una situazione "latino-americana", con una struttura capitalistica "unilaterale" e perciò condannata in partenza ad essere oggetto di dominazione da parte delle maggiori potenze mondiali;
c) una situazione paragonabile a quella della Russia stalinista, assurta "attraverso uno sfruttamento intensivo del salariato" al ruolo di "potenza capitalistica mondiale".
Il riscontro attuale ci dà incamminate lungo la traiettoria sa)s esclusivamente le quattro "piccole tigri" del Sud-Est asiatico che soffrono di uno squilibrio "nippo-tedesco" al cubo; incamminata lungo la traiettoria c), con crescenti asprissime difficoltà a progredire, la sola Cina post-rivoluzionaria, nel mentre - però -che la Russia post-stalinista, proprio per non essere riuscita a trasformarsi in una grande potenza finanziaria, va ora scivolando (o precipitando?) verso la disgregazione economica e statale; variamente dislocati nella situazione b) la quasi totalità dei paesi di colore.
Con tutti i limiti di un discorso che fa astrazione da (anche molto) rimarchevoli differenze, si può dire che nei paesi oppressi dall'imperialismo la struttura dell'accumulazione capitalistica si presenta di solito incompleta (generalmente minata proprio nell'industria di base), unilaterale ("specializzata" in una sola produzione), duale (con un forte gap tra settori orientati al mercato locale e la produzione per l'esportazione), priva di una vera integrazione tra i suoi "stomi" e viceversa strettamente subordinata al capitale metropolitano. Non meno squilibrato e dipendente vi è, l'industrialismo. Iper-sviluppata è soltanto l'industria mineraria, ma a questo iper-sviluppo non corrisponde una pur minima proporzionalità di crescita dell'industria di trasformazione: il 95% del ferro estratto nel Terzo Mondo va agli altiforni dei paesi imperialisti, il 100% della commercializzazione ed oltre i 3/4 della capacità di raffinazione del petrolio è in Occidente, e così via. L'industria dei paesi terzi è schiacciata tra la cronica penuria di capitali che affligge le ex-colonie, la totale dipendenza per i macchinari e le attrezzature, il protezionismo dei paesi imperialisti (feroce soprattutto quando deve colpire prodotti "periferici" a discreto contenuto tecnologico: vedi l'elettronica del Brasile o dell'India) e la mancanza di una adeguata crescita della domanda di merci da parte del mondo rurale (per lo più ancora fermo a forme di produzione e conduzione antiquate, soffocato e dalla grande proprietà fondiaria e dalla coltivazione frammentata). Specchio di questo industrialismo mutilato sono le esportazioni industriali dai paesi ex-coloniali, concentrate in un ristretto numero di stati ed in poche decine di prodotti (propri per il 75% dei settori più tradizionali ad alto utilizzo di forza-lavoro) e controllate in modo diretto o indiretto dalle multinazionali.
La situazione globale del Medio Oriente non fuoriesce certo da questo quadro. Il ritratto che ne ha fatto di recente Samir Amin (The Arab Economy Today, 1982), conclusioni utopistico-reazionarie a parte, è del tutto veritiero. Tanto per cominciare, il permanere della "divisione imperialistica" della regione, impedendo l'integrazione tra le diverse economie "nazionali", ha costretto ciascuno stato ad integrarsi nel mercato mondiale come "una unità a sé", in balia dei mega-stati e delle mega-concentrazioni di capitali imperialiste. L'interscambio inter-arabo è quasi inesistente, ed anzi i vari paesi arabi si fanno concorrenza tra loro per le esportazioni. Queste cono composte per l'84,2% da petrolio o materie prime, per il 5% da prodotti agricoli ed il 5% da prodotti petrolchimici (alla stessa Arabia Saudita, però, è stato precluso dalla CEE l'accesso al cd. terzo livello della petrolchimica - ciò che ha fatto parlare un giornale moderato come "The Middle East" (giugno 1990) di "arroganza neo-coloniale" da parte degli europei). In tutto il Medio Oriente "la struttura dell'industria resta rudimentale". E' vero che l''economia urbana ha preso il sopravvento su quella agricola, che è a tal punto arretrata da totalizzare, con il 56% dell'intera forza-lavoro, soltanto il 18% del prodotto globale. Ma viene dall'industria soltanto il 18% del "valore attribuito all'economia urbana, che è dunque largamente un'economia di consumi e di miseri commerci corrispondente per l'appunto ad uno sviluppo bloccato che espianta masse di contadini dalle terre senza poterli assorbire nell'industria (proletarizzazione bloccata). Se si eccettuano alcune isole di produzione petrolchimica (1/3 delle quali è andato distrutto nella guerra del Golfo), l'industria del mondo arabo e del Medio Oriente è quasi esclusivamente industria leggera, che tra l'altro dipende al 55% da materie prime e semi-lavorati e per il 100% da macchinari importati dall'Occidente (in America Latina tale grado di dipendenza è dell'80%, in Asia del 90%). L'industrializzazione sostitutiva delle importazioni è "molto meno avanzata nel mondo arabo che in America latina" e la principale ragione di ciò è "la relativamente piccola dimensione di ogni Stato arabo". Tra tutte le aree del Terzo Mondo, quella araba è in effetti "la più pienamente integrata", e dunque la più strettamente subordinata, nel sistema mondiale imperialista, e lo prova il fatto che il peso delle importazioni vi è "molto maggiore che in ogni altra regione (arretrata) del mondo": il 33% dei consumi alimentati (contro una media terzomondiale che è del 10%), il 74% dei manufatti, la totalità dei mezzi di produzione. Ancor più indicativo è il rapporto tra esportazioni e prodotto lordo complessivo che agli inizi degli anni '80 era per il mondo arabo addirittura del 60%, contro il 13% di America Latina e Caraibi, il 14% per Sud, Sud-Est ed Est asiatico (escluse Cina e Giappone) ed il 22% per l'Africa Sud-sahariana (pur scontando la caduta del prezzo del greggio, la differenza rimane ampia).
Nella divisione mondiale imperialista del lavoro, il mondo arabo è esportatore di materie prime (ed in sostanza: esportazione di una sola materia prima) e, nel suo insieme, importatore di capitali. Il surplus di capitali liquidi da rendita petrolifera, infatti, ben lungi dall'appartenere a tutti i paesi arabi, è concentrato nelle mani delle petrolmonarchie semi-feudali, che assommano meno del 10% dell'intera popolazione araba (per altri Stati grandi esportatori l'esistenza di un surplus è stata solo un'effimera parentesi). Viceversa, tutti gli Stati più popolosi della regione, a cominciare dall'Egitto, sono pesantemente indebitati con la finanza imperialista. Inoltre per la loro natura sociale le petrolmonarchie (che curiosamente, secondo "Progr. com.", sono stati borghesi), da semplici agenzie locali delle grandi potenze imperialiste quali sono, hanno fatto in larga misura defluire questo surplus verso il "centro" del sistema imperialista, che ne è uscito rafforzato economicamente e militarmente (altra curiosità: è proprio una di queste petrolmonarchie "esportatrici" strutturali di capitali dall'Arabia l'unico Stato arabo che "Progr. com." giudica "brutalmente aggredito" dall'imperialismo, dall'imperialismo ...iracheno, e che dunque dobbiamo presumere vada escluso dal novero dei mini-imperialismi arabi ...). Non a caso a riciclare i petrodollari è stato il circuito bancario anglo-americano, mentre quel tanto di istituzioni finanziarie arabe messo su dopo il 1973 è già, a meni di un ventennio dalla sua nascita, in via di disfacimento (vedi il caso della BCCI, la condizione di bancarotta delle principali banche commerciali del Kuwait, etc.).
Difficile, se ci si attiene alla realtà, dar torto a Samir Amin (senza con questo concordare con la sua spiegazione della dominazione imperialista e, meno che mai, con la sua teoria dello "sganciamento" dall'imperialismo) quando, facendo il bilancio del ciclo del dopoguerra per il mondo arabo, afferma: "Se si esaminano i fatti, è evidente che l'accelerazione dello sviluppo non si è verificata secondo le attese. Al contrario, il gap qualitativo (tra mondo arabo e Occidente - n. ) si è allargato in ogni campo e la debolezza del mondo arabo è cresciuta. La dipendenza ha cambiato forma ed è diventata, nel corso del tempo, più grave". O quando, per esprimere gli effetti della "integrazione crescentemente diseguale" del mondo arabo nel mercato mondiale, ricorre ai termini di "regressive development", uno "sviluppo" che, finora è durato, ha accentuato la dipendenza del capitale imperialista.
Alla medesima conclusione perviene, per l'Egitto, N. Zaalouk (Power, Class a Foreign Capital in Egypt, 1989) che descrive il capitalismo egiziano post-nasseria come un "compradorial capitaliasm", punto d'arrivo del fallimento del programma "sviluppo indipendente" tracciato negli anni '50 e della incapacità della borghesia egiziana di riuscire a realizzare sinanche uno "sviluppo dipendente associato" qua ad es. quello del Brasile. L'Egitto, il maggiore -se non altro per popolazione- dei paesi arabi, è diventato "totalmente dipendente dai prestiti" esteri e la sua economia, ben lungi dal rassomigliare a quella degli Stati effettivamente imperialisti tira a campare (con un reddito medio annuo pro-capite di 678 $ nel 1989) solo grazie alle rimesse dei lavoratori emigrati, al turismo, agli introiti del canale di Suez all'esportazione di petrolio. "La gran parte dei settori produttivi dell'economia è in stagnazione, e questo è vero in particolare per l'industria, mentre la produzione agricola procede ad un passo estremamente lento ed è totalmente incapace di far fronte ai bisogni alimentari del paese" (p.4). Che questa condizione sia il risultato anche della forte compromissione del nassarismo prima con la borghesia egiziana (niente altro che un'aristocrazia fondiaria imborghesita) e poi con lo stesso "neocolonialismo" finanziario, è cosa per noi ovvia; ma altra è la questione in discussione qui. E se dopo l'Iraq e l'Egitto ci volgessimo ad un altro paese-chiave del mondo arabo che più di ogni altro ha conosciuto la rivoluzione anti-coloniale, l'Algeria, risalterebbe una volta di più l'inesistenza di quel Medio Oriente "ultraborghesizzato ed ultracapitalistizzato senza neppure un 'primo tempo' di rivoluzione democratico-borghese nel senso classico" inventato di sana pianta da "Prog. com." anno 1990.
Ci si potrebbe obiettare che non si disconosce l'esistenza di differenze quantitative tra sviluppo del capitalismo in Occidente e in Medio Oriente, bensì si esclude che tali diversità consentano di ritenere ancora attuale la sostanza del "doppio programma" della III Internazionale, appropriato soltanto alla fase storica in cui le aree arretrate erano ancora ferme al feudalesimo. Il problema non nuovo e su Programma comunista nn. 6-7/1956 era già formulata la risposta marxista ad esso: quand’anche tutto il mondo diventasse capitalista, e moderni complessi industriali coprissero l'intera Asia e segnassero la fine degli ordinamenti tribali dell'Africa, quand'anche si arrivasse alla totale eguaglianza qualitativa nel segno capitalista dei modi di produzione esistenti nel mondo (ne siamo tuttora alquanto lontani -n.), non si cancellerebbero gli scarti tra i livelli di sviluppo. In un mondo tutto-capitalista dal Polo all'Equatore, sussisterebbe pur sempre differenze quantitative. Ora è appunto nella ineguaglianza dello sviluppo storico e nella esistenza dello Stato di classe che si perpetua il colonialismo. Gli ideologi dell'anticolonialismo sbagliano perciò di grosso quando pretendono che, modernizzandosi gli Stati afro-asiatici secondo il modello economico delle metropoli imperialistiche, verranno a mancare le condizioni obiettive del regime coloniale" (corsivi nostri). E con essi sbagliano di grosso anche gli indifferentisti che nelle loro rappresentazioni appiattiscono la distinzione, che nella realtà è netta, tra paesi oppressi e paesi oppressori ad una pura e semplice diversità di taglia (piccola, media o grande) tra paesi e Stati tutti egualmente imperialisti.
La perpetuazione, in altre forme, del colonialismo imperialista e l'accentuazione dell'oppressione nazionale, nonostante e al di là della formale "parità di diritti" tra tutti gli stati, sono fattori determinanti proprio per la stabilità del sistema imperialistico nel suo complesso e per allontanare quella "rivoluzione internazionale" di cui i nostri contraddittori credono di preservare la "purezza" con l'ignorare le concrete condizioni di sviluppo. Da qui, tra l'altro, le particolarissime cure che le democrazie usuraie d'Occidente hanno riservato al Medio Oriente, comprese le guerre d'aggressione, dirette o per interposta borghesia (Algeria 1955-1962, Egitto 1967, Iran-Iraq 1980'88, Iraq 1991), volte a distruggere e/o a soggiogare con mezzi "artificiali" (la violenza organizzata concentrata come "potenza economica") i soli Stati arabi e medio-rientali virtualmente capaci di promuovere l'unificazione borghese dell'Islam e volte, soprattutto, a colpire e disorganizzare la rivolta delle classi lavoratrici arabo-islamiche super-sfruttate e ad impedire, isolandole e battendole separatamente, che la loro permanente e sempre più radicale insorgenza potesse saldarsi con la scesa in campo del proletariato metropolitano.
L'ultima guerra del golfo ha evidenziato -in ciò sta la sua enorme importanza- come la resistenza degli sfruttati medio-orientali abbia scosso la dominazione imperialista al punto tale da costringere gli Stati massimi tutori del capitalismo mondiale a tornare "indietro" ai metodi, proprio del colonialismo storico, della occupazione fisica dei territori da cui estrarre sovra-profitti. Come sempre e, se possibile, più di sempre, perciò, l'insorgenza delle masse medio-orientali richiedeva il massimo sostegno da parte dell'avanguardia comunista e della classe operaia metropolitana proprio per potersi spogliare, nel corso della lotta, delle proprie illusioni e dispiegare in pieno la sua carica anti-borghese di innesco della ripresa della "guerra di classe proletaria nei paesi a capitalismo maturo".
Ma per "Progr. com.", che interpreta alla rovescia tale insorgenza, si taglia la strada, così facendo, alla vera prospettiva rivoluzionaria che sarebbe quella della rivoluzione socialista "pura", capace di metter fine istantaneamente al "controllo dei grandi imperialisti sulla Mezzaluna Fertile". Per noi è chiaro, invece, che neppure la "miglior" rivoluzione socialista "solo medio-orientale" ("nell'intera zona", dice P.C.) potrebbe cancellare le ragioni dello sfruttamento, cioè del rapporto diseguale. Al massimo potrebbe maneggiare il potere politico su un'area capitalistica dipendente per promuovere nuovi rapporti di forza interni tra le classi e premere per l'allargamento del fronte di lotta internazionale, muovendosi nel frattempo non solo su un terreno di lotta capitalistico, ma, per l'appunto, capitalistico spurio, arretrato, esposto da ogni lato ai colpi, naturali e "innaturali" dell'imperialismo.
Ancora da Programma comunista nn. 1-2/1961: "Storicamente, la possibilità di una soluzione proletaria in Algeria (mettiamoci il Medio Oriente di oggi, e le cose non cambiano -n.) c'è stata: oggi, in assenza di un partito di classe algerino e francese, e di una Internazionale comunista, la soluzione immediata non può essere, al massimo (c.n.), che una soluzione borghese" è in tutti i casi obbligato. Ove ne esistessero le condizioni... che però sono assenti oggi più che ieri, si potrebbe ipotizzare il salto politico (come in Russia, per altri versi, nel '17), fermo restando che socialmente non avremmo comunque, per mancanza delle precondizioni materiali necessarie, una "rivoluzione socialista" (leggere Lenin, per credere, rispetto ad una Russia che aveva qualche mezzo per poter aspirare al banchetto imperialista, il che non vale per l'Iraq). Ovvio che nel nostro programma sta la rivoluzione socialista internazionale, e non una "tappa" intermedia. Ma altrettanto scontato che ci confrontiamo con la storia "invece di fare della morale o della filosofia" (metodo) che abbiamo messo in campo anche per quanto riguarda l'URSS di oggi, beccandoci l'accusa o il sospetto di stare con Gorbaciov e domani, chissà, con i suoi ex-"amici"!!!). In questione è l'anello cui afferrarsi per reggere l'insieme della catena. Ma i nostri critici, negando i fondamenti stessi della concezione marxista dell'imperialismo, negano al contempo la strategia marxista di lotta per la distruzione del sistema imperialista, anello e catena così come realmente sono.
E' qui che la nostra replica all'indifferentismo voleva approdare. Dal fatto che l'antitesi di fondo, globale di fronte a cui si trova il mondo intero sia quella tra capitalismo e socialismo non discende che tale sia anche, sempre ed ovunque, l'alternativa immediata dello scontro di classe, a prescindere dal complesso intrico di relazioni sociali e forze di classe (e modi di produzione, anche) risultante dallo sviluppo "diseguale e combinato" del capitalismo internazionale.
E' bene tenere costantemente a mente che in questa materia si è esposti da più lati, e non da uno solo. Come abbiamo avuto modo di dire ai compagni americani, il carattere organicamente unitario, internazionale, della rivoluzione proletaria non può essere, come da loro ci veniva rimproverato, "sovrastimato". Per il marxismo fin dal 1845-'47 la rivoluzione socialista ha un "terreno universale" creato dal capitalismo, il mercato mondiale, all'interno del quale "ogni popolo dipende da quello che accade presso un altro" ed in tutti i "paesi civili" matura la medesima contraddizione antagonistica tra borghesia e proletariato (Engels, Principi del comunismo). Lo svilup0po universale della forma sociale capitalistica non ha fatto che rafforzare enormemente i rapporti economici, sociali, politici, "ideali", etc., tra tutte le aree del mondo, arrivando a farne una vera e propria unità organica l'economia mondiale capitalistica quale sistema integrato (e non semplice somma algebrica) di assai ineguali economie e Stati "nazionali" tra loro inestricabilimente interconnessi.
E' su questo "terreno universale" che maturano e sono destinate ad esplodere le contraddizioni e gli antagonismi del capitalismo, e che il proletariato è chiamato ad agire da classe rivoluzionaria. L'intrinseca unitarietà della rivoluzione socialista a scala internazionale è dunque determinata dalla base materiale stessa che il modo di produzione capitalistico, suo malgrado, appresta al socialismo. La III Internazionale ha già formulato in modo definitivo, a livello di principio, che l'obiettivo del proletariato riv. è quella di "lottare con tutti i mezzi (...) per l'abbattimento della borghesia internazionale e la creazione di una repubblica sovietica internazionale", arma politica del proletariato per arrivare alla "completa eliminazione delle classi e (al)la realizzazione del socialismo". In modo altrettanto definitivo la III Int. ha stabilito che gli interessi della lotta proletaria in ciascun paese vanno subordinati agli "interessi comuni della rivoluzione su scala "internazionale" e che il partito del proletariato dovrà essere non a parole, ma "realmente e nei fatti (...) un partito comunista unitario di tutto il mondo", una organizzazione "rigorosamente centralizzata", le cui "singole sezioni" non devono intendersi altro che lo stesso "partito comunista unitario" operante nei diversi paesi.
Massimo crimini dello stalinismo è stato di sfigurare e poi demolire questo caposaldo teorico, strategico e organizzativo della rivoluzione socialista. Il tracollo dello stalinismo nell'Est e nelle aree più sviluppate non deve farci abbassare la guardia nei confronti di un pericolo, che è insito nelle stesse disuguaglianze del capitalismo mondiale: quello di uno stravolgimento a fini nazional-popolari della tematica internazionalista. Se è vero, infatti, che lo stalinismo si è contraddistinto nella pratica per la costruzione di capitalismi nazionali "statizzati", "popolarizzati", in qualche grado "indipendenti" dall'oppressione dell'imperialismo anche perché tra loro in qualche modo "fraternamente" ("internazionalisticamente") consorziati a scopo "difensivo", è evidente allora che lo stesso accentuarsi dell'oppressione imperialistica getta di continuo le premesse per una ripresa dei contenuti essenziali dello stalinismo, in ispecie nei paesi "periferici" (è bastato il goffissimo tentativo di "indurimento" della politica dell'URSS per suscitare, tanto nelle sedi governative terzomondiali quanto a livello di massa, una speranzella di cambiamento in senso "anti-imperialista" assai più estesa di quanto possa risultare dalle reazioni ufficiali). Senza dire che quando, finalmente, la crisi capitalistica arriverà ai suoi passaggi più catastrofici anche nel "centro" del sistema imperialistico, la prospettiva "nazional-popolare", quali che ne potranno essere le forme, si ripresenterà necessariamente come argine "rivoluzionario" alla rivoluzione proletaria (non fa forse capolino nella borghesia imperialista del "nostro" paese già oggi, che siano ben distanti da certe scadenze, qualche prima lamentela "anti-imperialista" rivolta contro l'"invadenza" statunitense e germanica? e non è forse al proletariato ed alle sue disponibilissime "rappresentanze" che in questo modo si getta l'amo?).
Ancora: come abbiamo visto con il Pcd'Ir. (e anche con il Map nicaraguegno, a parte il peso del ciclo controrivoluzionario, è l'estremo isolamento dalla metropoli in cui sono state relegate finora, dalla tenuta del sistema imperialista, le prime insurrezioni dei super- sfruttati della "periferia", che risospinge all'indietro, contro le loro "intenzioni", organismi rivoluzionari dimostratisi capaci di fare qualche passo nella direzione di un internazionalismo vero. E finché non occuperà la scena la forza determinante della lotta per il socialismo, la classe operaia dei paesi imperialisti, questa esperienza rischia di ripetersi.
Teniamo dunque ben presente che la realtà dello sfruttamento e della dominazione imperialista rigenera incessantemente le condizioni per tutta una gamma di forme di "anti-imperialismo" e di "internazionalismo" a contenuto di classe borghese e piccolo-borghese, nonché per camuffamenti anti-egemonistici degli imperialismi minori (nel secondo dopoguerra s'è giunti ad un paradosso anche più estremo: il massimo tra gli stati imperialisti che sventola la bandiera dell'"anti-colonialismo"). Tendiamo altrettanto presenti le insidie ed i danni arrecati, anche nel momento più luminoso della III Internazionale (2° Congresso, Baku) da una tattica non pienamente definita e scevra di ambiguità verso le borghesie nazionali e da un inquadramento non del tutto privo di incertezze e zone d'ombre del ruolo del proletariato metropolitano e del partito comunista verso e nel movimento nazional-rivoluzionario (le riserve di Bordiga in proposito sono anche le nostre e crediamo, nel nostro piccolo, di averne tenuto debito conto). Tanto più teniamo a mente la tragedia del nazional-bolscevismo, che curiosamente ci è stato ricordata per mezzo del potentissimo argomento dialettico: "Si sa come vanno certe cose: oggi è la volta dell'Iraq, domani sarete pronti a difendere l'Italia!", "Argomento" che potrebbe non essere, come è, una banale panzana solo a patto di: 1) avere l'OCI suggerito il blocco nazionale in Iraq, Medio Oriente o altrove; 2) avere l'OCI in qualche modo accostato Iraq ed Italia (o paesi imperialisti in genere). Chi riesce a "vedere" questo nella nostra linea, soffre di traveggole, non sappiamo se "infantili" o "senili" o le sue cose combinate assieme.
Checché fraintendano i nostri critici, per noi è chiarissimo che data l'estrema centralizzazione di capitali e di violenza organizzata posta in essere dall'estrema centralizzazione di capitali e di violenza organizzata posta in essere dall'imperialismo, più che mai la lotta contro il capitalismo si presenta come lotta internazionale unitaria del proletariato alla testa del fronte degli sfruttati. Ma questa lotta, data appunto... (come sopra), non si pone ovunque nell'identico modo e con gli identici compiti immediati. La stratificazione sociale e politica esistente nella "periferia" del sistema imp. non è semplice ricalco di quella delle metropoli: "Non abbiamo (in 'periferia') una normale" borghesia né una 'normale' democrazia, ma: (socialmente) una borghesia 'compradora' il cui rapporto con i 'padroni' imperialisti è tutt'altro che 'paritario', sia pur gerarchico; una sopravvivenza di forme sociali feudali, sempre funzionali ai meccanismi di dominio imperialisti (quindi: sopravvivenza dal punto di vista storico astratto, ma non dovuta ad un''arretratezza' cui rispondere con programmi 'anti-feudali'); una piccola borghesia produttiva e intellettuale (o militare) riottosa al dominio; una massa sterminata di proletari, semi-proletari, piccoli produttori in bilico tra il ruolo di piccoli accumulatori e la ricaduta nella proletarizzazione (peraltro sempre incompiuta -n.). E (politicamente): un apparato di controllo dipendente dall'imperialismo in funzione controrivoluzionaria verso il proletariato e le stesse ambizioni di rivoluzionamento 'borghese' non squilibrato." (Sinossi sulla Questione dei paesi oppressi e/o dominati dall'imperialismo, punto 7).
E' questo il quadro socio-politico da capitalismo "dipendente" entro il quale si sviluppa in Medio Oriente la lotta rivoluzionaria degli sfruttati. Ed è un quadro di sottosviluppo delle forze produttive, super-sfruttamento e doppia (o anche tripla) oppressione del (ristretto) proletariato e delle (enormi) masse lavoratrici povere che non evapora certo, ché anzi diviene più acuto per il fatto che la borghesia medio-orientale si ritrae dai suoi compiti "nazionali" e soffoca nel sangue "le masse popolari" insorte.
Singolare obiezione è quella di "Progr. com."! "Nel 1957-'58, quando scrivevamo i brani citati da 'Che fare', era ancora ipotizzabile un'insurrezione nazionale araba con tutti i riflessi positivi che, sia pure a scadenza non immediata, potevano conseguirne."; nel frattempo, però, questa possibilità è caduta perché: 1) il M.O. si è "ultraborghesizzato ed ultracapitalistizzato" (punto già discusso); 2) non ci sono più significativi "residui feudali" da liquidare (ma è della dominazione imperialista assolutamente non liquidata, che si tratta!); 3) la borghesia araba, "passata alla controrivoluzione aperta", non è più interessata a promuovere o dirigere l'"insurrezione nazionale" unitaria, difende, anzi, la "divisione imperialistica del M.O.".
Ora, pur volendo prescindere dal particolare che l'iniziativa irachena in Kuwait è stata un atto di... "materialisticamente reale" messa in discussione della diffusione imperialistica della regione (e per tale dall'imperialismo è stata punita), il crescente servilismo pro-Occidente delle borghesie arabe (non sta qui la divergenza) non rende affatto di per sé superata la necessità di un supplemento di rivoluzione democratico-borghese. Fa si, invece, che questo "secondo tempo" sia interesse sempre più esclusivo delle classi sfruttate e perciò nei fatti sempre più strettamente intrecciate siano in esso la lotta contro le borghesie medio-orientali e la lotta all'imperialismo, e sempre più ravvicinata la trascrescenza nella rivoluzione proletaria int. (ciò che non significa identità dei due momenti). In tanto potrebbe dirsi superato questo passaggio in quanto non si fosse consolidata quella "divisione imperialistica del M.O." che è stata ed è mezzo efficace proprio per tenere in scacco le potenzialità di sviluppo capitalistico del mondo arabo-islamico, ovvero in quanto, spezzata nel suo "centro" la macchina capitalista-imperialista, il proletariato metropolitano fosse in grado di mettere a disposizione delle masse arabo-islamiche insorte moderni strumenti di produzione sufficienti in quantità ed "equilibrati" per destinazione ai bisogni e di avviare lo smantellamento della produzione mercantile e del dispotico mercato mondiale. Senonché né l'una né l'altra ipotesi è, purtroppo, "materialmente reale".
No, quindi, alla tappa democratica come pre-condizione, per i singoli paesi o aree oppresse dall'imperialismo, di uno sviluppo "indipendente" ed "eguale" a quello metropolitano ("socialismo" nazionale), prospettiva completamente illusoria (o peggio che illusoria: vera eguaglianza tra i "popoli del mondo si darà soltanto con la soppressione rivoluzionaria dello sfruttamento (semplice e duplice), delle classi e degli stati). Sì alla ripresa ed alla radicalizzazione della rivoluzione democratica in Medio Oriente e nei paesi ex- coloniali e semi-coloniali con protagonisti il proletariato e le masse sfruttate come punto di partenza (e non punto di arrivo: chiara la differenza?) del processo (a catena) di sovvertimento dell'ordine imperialista che, a forza di scosse telluriche dalla "periferia", dovrà attizzare la lotta proletaria qui dando al movimento insurrezionale del Terzo Mondo il solo programma e la sola direzione capaci di portarlo ad una vittoria definitiva suul'oppressione imperialista, che coinciderà con la stessa liberazione del proletariato metropolitano. Nella attuale congiuntura storica, questo è il percorso obbligato per la saldatura dei due anelli della catena della "rivoluzione in permanenza" su scala mondiale e, prima ancora, per indebolire qui, da subito, la mortifera presa dell'opportunismo.
Crediamo con ciò di avere risposto anche all'impianto delle contestazioni rivolteci da "Il Partito comunista" (n. 1/1991), ragion per cui ci limiteremo a fare in proposito delle rapidissime annotazioni.
Ritornano, nella posizione de "Il Part. com." tutti i luoghi comuni dell'indifferentissimo (posizione che è prima teorica: indifferenza, appunto, per le "concrete determinazioni" e gli sviluppi storici fondamentali che caratterizzano i ... differenti aspetti della lotta di classe; e poi politica: "indifferenza di fronte ai movimenti anti-colonialisti"), ed in particolare:
a) l'Iraq, il "minuscolo Stato iracheno" - così scrive "Comunismo", n. 29 - che è parte di una regione, il M.O. che "da più di un secolo le potenze occidentali" hanno smembrato "a seconda dei loro interessi economici e politici" impedendo così "l'emergere delle grandi nazioni arabe", parte (non sembra dominante) di una regione di cui, sempre secondo i nostri contraddittori, le potenze occidentali "hanno e continueranno ad ostacolare lo sviluppo economico, esercitando (su di esse) una pressione economica, politica e militare"; ebbene questo Iraq, "minuscolo Stato" di una regione "da più di un secolo" smembrata e dominata dall'imperialismo occidentale, è uno Stato imperialista. Prove? Non servono: come per il confetto Falqui, "basta la parola"!
b) rifiuto della guerra in generale: "Le guerre contemporanee, da quella del 1914 in poi (c.n.), sono guerre non per la ripartizione della ricchezza, ma per la sua distruzione. (...) La guerra (ancora una volta in generale - n. ) è il contrario della rivoluzione, la sua negazione, la completa inversione del fronte di classe" (da Il marxismo riv. di fronte alla guerra del Golfo, febbraio 1991). E dunque: rifiuto metafisico e pacifista della guerra (si ricordi Il socialismo e la guerra di Lenin) e completa sconfessione (per giunta non dichiarata) della III Internazionale e della Sinistra e perfino delle posizioni espresse ripetutamente dallo stesso "Part. com.", per es. a proposito della rivoluzione cinese e della guerra anti-giapponese.
c) Ancora Proudhon, Görter o Serrati (altro che Marx, Lenin e Livorno '21!) sulla "questione nazionale" e "questione sociale": "La questione nazionale araba è ormai superata, nei paesi del Maghreb come nel Medio Oriente, dalla questione sociale". Il che è sbagliato in via di fatto (ne sa qualcosa anche "Comunismo" n. 29) e lo è pure sul piano teorico, dacché non s'intende che le insurrezioni nazionali hanno sempre un "contenuto sociale".
d) Nera confusione (che poi, paradossalmente, si rimprovera all'OCI...) tra interesse delle borghesie arabe ed interesse delle masse sfruttate arabe. Perché, infatti, non si darebbe più guerra nazionale araba? Perché "le borghesie e gli Stati arabi non fanno più nazionalismo (come ci provò, ultimo, Nasser), ma irredentismo anti-proletario". A parte l'imprecisione e l'esagerazione del giudizio storico e politico, c'è il solito qui pro quo: la borghesia araba ha cessato di essere anti-imperialista e dunque.... la guerra contro la dominazione imperialista, tutt'altro che cessata, è "superata" anche per le classi lavoratrici arabo-islamiche. A questa stregua nella Russia pre e post '17 sarebbe dovuta bastare la rinuncia della borghesia russa ad assolvere ai compiti borghesi-democratici per passare direttamente lì all'ordine del giorno puramente comunista ...
e) Indebita trasposizione della situazione europea del 1914-'18 a quella del Medio Oriente di oggi: nel Manifesto redatto da Trotzkij nel '19 non dei "piccoli Stati" in generale si parla, bensì dei "piccoli Stati" dell'Europa (anche a proposito dei quali, comunque, non si perita di denunziare le oppressioni e le violenze degli "imperialisti dell'Intesa"). Lo stesso Manifesto contiene l'attacco (tuttora attualissimo, e perciò dimenticato come "superato" da tutti gli "internazionalisti puri") al "programma di Wilson" (di Busch, di Mitterrand, di Andreotti....) di "mutare (soltanto) l'etichetta della schiavitù coloniale" lasciandone intatta la realtà di sfruttamento; e contiene l'appassionato (non per questo "sentimentale") saluto dell'Internale alle "aperte rivolte" ed ai "fermenti rivoluzionari in tutte le colonie", la cui liberazione - afferma Trotzkij - "è possibile soltanto parallelamente alla liberazione della classe operaia nelle metropoli". (Più puntuale ancora, contro l'a lui ben noto indifferentismo, sarà in seguito Bordiga: "I movimenti anti-coloniali fanno parte vitale della prospettiva della lotta comunista in modo non semplicemente parallelo, ma convergente" - Prospettive rivoluzionarie ..., p. 191. Ma è da rimeditare a fondo anche la replica di Trotzkij a Görter del novembre 1920, in cui è perfettamente centrato il "tallone d'Achille" dell'"estremismo" di ieri come di oggi: affrontare i problemi della rivoluzione mondiale "da un angolo visuale insulare inglese (occidentale, metropolitano - n. ), dimenticandosi dell'Asia e dell'Africa e perdendo di vista il nesso tra la rivoluzione proletaria in Occidente e le rivoluzioni nazionali contadine (oggi non soltanto contadine - n. ) dell'Oriente". Tutte quisquilie d'"un millennio addietro", si sa...).
Nonostante questa consonanza di fondo tra "Il Partito com." e le altre formazioni "puriste", le obiezioni direttamente rivolte alle nostre posizioni sono, tra tutte, le meno arroganti ed insensate. Vediamole.
Saremmo caduti nel sentimentalismo per esserci "genericamente" appellati alla lotta delle masse arabe "indipendentemente dal giudizio sulla salute delle forse proletarie, sia nei paesi metropolitani che nelle aree differenziate (?) dello sviluppo capitalistico". Ora, in una fase nera, quale è quella che - nel complesso - da decenni stiamo vivendo, questo argomento dovrebbe inibire a noi come ai nostri contraddittori ogni "appello", se così lo si vuol chiamare. Altra è però la questione: esiste o no un soggetto/oggetto che abbia ragioni di rivoltarsi ed un soggetto sfruttatore da fare oggetto della nostra lotta? Se sì, si dovranno senz'altro studiare i rapporti di forza e tutto il resto prima di ... passare all'azione. Sappiamo bene che non siamo ancora alle parate degli schieramenti di massa (l'OCI non pretendeva affatto di "agitare" i medio-orientali, tra l'altro): si tratta di schierare su principi e teoria dei minuscoli contingenti d'avanguardia, e proprio su questi divarichiamo da certi strani "eredi" della Sinistra che ne rivendicano l'eredità per dissiparla alla bell'e meglio.
Criticato il nostro sentimentalismo, così si prosegue: "fatto salvo che il nostro cuore, non c'è bisogno di dirlo, sta dalla parte degli sfruttati, non siamo neanche disposti a dire che l'importante è che le 'masse' lottino, non importa a fianco di chi, fosse esso Saddam Hussein". Eppure esattamente quel che dicono i maestri del marxismo. Se l'analisi relativa all'oggetto dello scontro è esatta, non ha importanza "a fianco di chi" si mettono le masse, nel senso che una vera lotta, per la sua stessa dinamica, colpisce chi sta di fronte e chi... sta a fianco. Le "code" della guerra alle quali si allude dimostra solo che questa lotta si è fermata ad un dato punto, ancora estremamente basso rispetto alla bisogna. Quanto poi a fare di Bassora la "città proletaria" che quasi quasi riedita la Comune e perciò si becca la reazione di Saddam "appoggiato" dagli USA, siamo alla fantascienza; e se per ipotesi ciò fosse vero, non si capisce perché il dubitativo "se ci sono" riferito alle organizzazioni proletarie irachene. (Ci permettiamo di segnalare ai redattori de "Il Part. com." la presa di posizione dell'ayatollah Mohammad Taki Modaressi, uno dei massimi punti di riferimento (il n. 2, secondo le classifiche correnti) degli iracheni di tradizioni sciite della provincia di Bassora, nei giorni della rivolta: "L'America ci ha abbandonati, gli alleati si sono fermati nel momento cruciale. Hanno mollato, invece di portare a termine la loro straordinaria operazione (!!!) e tagliare la testa a Saddam. (...) Esiste un rischio grave, che l'Occidente deve considerare, il rischio che se l'America e l'Europa non l'appoggeranno, il popolo iracheno accumulerà un serio complesso di frustrazioni, sviluppando (badate bene al "semi-comunardo"! n. ) un governo assai più radicale - di sinistra o musulmano - di quello che potremmo costituire adesso. Più passa il tempo, più aumenta il pericolo, con un effetto di trascinamento sui paesi del Golfo già schierati contro Saddam: questo leader della corruzione (e ciò dell'istigazione "anti-imperialista" - n. ) va annientato al più presto. E' l'unico sistema (sentitelo il delizioso riferimento all'"indimenticabile '89"! - n. ) per garantire, come è appena successo in Europa, un nuovo, migliore ordine internazionale". (intervista e "la Repubblica", 26 marzo '91). Ora, per restare ai riferimenti storiografici cari a "Comunismo": tendenza proudhoniana o tendenza blanquista? Alla napoletana, se permette: tendenza dei fetiente e' merda).
Terza contestazione: non sono gli USA il "gendarme unico", bensì "il Capitale" e "tutti gli Stati" borghesi. Anche l'OCI non è "semplicemente" anti-americanista, ma proprio Bordigia, nella polemica con Damen, ha parlato di "gendarme n. 1", senza abbattere il quale non si può abbattere "il Capitale come modo di vita" (!) e nell'Appello del 1951 si fa differenza tra disfattismo anti-USA e non appoggio all'URSS (quest'ultima essendo in ogni caso metropoli!). Se poi mettiamo assieme USA ed Iraq, si vedrà che la cosa è ancora più complicata. Inutile risponderci: là non c'è più una "funzione anti-feudale" da compiere che giustifichi "l'alleanza proletaria con le borghesie rivoluzionarie"; infatti - per noi - non si tratta di questo, né come "tema" né come soggetti dell'alleanza.
Un'ultima nota sulla questione curda. Per "Il Part. com." essa "non (è) più risolvibile sul piano nazionale", ma "sul piano di classe, solo nel quadro di una rivoluzione sociale che instauri una dittatura proletaria a scala internazionale". Nella impostazione marxista del problema l'"irrisolvibilità" sino in fondo porta ad afferrare l'anello prossimo della catena; qui, come al solito, si salta al terminale. O la rivoluzione internazionale, o dittatura prol. mondiale o niente. Ed ovviamente sarà sempre niente, visto che la "sintonia" richiesta non può venire dalla base materiale, ma potrebbe solo derivare da una Comune Idea sul "Comune" Modo di Vivere Capitalistico (la nozione di imperialismo, naturalmente, sparisce, visto che essa presuppone il contrario dell'"eguaglianza" di posizione).
***
La "chiarezza di classe" invocata da "Progr. com." impone la seguente conclusione politica: data la sua (non troppo) "originale" concezione dell'imperialismo, agli occhi dell'"internazionalismo ultrarivoluzionario" la sollevazione del proletariato e degli oppressi arabo-islamici al fianco del popolo iracheno è apparso come il puro e semplice pecoronesco arruolamento degli stessi dietro "il rais di turno" e, fornendo un attivo supporto ad uno dei due schieramenti imperialisti in conflitto nella guerra del Golfo, è andata nel senso diametralmente opposto rispetto agli interessi del proletariato. Ma se la classe operaia d'Occidente è ferma (o quasi) e il proletariato e le masse diseredate del mondo islamico in moto sono precipitati nell'abisso dello "sciovinismo" iracheno o - "ancora peggio" - "arabo" ed "islamico", allora la partita tra capitalismo e comunismo non può che essere, per un lunghissimo arco di tempo (facciamo un millennio ... avanti?), chiusa. Ed in effetti, al di là dei rituali appelli a proseguire la militanza per il comunismo che rimangono sempre più librati nel vuoto, quella che si respira nell'area indifferentista (in curiosa consonanza con gli ambienti del riformismo più o meno sbracato) è una plumbea atmosfera da nuova sconfitta storica, un secondo 1926 ma senza l'Ottobre.
Senza negare nessuna delle aspre difficoltà del presente, rifiutiamo - insieme con le aberrazioni teoriche del "purismo", anche la sua allucinata visione semi-marcusiana nella quale scompare la lotta di classe degli sfruttati e giganteggia la borghesia. Il fatto "materialmente reale" è questo: mentre il capitalismo imperialista, spinto dal caotico acutizzarsi delle proprie contraddizioni, mobilita ogni sua risorsa per prepararsi alle grandi battaglie campali con il proletariato internazionale che sente avvicinarsi inesorabilmente battaglie (di cui la guerra del Golfo è stato un pallido anticipo in condizioni per noi molto sfavorevoli), l’"internazionalismo puro" smobilita in partenza i suoi stessi effettivi nelle cittadelle imperialiste ed addirittura inveisce, accentuandone (per quel che può) le difficoltà, contro i primi contingenti di sfruttati della "periferia" che, in ardue condizioni di isolamento e perciò al momento dietro direzioni non certo coerenti con i propri interessi, hanno dovuto accettare lo scontro sanguinoso con gli "astri di prima grandezza" del sistema imperialista, dando prova di voler combattere. Altro, dunque, che "disfattismo rivoluzionario"! Quello dei vecchi e dei nuovi indifferentisti (e per taluni questa qualifica suona già un po’ troppo blanda) è disfattismo verso la rivoluzione.
Resterebbe da spiegare i l perché di questa deriva, che non è –comunque- un fulmine a ciel sereno. Ma siamo già andati troppo per le lunghe.
Agosto 1991
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA
[Home] [top] [torna alle pubblicazioni]